Titolo: LA CONQUISTA DELLA PALESTINA
Sottotitolo: Le origini della tragedia palestinese
Autore: Giancarlo Paciello
  
Casa editrice: C.R.T.
Genere: Saggistica
Lingua: Italiano
  
Adottabile: Si
Disponibilità: no
Formato: cartaceo
  
Settore: Palestina

[Rif. 267] Stampato anno: 2005 - Num. pagine: 301 - Costo: 20 Euro

Intervista all'autore.

(Domanda) Il titolo del tuo libro “La conquista della Palestina” capovolge i parametri interpretativi correnti relativi al conflitto tra palestinesi e israeliani e si riferisce esplicitamente, invece, alla colonizzazione sionista. Come è avvenuta questa colonizzazione e perché viene rimossa da molti che si dicono amici dei palestinesi?

Mi occupo da trentacinque anni della “questione palestinese” e ho percorso anch’io l’iter conoscitivo al quale fai riferimento, un iter disorientante e che lasciava abbastanza in ombra gli abitanti arabi della Palestina. Allora si parlava di scontro arabo-israeliano, si partiva perciò da uno Stato d’Israele già esistente e da un insieme di paesi arabi uniti contro quello Stato. In questo modo si perdevano le tracce sia delle origini dello Stato d’Israele, sia degli abitanti della Palestina.

Si raccontava di uno Stato ebraico nato dal senso di colpa dell’Occidente per il genocidio nazista e come espressione della comunità internazionale che aveva dato vita, da poco, all’Organizzazione delle Nazioni Unite (O.N.U.). Si perdeva in questo modo qualsiasi collegamento con la politica dei Mandati della Società delle Nazioni, tipica espressione della politica imperialista delle due potenze uscite vincitrici dalla Grande Guerra, Francia e Gran Bretagna. Si capiva anche poco perché la Palestina era stata scelta come territorio per questo nuovo stato, anche se i riferimenti del Vecchio e del Nuovo Testamento parlavano degli ebrei come abitanti di questa terra, duemila anni prima e anche più.

Un libro stupendo del compianto Massimo Massara, “La terra troppo promessa”, con un sottotitolo che lasciava poco spazio all’immaginazione, “Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina”, ha rappresentato per me, per dirla con Kuhn, la discontinuità e il relativo cambiamento di paradigma per la comprensione del problema palestinese. Immagina che questo libro si conclude analizzando il testo del Mandato relativo alla Palestina, in sostanza il piano di spartizione del defunto Impero ottomano, tra francesi ed inglesi! Siamo nel 1922, molto lontani dal genocidio nazista, a 25 anni dalla creazione dallo Stato d’Israele, mentre il sionismo aveva già fatto molto sul piano della colonizzazione in Palestina, creando una trentina di colonie, aveva tenuto il suo congresso di fondazione a Basilea, nel 1897, e dopo aver brigato presso tutte le Cancellerie europee e anche presso il Sultano della Sublime Porta, aveva infine trovato, nella Dichiarazione Balfour, il sostegno dell’imperialismo inglese alla costruzione di un focolare nazionale ebraico in Palestina.

Tutto dunque era nato assai prima, insieme con quello slogan, ancora in auge tra troppa gente, “Una terra senza popolo, per un popolo senza terra”, che condannava i palestinesi, che costituivano la grande maggioranza nella loro terra, ad una non-esistenza, mentre gli ebrei, i sionisti per l’esattezza, gettavano le basi per uno stato etnico, o meglio, teocratico. Sai bene che la guerra del 1948 viene chiamata dagli israeliani “guerra d’indipendenza”, (che Sharon ha spesso detto di non essere ancora finita), ma indipendenza da chi? Dagli inglesi, ovviamente, dal momento che, dopo essere stati favoriti in ogni modo dalla perfida Albione, i sionisti non tolleravano la gestione inglese del Mandato che comportava qualche equilibrismo con la popolazione autoctona (e maggioritaria) e qualche limitazione all’immigrazione in Palestina. E così si giunse nei primi anni ’40 ad una pratica terroristica contro palestinesi ed inglesi, condotta dall’Irgun e dalla banda Stern, guidata la prima dal futuro premio Nobel per la pace, Menachem Begin mentre nella seconda si faceva le ossa Isaac Shamir, che non riceverà il premio Nobel, ma diventerà primo ministro in Israele.

Per rispondere alla parte finale della domanda, penso che questi amici dei palestinesi preferiscano servirsi dell’”oscena equidistanza” che li tiene al riparo dalla peggiore delle accuse, quella di antisemitismo, molto corrente verso chi non accetta la vulgata sionista. Anche se, così facendo, finiscono con l’avallare una tesi spesso in uso, che non spiega nulla, quella degli opposti estremismi. In particolare, in Palestina invece di esserci un occupante ed un occupato, un oppressore ed un oppresso, ci sarebbero estremisti sionisti ed estremisti palestinesi, cui è semplice attribuire la qualifica di terroristi. Begli amici!

(domanda)In quale rapporto sta il progetto sionista rispetto agli obiettivi imperialisti in Medio Oriente? In altri termini,il conflitto in Palestina quale valenza reale ha?

Per molto tempo la formulazione dello Stato d’Israele come avamposto dell’imperialismo americano ha fatto parte del catechismo della sinistra. Io penso che si trattasse di una formulazione schematica e anche per certi versi falsa. Non dimentichiamo che lo Stato d’Israele nasce con il voto favorevole del mondo comunista, URSS in testa. E che nel 1956, l’attacco all’Egitto di Nasser che aveva nazionalizzato il canale di Suez, viene condotto da Francia, Gran Bretagna ed Israele, e saranno proprio USA e URSS a bloccare quell’impresa di imperialismi in declino! Soltanto dopo il 1967 si può parlare di un’alleanza strategica USA-Israele, che lo Stato ebraico non subisce, in forza dei condizionamenti della lobby ebraica anche sul piano elettorale. Oggi, io parlerei addirittura di uno Stato d’Israele capace di condizionare l’evoluzione della guerra in Iraq, dal momento che nei disegni strategici israeliani l’idea di uno spappolamento del Medio Oriente su base etnica e/o religiosa è sempre stata presente. In Palestina oggi si attenua l’idea del Grande Israele nella misura in cui si fa attuale quella del Grande Medio Oriente, all’interno del quale lo Stato d’Israele e la Turchia (entrambi, anche se per motivi diversi) giocherebbero un ruolo essenziale.

Molti che in Italia si dicono amici dei palestinesi ripetono che bisogna riavviare il processo di pace, ma esiste davvero un’ipotesi credibile in questo senso?

Il processo di pace è morto e sepolto. La Road map, che ne ha preso il posto, non è un processo di pace, dal momento che è lo Stato d’Israele a deciderne l’evoluzione e che non pone alcun vincolo agli israeliani (che possono continuare ad ampliare colonie e a costruire il Muro della Vergogna, in totale dispregio delle decisioni della Corte Suprema dellìAja) e pone all’ANP l’obbligo di fermare la lotta armata, cosa non alla sua portata. Di fatto si tratta di un processo unilaterale, che ignora l’esistenza dei palestinesi, cosa che riesce facilmente ai sionisti, come abbiamo già visto! Lo sgombero della Striscia di Gaza ne è un tipico esempio.

Unica possibilità, del resto assai remota, è quella che l’ONU, attualmente a mezzo servizio dagli USA, chieda il rispetto delle risoluzioni 242 e 338, in modo che cessi un’occupazione che dura da 39 anni, e i palestinesi possano dar vita ad un loro Stato sul 22% della Palestina mandataria.

(domanda)Quali sono i contenuti su cui bisogna basare il movimento di sostegno alla causa palestinese?

La mia più profonda convinzione relativa allo scontro israelo-palestinese si può riassumere in una sola parola: Colonizzazione. E’ infatti questo il senso primario, rigoroso, antico dell’insediamento sulla terra di Palestina dei primi coloni venuti dall’Europa. Popolano delle terre, le coltivano e le valorizzano. Così l’America fu colonizzata dai Bianchi, la Spagna dai Romani, l’Africa dagli Europei. Avendo questi ultimi conservato, al di fuori delle colonie, i loro Stati detti “metropolitani”, è perciò piuttosto all’America dei pionieri che il primo Israele avanti lettera, quello delle prime aliya (salita, ritorno in ebraico), rassomiglia di più, anche nell’atteggiamento verso gli autoctoni.

Zeev Sternhell, nella sua opera “Nascita d’Israele”, di cui pubblico buona parte dell’introduzione all’edizione francese, ha mostrato bene come lo spirito pionieristico e socialisteggiante degli inizi del sionismo è presto servito di copertura ad ambizioni nazionalistiche infinitamente più aggressive. Con la spartizione del 1947, la colonizzazione ha assunto un aspetto di conquista, le popolazioni sopravvissute alla dispersione hanno ricevuto lo statuto dei “nativi” di tutte le colonie conosciute: impero delle Indie, Africa occidentale o orientale francese… E così, dalla colonizzazione si è passati al colonialismo.

Uno stadio superato con la guerra dei Sei Giorni. Sulla parte della Palestina dove si trovano “colonie” preesistenti alla spartizione del 1947 (occorre ricordare che Ben Gurion, all’atto della spartizione, si era impegnato a non abbandonarle), viene ormai esercitata brutalmente una “occupazione” militare. Situazione ben nota e definita storicamente: stato d’emergenza, coprifuoco, violenze contro gli arabi, distruzione di villaggi e di piantagioni…

In compenso, l’insediamento di “coloni” nelle zone occupate, è una novità storica di cui esistono pochi esempi: i tedeschi non hanno impiantato colonie né in Francia né nella Boemia occupata. Questo ritorno alla colonizzazione delle origini colpisce; si costruiscono villaggi o fattorie su di una terra dove il vostro esercito staziona per motivi di sicurezza? Si è detto: la parola “territori occupati” è impropria; occupazione è un eufemismo (se così si può dire!) per annessione. La colonizzazione dei territori svela l’ultima verità sui motivi dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza. “Colonizzando” queste terre, all’indomani della guerra dei Sei Giorni, e continuando in questa colonizzazione ancora oggi, con la costruzione del Muro della Vergogna, gli Israeliani non riconoscono forse chiaramente che questa guerra è stata un’occasione per potersi insediare in quella parte della Palestina che non era stata concessa loro nel 1947, ma che essi non avevano smesso di considerare come propria? E che non avevano alcuna intenzione di lasciarla più? L’atteggiamento dell’attuale governo israeliano e il suo disprezzo per tutto il processo di pace lo provano senza ambiguità.

Questa neo-colonizzazione è del resto contrassegnata da tratti, ancora una volta, particolarissimi: essa non si nasconde mai dietro il pretesto - o le necessità dello sviluppo. La presenza israeliana in Cisgiordania e a Gaza non ha contribuito in alcun modo allo sviluppo della terra conquistata. Per trentanove anni, Israele non ha costruito strade e infrastrutture che per i coloni. Invece di costruire scuole ha chiuso università, e non ha aperto ospedali per gli “indigeni”. La “colonizzazione” si contenta di confiscare a suo vantaggio le risorse locali, soprattutto d’acqua, e di sfruttare la popolazione.

Ma qui, e paradossalmente proprio sulla loro terra, gli Arabi residenti in Israele costituiscono una categoria di immigrati, destinata a subire tutti i soprusi. Quando lavorano in Israele, gli abitanti dei Territori e di Gaza costituiscono un ulteriore categoria, poiché emigrano ogni giorno e rientrano a casa loro ogni sera…

Il regime al quale Israele è politicamente e ideologicamente più vicino, è il Sudafrica prima del 1992. Ancora di più ora, dal momento che le ex “zone liberate” costituiscono, in Cisgiordania, altrettanti bantustan.

Non credo perciò che si possa immaginare altra prospettiva che non si fondi su di una lotta di liberazione nazionale. E’ per questo che penso che il sostegno che si può portare alla causa palestinese non può prescindere da una denuncia sistematica della logica colonialista dell’ideologia sionista e dunque riaffermare l’illegalità nella quale opera lo Stato d’Israele che purtroppo continua ad agire come se la risoluzione 181 dell’Assemblea generale dell’ONU, che lo ha fatto nascere, fosse un atto dovuto ed invece la nascita contemporanea di uno stato arabo fosse un optional, una concessione al mondo arabo non necessariamente da realizzare.

Queste considerazioni facevano parte di un mio scritto del 2000

1. Il popolo palestinese vive da più di un secolo una situazione assai drammatica. Sempre incentrata sulla perdita della terra e dunque dei beni, in primo luogo la casa, ma anche e soprattutto dello spazio identitario che fa dire a ciascuno di noi di essere di un tal posto, con riferimenti inequivocabili ad una determinata cultura e tradizione.

A mio parere, questa situazione drammatica ha attraversato quattro fasi, diverse per la durata e per la gravità della perdita:

Una prima fase, compresa nella prima metà del ventesimo secolo, caratterizzata da espulsioni che seguivano l’acquisto di terre da parte del Fondo Nazionale Ebraico, vissuta in prevalenza come drammi individuali, una seconda, iniziata nel 1948, a causa della guerra seguita alla spartizione della Palestina, che oltre la perdita della terra comportò l’espulsione dal territorio per oltre 750.000 palestinesi, vissuta come un dramma collettivo, una catastrofe, la Nakba appunto, una terza, dalla guerra del 1967 al 1993, a causa dell’occupazione militare, che tuttora perdura e che ha favorito e protetto la colonizzazione dei territori occupati anch’essa decisamente collettiva, e infine una quarta fase, quella attuale in cui, ad un modesto avvio di sovranità (sempre e comunque limitata), ha fatto seguito un’offensiva israeliana che mette in discussione addirittura la sopravvivenza del popolo palestinese .

Sembrava che l’avvio del processo di pace potesse porre fine a questa serie infinita di sofferenze, favorendo finalmente la nascita di uno Stato palestinese. Ma così non è stato. Il definitivo fallimento delle trattative a Camp David nel luglio del 2000, unito alla protervia dell’attuale primo ministro israeliano Ariel Sharon, noto anche come il macellaio di Sabra e Chatila, hanno innescato una rivolta, che dura ormai da più di undici mesi.

La nuova intifada è scoppiata infatti il 28 settembre del 2000, quando è apparso chiaro il fallimento delle trattative a Camp David, durante le quali Clinton aveva tentato di spacciare come accordo di pace, una feroce imposizione ad una dirigenza palestinese endemicamente debole e senza alcun successo da poter attribuire alla sua politica di compromesso, e, per completare l’opera, Sharon, con le scarpe chiodate, aveva calpestato il terreno più sacro per i palestinesi a Gerusalemme, la Spianata delle Moschee. E, purtroppo, non esiste ragione alcuna perché essa si arresti.

La tracotanza con cui Barak, (prima ancora di Sharon), da sempre contrario al processo di pace, ha condotto sia le trattative di pace che le azioni di guerra non ha lasciato scampo a chi, come il popolo palestinese, da trentaquattro anni sotto un regime di occupazione militare, ed una ossessiva colonizzazione, volesse difendere la propria dignità, continuamente calpestata sul piano della quotidianità oltre che su quello della ormai storica espropriazione della terra.

A maggior ragione, con Sharon, pur nella impari condizione, il popolo palestinese non ha scampo, non può che contrastare in ogni modo la potenza militare israeliana, pena la sua riduzione a pura appendice, preludio sicuro della propria scomparsa.

Di fronte a questa situazione, in Occidente, non solo non si è levata nessuna voce ufficiale (della Comunità Europea o almeno di qualche Stato componente), di recente tanto interessate al diritto internazionale ed ai diritti umani in particolare, (e l’Italia di sinistra, capace di aver fatto l’ignobile e feroce guerra alla Jugoslavia, sbandierando proprio questi diritti, ha trovato anche il modo di astenersi all’ONU, sul voto che condannava l’uso eccessivo della forza d’Israele contro i palestinesi), ma si è anche avviata una campagna di disinformazione che punta a presentare i palestinesi come soggetti immaturi e massimalisti, incapaci cioè di saper cogliere le generose offerte dello Stato d’Israele, oltre che violenti e terroristi.

Giancarlo Paciello