L’emigrazione come atto politico

Il governo israeliano non ha garantito la  fattibilità di una soluzione a due stati e l’apartheid è già arrivato. Non voglio sacrificare il futuro dei miei figli per una lotta senza speranza.

Na’aman Hirschfeld, Published August 5, 2016

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“Emigrare a Berlino è stata una scelta per cercare la libertà dalla disperazione.” Foto illustrativa di israeliani che salgono a bordo di un aereo in partenza dall’aeroporto Ben-Gurion. (Moshe Shai / Flash90)

L’emigrazione di giovani israeliani a Berlino è preoccupante “perché sono proprio queste giovani donne e uomini che sono necessari in Israele”, spiega Uri Avery,  il veterano attivista di sinistra,   in un recente editoriale su Haaretz (ebraico). “Sono proprio coloro che hanno energia, iniziativa, le persone in cerca di libertà, che sono necessarie per salvare lo stato dalle mani di Netanyahu e dei suoi collaboratori.”
“La scusa comune [per l’emigrazione] è la disperazione” afferma Avery, sottolineando che in questo modo il crollo della democrazia israeliana sarà assicurata: “se tutti coloro che sono in grado di resistere a questo processo si arrendono e si spostano verso i  Caffè di Unter den Linden .”

Tutto ciò porta Avery a lanciare un appello ai “meravigliosi giovani di Berlino” per tornare in Israele e “rivoltare la politica, organizzare, cambiare le cose, formare nuove forze, [e] prendere il controllo del governo.”

Per questo io rispondo: no grazie. Non voglio sacrificare il futuro dei miei figli per una lotta senza speranza. La disperazione è infatti il motivo per cui me ne sono andato,  per la presente catastrofe che si sta gradualmente svolgendo sotto i nostri occhi. Disperazione per il lavaggio del cervello, per la propaganda, per le Pubbliche Relazioni e l’inganno intenzionale. Mi disperavo per i  mostri assetati di sangue intossicati di paura e odio.

Disperato dell’israelianità, che è stata svuotata di ogni sostanza al punto che ciò che rimane è solo la negazione degli altri. Mi disperavo per il cinismo del governo, della incompetenza del suo establishment, e della corruzione sempre più diffusa. Ma, soprattutto, mi disperavo di disperazione.

Contrariamente al punto di vista che la disperazione è semplicemente un sottoprodotto o un effetto secondario della “Ha’Matzav” (letteralmente della”La situazione” – gli israeliani interpretano colloquialmente la realtà dell’occupazione e del conflitto come uno “stato delle cose” predeterminato), disperazione è infatti uno strumento politico primario: è una forza palpabile nella società israeliana che definisce un aspetto essenziale della condizione di Israele. Se Ha’Matzav – quella cosa che lega gli israeliani in un “noi” -ci è stata tolta, chi e che cosa saremmo? L’israelianità è defunta, è fallita sia ideologicamente che moralmente.

Ciò che rimane come un terreno comune è lo stato di emergenza, la lotta esistenziale e l’esperienza collettiva di essere con le spalle al muro. La disperazione collettiva è quindi essenziale per la coesione sociale, e, alla fine, gli israeliani hanno bisogno e vogliono la “loro” disperazione.

Qual’è  l’alternativa a questo nella credenza della democrazia israeliana ? Si può credere, come Avnery, in un “futuro di due paesi amici, che possano esistere fianco a fianco in una patria comune”? No.

Questa è una falsa coscienza. Il governo israeliano ha garantito la non fattibilità di una risoluzione diplomatica, e il futuro derivante da queste azioni governative – uno stato di apartheid – è di fatto già realizzato.  Per il momento l’apartheid è (ancora) solo realizzato nei fatti e non normato a livello legislativo, ma che importa?

L’intero sistema di Israele si fonda su “fatti concreti”, creando un netto divario tra il modo in cui le cose sono e il modo in cui appaiono. Inoltre, anche se le varie cerimonie istituzionali definiscono Israele una democrazia, questa è in realtà un etnocrazia radicale – essenzialmente uno ‘Stato-sangue’, nel senso völkisch (ndt. della razza). Cosa significa essere  ebrei israeliani senza il concetto di sangue ebraico? Cos’è Israele senza la separazione e distinzione tra sangue ebraico e arabo? Oggi  Israele non è più in grado di offrire una risposta diversa dal sangue e dalla disperazione.

Emigrare a Berlino è stata una scelta per cercare la libertà dalla disperazione. Lasciando, ho scelto di smettere di sguazzare nella impossibilità, per dare ai miei figli il dono più grande che ho potuto – la libertà dell’autodeterminazione, e per liberare me stesso da una esistenza contrassegnata da antagonismo e lotta costante. Contrariamente al modo in cui l’establishment israeliano interpreta l’emigrazione, quando lasci   Israele, non abbandoni l’ebraismo, la cultura israeliana,  o metti in salvo la pelle per sottrarti alle proprie responsabilità.

Al contrario: andar via significa  assumersi la piena responsabilità di se stessi. Come tale, l’emigrazione è anche un atto politico. Certo, si tratta di un atto limitato, ma è ancora un atto con  contenuto e significato, e, forse nel lungo periodo e se abbastanza persone scelgono di emigrare, si avrà un certo grado di influenza. Non c’è molto conforto in questo, ma almeno c’è un po’ di speranza.

 

Na’aman Hirschfeld è un dottorando presso l’Istituto di Studi Culturali dell’Università Humboldt di Berlino. Questo testo si basa su un editoriale in ebraico che è stato pubblicato su Haaretz (31 luglio, 2016) con il titolo “Lo Toda, Ani Nish’ar Be’Berlin” ( “No grazie io resto a Berlino”).

 

Trad. Invictapalestina.org

fonte: http://972mag.com/emigration-as-a-political-act/121168/

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