Il duraturo elogio funebre di Gaza di Moshe Dayan: Questo è il destino della nostra generazione

foto copertina: 08 gennaio 2017, camion lanciato contro soldati israeliani.

fotostorica
Il primo ministro Golda Meir, a destra, il ministro della Difesa Moshe Dayan, centro, tra i soldati dell’IDF nelle alture del Golan durante la guerra del Kippur.

Chemi Shalev Jul 20, 2014 8:57 PM

Il discorso commemorativo di Dayan sulla «marea di odio e di vendetta» oltre confine suona giusto anche oggi: o come una realtà immutabile oppure come una profezia autoavverantesi.

Didascalia della foto: Il primo ministro Golda Meir (a destra) e il ministro della Difesa Moshe Dayan (al centro) incontrano i soldati dell’IDF sulle Alture del Golan durante la guerra dello Yom Kippur.

Il 29 aprile 1956 Roy Rotenberg, 21enne agente di sicurezza del kibbutz Nahal Oz, venne ucciso da predoni arabi vicino al confine con Gaza, a breve distanza dalla zona in cui l’IDF ieri [19 luglio 2014, N.d.T.] ha perso 13 soldati. Gli aggressori di Rotenberg hanno portato il suo corpo oltre il confine, l’hanno mutilato e poi consegnato agli osservatori delle Nazioni Unite. Il capo dello stato maggiore dell’IDF Moshe Dayan, che aveva incontrato Roy pochi giorni prima, ha partecipato al suo funerale e ha pronunciato un elogio che ha resistito per più di mezzo secolo come una pietra miliare fondamentale dell’eterna lotta di Israele contro i suoi vicini del Sud.

Con una squisita prosa ebraica ricca di riferimenti biblici, Dayan ha stupito i suoi ascoltatori dipingendo in modo brutalmente candido gli assassini di Rotenberg, il loro collegamento alla terra contesa e le loro motivazioni.

«Ieri all’alba Roy è stato assassinato. La quiete della mattina primaverile lo aveva accecato, e non ha visto coloro che, nascosti dietro i fossati, lo volevano morto. Non dedichiamoci oggi a gettare biasimo sui suoi assassini. Che cosa possiamo dire del loro odio terribile verso di noi? Da otto anni si trovano nei campi profughi di Gaza e hanno visto come, davanti ai loro occhi, abbiamo trasformato la loro terra e i loro villaggi, dove loro e i loro antenati abitavano in precedenza, facendoli diventare casa nostra».

Ma il riconoscimento di Dayan della rabbia dei profughi non lo ha portato alla stessa posizione di pace onnicomprensiva che avrebbe adottato dopo la guerra del 1973, alla fine della carriera. Al contrario, sono i «pacifisti» della sua generazione – critici nei confronti delle politiche militari propugnate da David Ben Gurion contro i Fedayeen – l’obiettivo principale della sua critica. Come lo storico Benny Morris spiega nel suo libro Le guerre di confine d’Israele, Dayan ha detto: «Non è tra gli arabi di Gaza, ma proprio in mezzo a noi che dobbiamo cercare il sangue di Roy. Com’è successo che abbiamo chiuso gli occhi e ci siamo rifiutiati di guardare onestamente il nostro destino e vedere, in tutta la sua brutalità, il destino della nostra generazione?

«Dietro il fossato del confine sale una marea di odio e di vendetta, vendetta che guarda al giorno in cui la calma ottunderà la nostra coscienza, al giorno in cui sentiremo gli ambasciatori dell’ipocrisia maligna che ci chiederanno di abbassare le armi. A noi e solo a noi fa appello il sangue di Roy, che sgorga dal suo corpo straziato. Dato che abbiamo giurato mille volte che il nostro sangue non sarà versato facilmente – e tuttavia ancora ieri eravamo tentati, abbiamo ascoltato e abbiamo creduto».

«Facciamo il punto della situazione. Siamo una generazione di insediamento e senza l’elmetto d’acciaio e il fucile puntato non saremo capaci di piantare un albero o costruire una casa. Non abbiamo paura di guardare onestamente all’odio che consuma e riempie la vita di centinaia di arabi che vivono intorno a noi. Non abbassiamo lo sguardo a meno che non si indeboliscano le armi. Questo è il destino della nostra generazione. Questa è la nostra scelta – di essere pronti e armati, bravi e duri – o altrimenti la spada cadrà dalle nostre mani e le nostre vite saranno spezzate tutt’a un tratto».

«Il giovane Roy, che era venuto via da Tel Aviv per costruire la propria casa ai confini con Gaza perché fosse un baluardo del nostro popolo… la luce che gli illuminava il cuore l’ha accecato, e lui non ha sentito la voce dell’assassino che gli tendeva l’imboscata. Le porte di Gaza si sono dimostrate troppo pesanti per le sue spalle e si sono chiuse sopra di lui».

Per molti israeliani, oggi la realtà che li circonda è identica a quella che al tempo si presentava a Dayan. Molti vedono l’ostilità palestinese come eterna e immutabile, anche se possono essere meno inclini di Dayan a riconoscere il loro attaccamento alla terra. Altri sostengono che la filosofia dura e inflessibile di Dayan, formulata in un momento in cui il paese era più piccolo e più debole rispetto a oggi, ha reso Israele cieca di fronte a opportunità in cui la negoziazione e la moderazione erano all’ordine del giorno.

In un triste giorno in cui tanti nomi sono aggiunti alle migliaia che hanno seguito le orme di Roy Rotenberg, il discorso di Dayan servirà per alcuni come fonte di ispirazione, ma per gli altri sarà motivo di disperazione.

trad. Invictapalestina.org

Fonte: http://www.haaretz.com/blogs/west-of-eden/.premium-1.606258

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