Pateh, Qusay e Ahmad: Non dimentichiamoli nel “Giorno della Memoria”

Romana Rubeo – Jan 26 2017 / 10:02 pm

 

Appesa al muro della mia camera di adolescente c’era, tra le altre cose, questa frase:

“Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”.

 

Mi è sempre piaciuto credere che, in qualche modo, sarebbe confortante pensare che, davvero, “Historia magistra vitae”. Sarebbe bello pensare, cioè, che la memoria storica sia in qualche modo utile a tenere con sé i valori profondi dell’umanità e a cancellare gli orrori.

Così come sarebbe bello pensare che il Giorno della memoria non sia un mero esercizio di vuota e pelosa retorica, ma un’occasione importante per mettere al centro il protagonista vero e ultimo della storia: l’essere umano, a prescindere dalla razza, dal colore della pelle, dalla religione.

 

Da giorni, accendo la TV e seguo gli eventi che preparano ogni anno le commemorazioni del 27 gennaio. A metà del mese, il Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, ha accompagnato degli studenti ad Auschwitz, per il cosiddetto Viaggio della Memoria, organizzato dal Ministero in collaborazione con l’UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) e con il Dipartimento per le Pari Opportunità.

 

Dice il Ministro che da quei luoghi “si torna diversi, nei comportamenti quotidiani, nei valori, nel senso di responsabilità”.

 

La giornalista chiude il servizio con la solita, stucchevole frase di rito: “Affinché non avvenga mai più”.

 

Immediatamente dopo, incrocio gli occhi stanchi di Pateh Sabally, 22 anni, fuggito dal Gambia e arrivato in Italia due anni fa per scampare a un atroce destino.

La sua storia non è chiara, l’unica cosa certa è che Pateh, probabilmente a causa della revoca del permesso umanitario, decide di gettarsi nelle acque gelide del Canal Grande di Venezia (simbolo imperituro della italica “civiltà” e nido degli innamorati di tutto il mondo).

Pateh si butta in acqua e muore suicida, mentre qualcuno gli grida cori razzisti e lo chiama “Africa”, con fare sprezzante. Pateh si butta in acqua e nessuno lo soccorre.[1]

 

Poi, dalla Palestina occupata, altre due storie mi lasciano senza fiato: due diciassettenni legati da un destino un po’ troppo comune da quelle parti, la morte.

 

Uno è Qusay Hasan al-Umour, vittima dell’ennesimo omicidio extragiudiziale compiuto dall’esercito israeliano, durante degli scontri nel villaggio di Tuqu. L’autopsia parla di almeno sei pallottole, che lo hanno stroncato sul colpo.

 

Il video testimonia che il ragazzo si trovava a centinaia di metri dai militari, ma questo non è bastato a risparmiargli la vita, a sfuggire a un destino infame né all’umiliazione di essere trascinato nel fango dopo la morte.

 

Qusay è stato assassinato, o dovrei dire “neutralizzato”? Perché il processo di disumanizzazione deve essere completo e i verbi sono selezionati con cura, almeno sulla stampa mainstream.[2]

 

Il secondo diciassettenne si chiamava Ahmad Hassan Shubeir; è nato e cresciuto a Gaza e, oltre alle difficoltà che incontrano tutti coloro che vivono in quella prigione a cielo aperto, lui soffre di un difetto congenito al cuore.

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Israele gli nega il permesso di abbandonare la Striscia per ricevere cure mediche adeguate e Ahmad muore, ma da eroe, perché il rifiuto della forza occupante nasce dal suo rifiuto di diventare un collaboratore.[3]

 

Peccato che non tutti gli eroi finiscono in prima pagina, non tutti gli eroi diventano protagonisti di un film di Hollywood, alcuni muoiono nel silenzio della cosiddetta comunità internazionale, trascinati nel fango e nella polvere, o in un letto senza cure.

 

Mi chiedo quale sia la “storia” che deve essere ricordata per far sì che l’umanità sia migliore, se non “questa” storia, la storia degli esseri umani, che smettono di essere considerati tali nell’indifferenza generale.

 

Non sono queste le storie che dovrebbero “renderci diversi, nei comportamenti quotidiani, nei valori, nel senso di responsabilità”, per usare le parole del Ministro?

 

Non voglio neanche parlare dei sentimenti xenofobi che prima erano solo striscianti e adesso sembrano patrimonio comune, a tal punto che i politici non si vergognano più a prendere di mira interi gruppi etnici o religiosi.

 

Non voglio accennare al sentimento islamofobo che è entrato a far parte del senso comune e che, ormai, fa dei i Musulmani i nuovi ebrei, i nuovi sinti, i nuovi rom, i nuovi obiettivi della violenza e dell’odio.

 

No, voglio parlare solo della storia dei piccoli: di Pateh, di Qusay, di Ahmad. Di quelli morti nel silenzio generale, mentre il mondo stava a guardare, per dire che quel carnefice che ha sconvolto la nostra “civilissima” Europa nel ‘900 non è morto e non basta la vuota retorica del “mai più” a saziare la sua bramosia.

 

pubblicato per la prima volta in inglese: http://www.palestinechronicle.com/pateh-qusay-and-ahmad-on-forgetfulness-and-remembrance-day/

[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/24/venezia-migrante-si-uccide-gettandosi-nel-canal-grande-davanti-a-centinaia-di-persone-la-scena-ripresa-in-un-video/3338625/

[2] http://nena-news.it/video-giovane-palestinese-ucciso-i-soldati-portano-via-il-corpo/

[3] http://mondoweiss.net/2017/01/palestinian-condition-medical/

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