Lasciate ogni speranza voi ch’entrate.

28 Aprile 2017 –  Flavia Lepre

Fregate

Questo titolo preparerebbe meglio la/o spettatrice/ore al messaggio finale del film “Libere disobbedienti innamorate”, di Maysaloun Hamoud.

Non c’è da dubitare delle intenzioni “femministe” della regista palestinese, nata a Budapest e cresciuta e vivente in Israele. Certo, ma solo se si tratta di un “femminismo” strettamente emancipazionista, perché il film con una qualche liberazione non c’entra niente. Ed è sorprendente l’entusiasmo che esso ha suscitato in alcune. L’uso delle varie dimensioni del personale-politico è e resta uno strumento nella battaglia culturale e sociale, in alcuni casi per l’ampliamento di orizzonti angusti, in altri per la conquista di consensi. Anche le Fémen hanno avuto qualche disorientato estimatore, così come è notorio che il pinkwashing sia un cavallo di battaglia per la promozione di un’immagine d’Israele più appetibile per il consumo culturale occidentale. La domanda sui valori proposti da “Libere disobbedienti innamorate” è centrale.

Il film sembrerebbe presentare le difficoltà con cui si confrontano tre ragazze palestinesi in una Tel Aviv che conferma la propria immagine spregiudicata, e forse per estensione in Israele, e la realtà dei giovani palestinesi che vi fa da sfondo, senza edulcorarla e tuttavia con toni accattivanti e leggeri da commedia. Non pretende, è ovvio, di essere un documentario né il frutto di una riflessione sociologica sul dilagante disorientamento della gioventù palestinese in Israele o a Gerusalemme Est, tuttavia alcuni dubbi sono pressanti. Ad esempio, anche nel film “La sposa di Gerusalemme”, della palestinese Sahera Dirbas, compare il tema della diffusione delle droghe tra i giovani palestinesi di Gerusalemme; ma qui, la protagonista individua la tossicodipendenza come un problema, per la cui cura propone una comunità terapeutica. Nel film di Hamoud l’uso abituale di droghe è quasi uno status simbol dell’emancipazione ed il conformismo alla subcultura della gioventù “libera” e godereccia sembra assurgere a metro della adeguatezza sociale dei Palestinesi.

A Tel Aviv ci si perde, dice un personaggio, ma le difficoltà delle ragazze del film, in realtà, sono con la propria cultura e con i suoi prodotti: i genitori di Salma che pur accettando i suoi continui rifiuti dei candidati mariti da loro proposti non accettano la sua omosessualità, il fidanzato ossessivamente osservante di Nur, il giovane regista “moderno” ma fino a che non si tratta della sua futura sposa. Sembra che da ciò vengano loro le difficoltà a confrontarsi con la città, come se loro palestinesi non siano in grado di reggerla. Ci si domanda quanto questo film sia libero dagli stereotipi. Anche il personaggio che giunge a stuprare la ragazza che dovrebbe sposare è davvero rappresentativo dei giovani ed ottusi maschi di ossessiva apparente osservanza islamica? O non è, piuttosto, frutto e conferma di uno stereotipo?

Hanno un bel dire le diverse recensioni del film che queste giovani donne mostrano i problemi con cui devono confrontarsi tutte le donne, che il maschilismo contro cui devono battersi è maschilismo di tutti i maschi. Queste sembrano gratuite generalizzazioni, non supportate da elementi presenti nel film (che non mostra uomini né donne chiaramente non palestinesi), esse rassicurano come generose “elemosine” di uguaglianza proclamata, ma non esperita dallo spettatore. Nella maggior parte delle recensioni, si percepisce un’ansia di “normalizzazione” ed il sollievo nel negare la specificità socio-politica e culturale dei personaggi, tranne che per il loro appartenere ad una cultura maschilista.  Così, di tutto l’essere palestinese, ciò che resta è il maschilismo.

Ecco il punto: negare la specificità palestinese. Negare l’eredità della tragedia della nakba, dello sradicamento culturale e della dispersione sociale, dell’impossibilità o della difficoltà di ritrovarsi un ruolo paritario in uno Stato altro e discriminatorio.  Così, c’è chi scrive, come Aspesi, che “finalmente non si parla di guerra né di eroi”. Chi si entusiasma nel notare che queste protagoniste “sono uguali a noi”.

Quest’ansia di negazione è palese nell’improprio titolo italiano, con il quale si danno per valori indiscussi “libertà, disobbedienza, innamoramento”, come riferimenti e mete anche per le tre palestinesi. In sintonia con questa visione, la recensione di Aspesi, che addirittura intravede (avrà una sfera di cristallo speciale) il lieto fine.

La chiave del ruolo, più o meno consapevole, giocato da questo film è da cercarsi in una più ampia battaglia culturale/ideologia: nel promuovere  consenso generale per la negazione della realtà di apartheid vissuta dai Palestinesi in Israele e verso la negazione della storia palestinese. Esso converge con quanto presentato dai libri scolastici israeliani, studiati con rigore da Nurit Peled-Elhanan, autrice del libro LA PALESTINA NEI TESTI SCOLASTICI DI ISRAELE: rappresentazioni stereotipate e sgradevoli dei Palestinesi, eliminazione della narrazione palestinese della storia e della geografia del conflitto. Analoghe modifiche pare che anche l’UNRWA (Agenzia ONU per i profughi palestinesi) volesse introdurre nei libri di testo scolastici destinati ai piccoli rifugiati palestinesi, e che hanno suscitato le proteste dell’Autorità Palestinese.

“C’è un’onda nuova che muove dalle spiagge di Israele e abbatte i tabù arabo-israeliani. Cinema israeliano in lingua araba, “In Between” fa intendere la voce femminile e rimanda la società alle sue contraddizioni. Per voltare pagina, per avanzare.” Recita in evidenza la recensione di Marzia Gandolfi sul sito mymovies.

La società bersaglio è quella “arabo-israeliana” e le donne hanno la funzione di testa d’ariete.

Anche in questo c’è convergenza con il metamessaggio veicolato dai libri di testo israeliani: un confronto schiacciante per i Palestinesi. Il modello positivo illuminato dal confronto è quello israeliano.

Nella sconfitta di tutt’e tre le protagoniste del film è possibile leggere il messaggio “non siete capaci, non avete le carte, lasciate stare: siete destinate alla sconfitta”. Dopo tanto darsi da fare per inserirsi ed omologarsi nella frenetica Tel Aviv, si ritrovano ciascuna con il proprio sogno infranto, insieme sul muretto, sì, ma comunque perdenti. Il messaggio può essere esteso all’universo da cui le ragazze provengono. Hanno provato a distaccarsene, pur mantenendovi legami, ma se il loro è l’incontro con “la modernità” quest’ultima le sconfigge, perché vi sono inadeguate. E’ il loro essere “in mezzo” che è insostenibile. C’è una parte che va abbandonata e basta. Forse è tutto il loro popolo che è inadeguato.

Ma non è vero, invece, che è proprio nella disgregazione dovuta al portato della storia che dev’essere ricercata l’origine principale di questo disorientamento? Non sono queste giovani palestinesi a Tel Aviv accostabili a giovani indiane d’America che abbiano rifiutato di vivere in una riserva e si siano avventurate in una grande città canadese o statunitense? Non è forse proprio questo il nodo da sciogliere: uno sviluppo possibile della cultura palestinese, a partire dalla sua storia e dalle sue ferite?

“In between” rappresenta una realtà di disgregazione che i giovani palestinesi vivono in Israele, ma non la fa diventare un tema centrale o un problema per il quale cercare risposte, sia pur solo di percorso, che invece è e resta individuale. La comunità palestinese o è una realtà negativa, che opprime ed impedisce di “liberarsi”, o è assente. Altre prospettive sarebbero possibili. Il già citato “La sposa di Gerusalemme”, ad esempio, pur mostrandone contraddizioni familiari e sociali, fa sentire la comunità palestinese ancora viva e presente, e per questo potenziale fonte di riscatto collettivo.

Se il titolo arabo del film, “Bhar bar”, si traduce in “Tra terra e mare”, che in modo più poetico e “tangibile” rende l’idea del trovarsi tra mondi diversi, tradotto nell’ebraico “Né qui né altrove” rafforza il messaggio distruttivo per le ed i Palestinesi, quello stesso espresso dai libri scolastici israeliani.

 

 

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