Prima parte – Perché molti ebrei americani stanno diventando indifferenti o addirittura ostili a Israele

Non si tratta di ciò che Israele fa. Si tratta di ciò che, nelle loro menti, è Israele.

FOTO – Dimostrante a una manifestazione davanti alla Casa Bianca durante la conferenza annuale dell’AIPAC a Washington il 26 marzo 2017. Samuel Corum / Anadolu Agency / Getty Images.

Traduzione cartello – Quando noi ebrei ci accorgeremo che Israele è folle?!

In tutto, le due comunità ebraiche degli Stati Uniti e di Israele costituiscono circa l’85 % degli ebrei di tutto il mondo. Anche se altre comunità nel mondo rimangono significative per le loro dimensioni o per altre qualità, il futuro dell’ebraismo mondiale sarà probabilmente modellato dalle due popolazioni più grandi – e dal rapporto che c’è tra di loro. Fosse anche solo per questo motivo, il calo dell’attaccamento a Israele tra gli ebrei americani, in particolare, ma non esclusivamente, gli ebrei americani più giovani, è giustamente diventato punto centrale di preoccupazione per leader religiosi e delle comunità, pensatori e pianificatori in entrambi i paesi.

 

E’ vero, altre preoccupazioni ultimamente si sono imposte: preoccupazioni in entrambi i paesi, per esempio per la posizione ancora non del tutto definita dell’amministrazione Trump nei riguardi del conflitto israelo-palestinese e, negli Stati Uniti, per una serie apparentemente nostrana di atti antisemiti di vandalismo e allarmi bomba contro istituzioni ebraiche (la maggior parte di questi ultimi denunciati come opera di un giovane ebreo israeliano disturbato). Ma la più grande preoccupazione – la disaffezione dell’ebreo americano per Israele – rimane molto salda e le implicazioni che questa comporta si sono ben viste negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama, quando la gran parte degli ebrei americani è rimasta fedele al presidente e al suo partito dopo la sua decisione di consentire il passaggio di una risoluzione incontestabilmente anti-israeliana alle Nazioni Unite.

Come si spiega la crescente distanza tra molti ebrei americani e lo stato di Israele? Due libri appena usciti hanno azzardato delle risposte a questa domanda e entrambi gli autori in pratica hanno convenuto che il problema si pone con Israele, un paese non in sintonia con il graduale avanzare della storia. Per Michael Barnett in ‘The Star and the Stripes’, mentre la maggior parte degli ebrei americani abbraccia “una teologia politica dell’ebraismo profetico” e esibisce “brame cosmopolite”, Israele “agisce sempre più come uno stato etnonazionale”. Per Dov Waxman in ‘Trouble in the Tribe’, il muoversi dello stato ebraico verso una direzione “sempre più illiberale” ha costretto i giovani ebrei americani ad “allontanarsi”. . . per la disperazione o addirittura il disgusto “. A fare un simile punto della situazione è stato l’editoriale dell’ex diplomatico israeliano Alon Pinkas, dal titolo: “Scusa Israele, l’ebreo americano non è così innamorato di te”. La ragione, ha scritto Pinkas, è “la realtà di decenni di occupazione israeliana” degli arabi palestinesi, aggravata dall'”atteggiamento israeliano sprezzante, sconsiderato e certe volte arrogante verso le riforme americane e gli ebrei conservatori”.

Certo, non tutti hanno dato la colpa a Israele. Argomentando esplicitamente il contrario, Elliott Abrams su Mosaic ha collocato l’origine dell’allontanamento non nelle politiche o nella cultura politica di Israele, ma piuttosto dall’altro lato dell’equazione: la cambiata composizione degli ebrei americani e dell’ebraismo americano. In particolare, ha sottolineato l’allentamento di quelli che una volta erano i potenti legami comuni, come dimostrano gli alti tassi di matrimoni misti e l’allontanamento dalla fede religiosa ebraica. In una risposta pubblicata al saggio di Abrams, ho aggiunto un altro fattore: la graduale erosione della memoria comune, in particolare del periodo dell’Olocausto e la storia dello stesso Stato di Israele.

In ciò che segue vorrei suggerire un’altra, forse più profonda, ragione dell’allargamento dello strappo tra le due comunità: cioè, l’impressione emergente in un numero significativo di ebrei americani che Israele e l’America progressista dei giorni nostri sono due progetti politici fondamentalmente diversi se non antitetici. Questa impressione, in effetti, è sostanzialmente corretta, sebbene non nel modo parrocchiale, autoassolutorio e prevenuto in cui è convenzionalmente incorniciata.

1. Vecchie e nuove tensioni

Prima di approfondire ciò che intendo per progetti politici fondamentalmente diversi vale la pena ricordare che, per molti versi, le tensioni tra le due comunità non sono così nuove come talvolta ipotizzato; in realtà, sono vecchie quanto Israele.

Durante i primi anni dello stato, come lo storico Jerold S. Auerbach ha osservato: “Anche l’idea di uno Stato ebraico, per non parlare della realtà di Israele, raramente ha ispirato sentimenti di appassionato attaccamento nella maggior parte degli ebrei americani.” Nel 1950 l’affermazione del primo ministro David Ben-Gurion che Israele era ormai il centro di fatto del mondo ebraico provocò un irato Jacob Blaustein, presidente del comitato ebraico americano (AJC) e al tempo forse il più importante leader laico dell’ebraismo americano, tanto da replicare con forza che “non ci può essere un unico portavoce per l’ebraismo mondiale, indipendentemente da chi quel portavoce potrebbe cercare di essere”. Dieci anni più tardi, quando eminenti ebrei americani espressero ripugnanza per il rapimento da parte di Israele del nazista assassino di massa Adolf Eichmann al fine di processarlo a Gerusalemme – con quale diritto, chiesero questi ebrei, uno stato che nemmeno esisteva quando Eichmann ha commesso i suoi crimini pretende la giurisdizione come se fosse l’indirizzo internazionale riconosciuto del popolo ebraico? – Ben-Gurion reagì con rabbia: “L’ebraismo degli ebrei degli Stati Uniti”, dichiarò, “sta perdendo tutto il significato e solo un cieco non potrebbe vedere il giorno della sua fine.”

Abbastanza vero, la vittoria lampo di Israele nella Guerra dei sei giorni nel giugno 1967 ha fatto molto per mitigare i sentimenti. Il mondo ebraico, dopo aver temuto il peggio per la promessa dei leader arabi di buttare gli ebrei israeliani in mare, aveva tenuto il fiato sospeso durante le snervanti settimane che precedettero lo scoppio delle ostilità. Quando Israele non solo sopravvisse, ma schiacciò i suoi nemici e triplicò la sua area geografica, una condivisa euforia ebraica sembrava finalmente averla spuntata. Eppure, l’ardore non durò, e la vena celebrativa si rivelò effimera. Molto presto i portavoce e gli intellettuali liberali ebrei americani cominciarono a lamentarsi della prospettiva di una presenza israeliana a lungo termine nei territori conquistati.

Che cosa avrebbe questo riservato alla democrazia dello Stato ebraico e alla sua immagine come nazione illuminata e desiderosa di pace? Sei anni dopo, quando il senso di fiducia e di invulnerabilità dello Stato crollò con la guerra di Yom Kippur del 1973, si poteva quasi percepire il sollievo in alcuni quartieri ebraici americani. Da quanto riferito, un capo della comunità disse con squisita condiscendenza: sarebbe “un piacere affrontare un Israele più piccolo”.

Poi arrivò il 1977, la detronizzazione elettorale del partito laburista, l’ascesa al potere del Likud sotto Menachem Begin e la crescita del movimento dei coloni. Nel 1982, con il fallito tentativo di Israele di sradicare l’OLP dal Libano e il massacro da parte di libanesi arabi cristiani di musulmani palestinesi nei campi sotto la sorveglianza di soldati israeliani, le “fantasie liberali degli ebrei americani su Israele”, scrive Auerbach, che già vacillavano per l’elezione di Begin (quell’ “irascibile shtetl ebreo”), furono “demolite”.

Questi sono solo alcuni precedenti della spaccatura di oggi. Ma non si deve esagerare la loro importanza: nonostante gli episodi di vera e propria asprezza, la maggior parte degli ebrei americani è rimasta forte nel suo attaccamento emotivo a Israele, si è inorgoglita per le sue realizzazioni e non ha trovato nessun attrito tra quei sentimenti ed i propri di orgogliosi americani.

Quello che oggi è cambiato è questo: sempre più, l’orientamento di molti ebrei americani verso Israele non è né di lealtà istintiva né di orgoglio, ma di indifferenza, imbarazzo o ostilità. Di questo fenomeno, i risultati dello studio 2013 Pew Center, Un ritratto di ebrei americani – ricerca sondaggio citata da tutti gli osservatori seri – danno seria testimonianza.

Chi sono questi nuovi ebrei americani? Una variabile chiave è l’età. Secondo Pew, mentre quasi il 40 % di ebrei americani di sessantacinque anni o più continuano a sentirsi “molto legati” a Israele, solo il 25 % dai diciotto ai ventinove anni di età la pensa allo stesso modo. Al polo opposto, fra quelli non “molto legati” a Israele, il divario è ancora più ampio, con due volte più giovani rispetto agli ebrei più anziani che sostengono tale status. Uno studio separato del sociologo Steven M. Cohen formula la disparità più crudamente. Mentre circa l’80 % di quelli di sessantacinque anni o più dicono che “la distruzione di Israele sarebbe una tragedia personale”, il numero scende al 50 % per quelli di trentacinque o meno.

Se l’età è una finestra nelle differenze di atteggiamento, la politica ne è un’altra. Pew riferisce che i livelli di attaccamento a Israele diminuiscono, spesso drammaticamente, come ci si sposta da destra a sinistra – cioè dal conservatore al liberale – nello spettro politico. Quindi, metà degli ebrei repubblicani si descrive come “molto attaccata” a Israele, ma solo un quarto degli ebrei democratici lo fa. Al contrario, mentre solo il 2 % degli ebrei repubblicani si definisce “non affatto legato” a Israele, tra gli ebrei democratici il numero è di cinque volte superiore.

Un modello simile emerge nello spettro religioso. A destra, il 77% degli ebrei ortodossi moderni si descrive come “molto attaccato” a Israele; a sinistra, le cifre comparabili sono drasticamente inferiori: il 24% per gli ebrei della Riforma e il 16 % per coloro che reclamano una non affiliazione denominazionale. Al contrario, dove un piccolo 1% di ebrei moderni ortodossi si descrive come “non molto attaccato” a Israele, circa un quarto degli ebrei della riforma si descrive in tale modo, così come un terzo dei non affiliati. Talmente grande è questa disparità che si potrebbe ragionevolmente affermare che, quando si tratta di Israele, l’Ortodossia e la Riforma sottoscrivono visioni del mondo profondamente diverse.

In breve, il gruppo in crescita più scollegato da Israele è composto da ebrei americani più giovani, politicamente più a sinistra e religiosamente meno tradizionalisti o, per dirla in altre parole, da ebrei che hanno assimilato più completamente non solo lo stile di vita, ma le idee e i presupposti della classe dirigente americana a cui ognuno di loro per la maggior parte appartiene. Ovviamente, questi ebrei si identificano anche con il partito democratico, che oggi continua il proprio movimento istituzionale lontano dal dare il caldo appoggio del passato a Israele. Infatti, molti ebrei hanno sostenuto il membro del congresso Keith Ellison, nonostante la sua storia di schietti sentimenti anti-israeliani e la passata associazione con l’anti-Semitic Nation of Islam di Louis Farrakhan, nella sua campagna per dirigere il Comitato Nazionale Democratico e sostenuto allo stesso modo il tentativo del senatore Bernie Sanders per la nomina presidenziale democratica del 2016 nonostante la chiara parzialità di Sanders nello spingere il suo partito in una direzione anti-israeliana.

Tutti questi fatti e cifre sono stati ormai ampiamente provati da commentatori e analisti vicini allo studio Pew. Sappiamo chi si sta allontanando da Israele. Quindi, per riformulare la domanda con cui abbiamo cominciato: il problema sono, come suggeriscono Bruce Bartlett, Dov Waxman e Alon Pinkas, le politiche di Israele e il modo in cui Israele si comporta o, come Elliott Abrams sostiene, riflette la composizione etnica e religiosa modificata della comunità ebraica americana? O, come intendo ora proporre qui, è rappresentato un po’ da entrambi ma più da quest’ultimo e anche da qualcos’altro: una questione di essenza morale e politica e di ideologia?

Quest’ultima alternativa è stata messa in luce in un editoriale molto discusso che è apparso nell’agosto scorso su Haaretz con il titolo: “Siamo ebrei americani storici. Questo è il motivo per cui abbiamo lasciato alle spalle il sionismo”. Uno dei due autori – i loro interventi individuali sono stati firmati separatamente – era Hasia Diner, una professoressa di storia americana ebraica all’Università di New York. Diner riferisce che, dopo che le era stato chiesto da parte di un movimento “progressista” ebraico di aggiungere il suo nome a un documento chiamato “Programma di Gerusalemme”, ha capito di non poter più sostenere il suo obbligo fondamentale al “consolidamento di Israele come uno stato ebreo, Sionista e democratico”.

Per quanto riguarda la democrazia, non ho avuto alcun problema [ha scritto], ma la singolare insistenza su un Israele come uno stato ebraico e sionista mi ha fatto capire che, almeno alla luce di questo documento, non potevo più chiamarmi sionista. L’essere ebreo costituisce una razza o un’etnia? Lo Stato ebraico significa uno stato razziale? . . .

L’ideale di uno stato religiosamente neutrale ha funzionato incredibilmente bene per i milioni di ebrei che sono venuti in America.

La Diner procede poi a spuntare le voci nel suo atto d’accusa, tra le quali metodi “sempre più duri” di Israele per la soppressione dei palestinesi, la “crescita esponenziale dei partiti di estrema destra”, e il “crescente consenso” del Paese. Queste, lei ora trova che non possano più essere liquidate come accidentali o temporanee escrescenze. Piuttosto, come la Legge del ritorno, sono endemiche del progetto nazionale di Israele, la cui vera natura “ho letto troppo su colonialismo e razzismo” per ignorarla. E che, infine, è per questo che non solo ha orrore (parole sue) al pensiero di visitare il paese, ma sente anche “repulsione” nell’entrare in una sinagoga americana “davanti alla quale la congregazione ha piantato un cartello: ‘Noi sosteniamo Israele’.” Quanto a se stessa, non tollererà nessuno per il quale Israele “sembra grande come un’icona di identità”.

Ed è lì la cosa fondamentale: non le politiche, non le mode religiose ed etniche, ma ciò che Israele essenzialmente, irrevocabilmente è. “L’ideale di uno stato religiosamente neutrale ha funzionato incredibilmente bene per i milioni di ebrei che sono venuti in America”, insiste Diner. Dice bene, è così. Ma i fondatori d’Israele, di cui uno dei primi atti legislativi fu la Legge del ritorno, non avevano mai inteso che il loro stato fosse “religiosamente neutro”. Né avrebbero potuto intendere se Israele dovesse essere uno stato ebraico.

A differenza degli Stati Uniti, la cui neutralità in materia di religione ha offerto agli ebrei un’opportunità per prosperare diversamente da qualsiasi esperienza che avessero mai sperimentato in una comunità della diaspora, uno “stato ebraico e sionista” non poteva e non può essere religiosamente neutrale. In questo aspetto fondamentale, le finalità dei due paesi si differenziano e così fanno le rispettive visioni di democrazia e di società ideale. Dal momento che Diner, una docente di storia ebraica, sembra non aver registrato prima di oggi questo fatto elementare, possiamo presumere che sia stato perso anche da molti altri ebrei. Questo presupposto potrebbe contribuire ad articolare quattro dei modi in cui i presupposti politici e culturali di Israele si differenziano realmente da quelli comuni negli Stati Uniti e forse soprattutto tra la maggioranza degli ebrei americani.

Daniel Gordis è Koret Distinguished Fellow e preside di formazione di base al Shalem College di Gerusalemme. Il suo nuovo libro, Israel: A Concise History of a People Reborn, ha vinto il premio “Libro dell’anno” del Libro ebraico per il 2016.

 

Traduzione Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org
Fonte: https://mosaicmagazine.com/essay/2017/05/why-many-american-jews-are-becoming-indifferent-or-even-hostile-to-israel/

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