Quello che rivela la “marcia del ritorno” di Gaza

I massacri del 14 maggio commessi dall’esercito israeliano hanno segnato il punto culminante e drammatico della “marcia del ritorno” a Gaza. Le mobilitazioni hanno confermato la presa di distanza dei palestinesi dalle loro direzioni, specialmente per quanto riguarda Mahmoud Abbas. Secondo la giornalista palestinese gettano le basi di una nuova tappa nella lotta nazionale.

Asma Alghoul, 23 maggio 2018

 

Ora che la tempesta è passata e la polvere si è posata sulla vetta sanguinosa di lunedì 14 maggio a Gaza, i palestinesi non hanno che da piangere i 110 morti (dall’inizio della “marcia del ritorno”), e aiutare le circa 3.000 persone ferite da munizioni vere, proiettili di gomma o gas lacrimogeni.

Molti di questi manifestanti erano persone normali, senza affiliazione ad alcun partito o fazione, il che poneva un problema particolare ai leader palestinesi. Le manifestazioni, incentrate sulle rimostranze storiche, sul furto della loro terra 70 anni fa da parte degli israeliani e sugli effetti del blocco imposto da Israele negli ultimi dieci anni, sono anche un’accusa ai politici palestinesi di ogni parte. Consapevoli di questo rifiuto, questi politici si sono coperti e hanno cercato di posizionarsi in modo tale da, a seconda dell’esito delle proteste, poter richiedere un credito per il loro successo o un credito per averne previsto il fallimento.

BANDIERE A MEZZ’ASTA A RAMALLAH

Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità palestinese (AP) con sede in Cisgiordania ha parlato dapprima del valore della marcia. Poi, in una riunione del Consiglio nazionale palestinese a Ramallah il 30 aprile, ha consigliato ai manifestanti a Gaza “di tenere i bambini lontani dai proiettili”, aggiungendo, “non vogliamo diventare un popolo disabile”. Comunque, dopo i massacri di lunedì 14 maggio, si è visto costretto a dichiarare il 15 maggio giorno di lutto, le bandiere di tutti gli edifici governativi erano a mezz’asta. Il popolo di Gaza l’aveva effettivamente costretto ad un voltafaccia. Gli attivisti dei social media avevano trascorso buona parte della giornata di lunedì a criticare il fatto che fosse sull’aereo di ritorno da Cuba in un giorno così simbolico, quando decine di persone erano state uccise al confine. Cosa che è stata interpretata come una fuga.

Hamas, il partito che amministra la Striscia di Gaza, aveva da parte sua cercato di rafforzare l’importanza delle proteste – come se fosse l’ultima possibilità per una soluzione pacifica del conflitto prima di una imminente conflagrazione. Il 9 aprile Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del partito, ha pronunciato un discorso da una tribuna che esibiva gli slogan della marcia del ritorno. “Gaza entra in una nuova fase di resistenza pacifica e popolare”, aveva dichiarato, chiedendo la più ampia partecipazione possibile. Eppure, in una conferenza stampa, Yehya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, aveva aggiunto a questo le solite minacce velate: “Qual è il problema con centinaia di migliaia di persone che sfilano attraverso una recinzione che non è non un confine?” In molti modi, tuttavia, Hamas sapeva che non era la sua battaglia. Haniyeh aveva cercato di attingere capitale politico durante il fine settimana del 12-13 maggio, prendendo apparentemente un aereo militare per il Cairo (mai visto pubblicamente prima) per ricevere direttamente le minacce di rappresaglia dalla bocca del principale messaggero di Israele, il governo egiziano. Era giusto per far credere che non se ne restava con le mani in mano, e per sostenere che Hamas era al comando.

In realtà, Hamas non ha preso l’iniziativa della marcia e non ha avuto influenza su ciò che i manifestanti hanno fatto. Se gli fosse davvero importato delle 60 persone uccise il 14 maggio, avrebbe risposto, come al solito, con un lancio di razzi. Ma ha comunque cercato di prendersene il merito. Il 16 maggio, il responsabile di Hamas Salah Al-Bardawil ha dichiarato al canale d’informazione palestinese Baladna che 50 dei 62 palestinesi uccisi negli ultimi due giorni della marcia erano membri di Hamas. Un’asserzione ridicola, ma che confortava non solo la narrazione di Hamas di essere la voce del popolo di Gaza (e legittimo erede delle lotte palestinesi), ma anche l’argomentazione di Israele secondo cui il suo esercito sta uccidendo solo terroristi.

UN EVENTO SPONTANEO

Certo, manca l’essenziale. È vero che a Gaza non succede nulla senza che Hamas lo consenta (manifestazioni organizzate da altre forze sono regolarmente vietate). Ma c’è un modo semplice per distinguere un’azione ufficiale organizzata da Hamas da un’azione che invece si limita a tollerare: il ruolo dei gruppi armati. Nessun membro delle Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas, è stato ferito nelle sette settimane di queste mobilitazioni, fino a quando non hanno raggiunto il loro picco il 14 maggio. Non un solo combattente di queste brigate è stato ucciso. E’ così che possiamo capire che questo è stato un evento spontaneo e non un evento guidato da Hamas. Ha semplicemente portato la sua assistenza alle dimostrazioni; i suoi attivisti hanno fornito acqua e, in alcuni casi, messo a disposizione degli autobus per la popolazione, ma anche molte altre organizzazioni hanno fatto altrettanto. Era un’iniziativa di Hamas? Quando sappiamo che le brigate di Al-Qassam non sono state coinvolte, la risposta è no.

Da parte loro, le persone che si raggruppavano settimana dopo settimana vicino al confine non sembravano più ascoltare i loro cosiddetti leader. I manifestanti, spesso giovani, sono tornati al principio di base della questione palestinese: una lotta tra giustizia e ingiustizia, tra bene e male. A loro non importava che Abbas avesse rifiutato il loro movimento, né che Hamas stesse cercando di trarne profitto. Hanno marciato ogni settimana di propria iniziativa. Ogni venerdì per otto settimane, poi il lunedì e il martedì, intere famiglie sono andate alla barriera e hanno organizzato picnic come se si trattasse di una vacanza, anche se stavano protestando contro l’assedio d’Israele che va avanti da un decennio.

Alla vigilia di questa marcia, i funzionari di Ramallah avevano fatto diverse promesse: avrebbero sbloccato gli stipendi dei funzionari governativi a Gaza che non erano stati pagati da un mese (questo ovviamente non si è concretizzato); e il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto – che il Cairo ha chiuso per quasi tutto il tempo dal 2013 per ragioni di sicurezza – sarebbe stato riaperto da un giorno all’altro, cosa che alla fine è stata fatta in seguito al massacro del 14 maggio, ma solo per il mese di Ramadan. Si trattava di alleviare le difficoltà della popolazione e ridurre il numero di partecipanti alle manifestazioni, di far sì che le persone avessero l’impressione di avere già ottenuto qualcosa. Ma la tattica ha fallito. Dopo anni di guerra, blocco economico, divisione politica interna, povertà e inquinamento, gli abitanti di Gaza sono diventati esperti nell’individuare le false promesse.

DISEGNI, CANZONI E VIDEO UMORISTICI

Va detto che durante queste mobilitazioni Hamas è stata oggetto di critiche da parte dei palestinesi molto meno del solito. Tuttavia, questo non significa che il popolo di Gaza sia unito dietro di esso, ma piuttosto che Hamas è disconnesso dalla lotta che la gente sta conducendo al confine; infatti, gli sta correndo dietro fin dall’inizio delle dimostrazioni il 30 marzo.

I manifestanti non sembrano aver preso sul serio i tentativi di Hamas di appropriarsi della loro protesta. Invece, hanno inventato la loro modalità di resistenza e di libera espressione. Sì, alcune persone hanno lanciato pietre o bruciato pneumatici. Ma essenzialmente, si potevamo vedere soprattutto disegni, canzoni, video umoristici e, in generale, partecipare a quello che sarebbe potuto essere un festival di famiglie. Un testimone oculare, il fotografo indipendente Attia Darwish, ha riferito a ‘Orient XXI’ che “le forze di sicurezza di Hamas sorvegliavano le manifestazioni, mantenendo attivamente la natura essenzialmente pacifica dei raduni”. Gli avvertimenti del Ministero dell’Interno alla popolazione in questo senso erano stati molto chiari. Il portavoce del ministero dell’Interno di Hamas, Eyad Al-Bozom, ha anche utilizzato Facebook per confermare questo sostegno, scrivendo: “Il Ministero dell’ Interno sarà presente alle manifestazioni e le sosterrà in guerra e in pace”.

In queste piccole concessioni e questi atti di sostegno, possiamo vedere veri segnali che la Striscia di Gaza potrebbe ottenere un vantaggio morale e guidare il gioco. Si tratta di continuare il progetto nazionale palestinese e non lasciare che il mondo dimentichi la causa palestinese, fare affidamento sul movimento di solidarietà internazionale. E questo nonostante il nostro risentimento nei confronti della violenza israeliana e del silenzio internazionale.

Hamas mantiene sempre aperte le sue opzioni, ovviamente. In una riunione nel suo ufficio di Gaza il 10 maggio, Sinwar ha dichiarato ai giornalisti: “Vogliamo risolvere i problemi di Gaza e della Palestina con mezzi pacifici, ma se siamo costretti a farlo, possiamo sempre ricorrere alla resistenza armata, cosa che il diritto internazionale ci dà il diritto di fare.” Ciò che è nuovo e significativo qui è il suo riconoscimento dell’importanza della resistenza pacifica.

I leader palestinesi di Ramallah hanno manifestamente abbandonato gli abitanti di Gaza. A giudicare dalle loro recenti dichiarazioni, Haniyeh e Sinwar cercano di farsi passare come legittimi eredi del progetto nazionale palestinese. Questo potrebbe annunciare una nuova fase nella lotta interpalestinese? Abbas e il suo partito si sono fatti beffe del nuovo orientamento di Hamas e dei recenti riferimenti a Nelson Mandela, al reverendo Martin Luther King Jr. e al Mahatma Gandhi. Saeb Erekat, intimo amico di Mahmoud Abbas, ha risposto a Haniyeh: “Se Mandela, King e Gandhi fossero vivi, sarebbero sorpresi dal vostro discorso.” I palestinesi non possono fare a meno di pensare che Fatah tema che la sua reputazione di partito “moderato” possa un giorno essergli strappata.

Questo cambiamento nell’approccio di Hamas potrebbe ricordare ad alcuni palestinesi la modifica principale nella costituzione di Hamas nel maggio 2017, quando ha allentato la sua posizione con un nuovo documento politico che accetta uno stato palestinese ad interim entro i confini di prima del 1967. Ma la comunità internazionale ha prestato poca attenzione a questo cambiamento.

Oggi, Hamas si sta liberando dei “turbanti della teocrazia” – non pronuncia più i suoi discorsi principali nelle moschee – e invece prende a prestito gli strumenti di una lotta rivoluzionaria, laica e popolare. Potrebbe non essere altro che un tentativo, e sembra sempre esitare tra il desiderio di impegnarsi in un nuovo orientamento e la paura di essere criticato per il suo ammorbidimento nei confronti del nemico. Ma già queste proteste – in declino dal 14 maggio – e i loro 110 morti, hanno mostrato senza ambiguità alla vecchia guardia palestinese che la prossima generazione ne ha abbastanza di una retorica puramente aggressiva. Vuole nutrire tutte le nascenti speranze per il futuro ed evitare gli errori delle generazioni precedenti.

Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org

Fonte: https://orientxxi.info/magazine/ce-que-revele-la-marche-du-retour-de-gaza,2474

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