Quando la malattia è “condanna a morte”: vittimizzazione delle donne di Gaza

FOTO – Parenti del palestinese Sadi Muamar, ucciso dalle truppe israeliane durante una protesta alla barriera tra Israele e Gaza, piangono durante i suoi funerali nel sud della Striscia di Gaza. | Foto: Reuters

Ramzy Baroud, 28 agosto 2018

In realtà, queste donne incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che vive sotto occupazione e assedio israeliano in Cisgiordania e Gaza.

Hanan al-Khoudari è ricorsa a Facebook per lanciare un grido di aiuto quando le autorità israeliane hanno respinto la sua richiesta di accompagnare il figlio di tre anni, Louay, per il suo trattamento di chemioterapia a Gerusalemme Est.

Il bambino soffre di un “sarcoma aggressivo dei tessuti molli”. Le autorità israeliane hanno poi giustificato la loro decisione sulla base di una vaga pretesa secondo la quale uno dei parenti di Hannan è un “operativo di Hamas”.

Il gruppo per i diritti, Gisha, ha riferito che lo stato non è disposto a definire cosa precisamente significhi essere un ‘operativo di Hamas’. Ma anche se una spiegazione venisse offerta, negare ai palestinesi gravemente malati di ricevere trattamenti salvavita rimane un atto immorale e illegale.

“Lo stato sta condannando le firmatarie a morte o una vita di sofferenze”, ha detto Muna Haddad, un’avvocata di Gisha. Con “firmatarie” si riferiva a sette donne di Gaza a cui è stato negato da parte di Israele l’accesso al trattamento medico urgente per il quale è necessario lasciare la Striscia di Gaza assediata.

Le sofferenze delle donne di Gaza raramente fanno notizia. Quando le donne palestinesi non sono invisibili nella copertura dei media occidentali, sono viste come vittime sfortunate di circostanze al di fuori del loro controllo.

Il fatto che una donna di Gaza sia “condannata a morte” semplicemente perché un parente maschio è bandito da Israele è un comportamento piuttosto tipico di un paese che stranamente si presenta a livello internazionale come un’oasi di uguaglianza e diritti delle donne.

Si alimenta la falsa idea che le donne palestinesi siano intrappolate in un “conflitto”, in cui non giocano alcun ruolo. Tali travisamenti minano l’urgenza politica e umanitaria della situazione critica in cui versano le donne palestinesi e il popolo palestinese nel suo complesso.

In realtà le donne palestinesi sono a malapena spettatrici nella vittimizzazione collettiva. Meritano di essere rese visibili e comprese nel più ampio contesto dell’occupazione israeliana della Palestina.

Le sette donne che hanno presentato petizioni alla corte israeliana e la storia di Hanan al-Khoudari, sono solo una piccola rappresentanza di migliaia di donne che stanno soffrendo a Gaza senza avvocati o copertura mediatica.

Ho parlato con molte di queste donne – la cui sofferenza è pari solo alla loro incredibile capacità di resilienza – che meritano più del semplice riconoscimento, e anche di un urgente rimedio alternativo.

Shaima Tayseer Ibrahim, 19 anni, di Rafah nel sud di Gaza, riesce a malapena a parlare. Il suo tumore al cervello ha influenzato la sua mobilità e capacità di esprimersi. Eppure è determinata a proseguire la sua laurea in Scienze della Formazione di base presso l’Al-Quds Open University di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

Il dolore che questa diciannovenne sta sopportando è straordinario anche per gli standard della povera, isolata Gaza. È la maggiore di cinque figli di una famiglia caduta in povertà dopo l’assedio israeliano. Suo padre è in pensione e la famiglia fa fatica ad andare avanti ma, tuttavia, si è stabilito che Shaima deve ricevere un’istruzione.

Era fidanzata e si sarebbe sposata dopo la laurea all’università. La speranza ha ancora un modo per entrare nel cuore dei palestinesi di Gaza e Shaima sperava in un futuro più luminoso per se stessa e la sua famiglia.

Ma il 12 marzo ha cambiato tutto.

In quel giorno a Shaima è stato diagnosticato un cancro aggressivo al cervello. Poco prima del suo primo intervento all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme, il 4 aprile, il fidanzato ha rotto il fidanzamento.

L’operazione ha lasciato Shaima con una paralisi parziale. Parla e si muove con grande difficoltà. Ma ci sono state altre cattive notizie; ulteriori test in un ospedale di Gaza hanno dimostrato che il tumore non è stato completamente rimosso e deve essere estratto rapidamente prima che si diffonda ulteriormente.

A peggiorare le cose, il 12 agosto il Ministero della Sanità a Gaza ha annunciato che non sarebbe più stato in grado di curare i malati di cancro nell’enclave sotto assedio israeliano.

Shaima sta ora combattendo per la sua vita mentre attende il permesso israeliano di attraversare il checkpoint di Beit Hanoun (chiamato Erez Crossing by Israel) in Cisgiordania, attraverso Israele, per un intervento urgente.

Molti abitanti di Gaza sono morti in quel modo, in attesa di pezzi di carta, un permesso che non si è mai materializzato. Shaima, tuttavia, resta fiduciosa, mentre tutta la sua famiglia prega costantemente che la figlia maggiore vinca la sua lotta contro il cancro e riprenda gli studi per un diploma universitario.

Dall’altra parte di Gaza, Dwlat Fawzi Younis, 33 anni di Beit Hanoun, vive un’esperienza simile. Dwlat, però, si occupa anche di una famiglia di 11 persone, compresi i suoi nipoti e il padre gravemente malato.

E’ diventata il principale sostegno della sua famiglia quando suo padre, 55 anni, ha sofferto di insufficienza renale e non è stato più in grado di lavorare.

Si è presa cura di tutta la famiglia con i soldi guadagnati come parrucchiera. I suoi fratelli e sorelle sono tutti disoccupati. Era solita aiutare anche loro, ogni volta che poteva.

Dwlat è una persona forte; è sempre stata così. Forse è stata la sua esperienza del 3 novembre 2006 a rafforzare la sua volontà. Un soldato israeliano le ha sparato mentre stava protestando con un gruppo di donne contro l’attacco israeliano e la distruzione della storica moschea Umm Al-Nasr a Beit Hanoun. Quel giorno due donne furono uccise. Dwlat fu colpita da una pallottola al bacino, ma è sopravvissuta.

Dopo mesi di trattamento, si riprese e ricominciò la sua lotta quotidiana. Inoltre, non ha mai perso l’occasione durante le proteste di alzare la voce in solidarietà con la sua gente.

Il 14 maggio 2018, quando gli Stati Uniti hanno trasferito ufficialmente la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, 60 manifestanti palestinesi furono uccisi e quasi 3.000 feriti alla recinzione di Gaza-Israele. Dwlat fu colpita alla coscia destra, il proiettile è penetrato nell’osso e ha tagliato l’arteria da parte a parte.

Da allora la sua salute si è deteriorata rapidamente e ora non è più in grado di lavorare. Ma Israele non ha ancora accolto la sua richiesta di essere trasferita all’ospedale Al-Makassed di Gerusalemme per ricevere cure.

Tuttavia, Dwlat insiste sul fatto che continuerà a essere un membro attivo e responsabile della comunità di Gaza, anche se ciò significherà unirsi alle proteste lungo la recinzione di Gaza con le stampelle.

In realtà, queste donne incarnano lo straordinario spirito e coraggio di ogni donna palestinese che vive sotto occupazione e assedio israeliano in Cisgiordania e Gaza.

Sopportano e persistono, nonostante l’enorme prezzo che pagano, e continuano la lotta di generazioni di coraggiose donne palestinesi che sono venute prima di loro.

 

 

Ramzy Baroud – è un giornalista, autore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “The Last Earth: A Palestinian Story” (Pluto Press, Londra). Baroud ha un dottorato di ricerca in Palestine Studies presso l’Università di Exeter ed è uno studioso non residente presso l’Orfalea Center for Global and International Studies, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org

Fonte:https://www.telesurtv.net/english/opinion/When-Illness-Is-Death-Sentence-Victimization-of-Gaza-Women-20180828-0015.html

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