Koulibaly l’antirazzista. Ma è squalificato per due turni

Lo stadio dell’odio. «Mi dispiace per la sconfitta e soprattutto per aver lasciato i miei fratelli! Però sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano: uomo»

Nicola Sellitti  Manifesto, edizione del  28.12.2018

Si ferma per due turni, Kalidou Koulibaly, mentre la Serie A torna in campo tra due giorni. Come nulla fosse, dopo un morto, feriti, oltre 60 mila persone che a turno si divertono a offendere un calciatore nero, nell’inerzia e nell’ipocrisia diffusa del calcio italiano.

MA NON SI ARRESTA neppure il flusso di condivisioni per il post sui social arrivato ieri del difensore del Napoli, «Mi dispiace per la sconfitta e soprattutto per aver lasciato i miei fratelli! Però sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano: uomo».

L’endorsement mediatico è arrivato da Cristiano Ronaldo, dal capitano dell’Inter, Mauro Icardi, dai compagni di squadra del Napoli, dai profili ufficiali di tanti club di Serie A, da altre vittime della follia razzista negli stadi, come l’ex milanista Boateng, che sei anni fa a Busto Arsizio, in Pro Patria-Milan, ha vissuto le sue stesse sensazioni, prima di finire all’Onu a parlare di razzismo negli stadi.

Assieme all’istituzione di un osservatorio contro le diffamazioni contro Napoli da parte dell’amministrazione cittadina partenopea e le scuse del sindaco di Milano, Beppe Sala, che ha stigmatizzato i «buu» di San Siro, proponendo che il capitano della prossima partita dell’Inter sia il ghanese Asamoah.

Anche se Koulibaly avrebbe preferito che gli altri neri dell’Inter, Keita, Miranda, Joao Mario, Dalbert, uscissero dal campo assieme a lui, dopo l’espulsione. Insomma, ora tutti lo sostengono, pacche sulla spalla, sostegno pubblico.

Un fronte compatto. In apparenza. Perché nel calcio italiano ognuno gioca solo la sua partita, tra connivenza con una fetta di pubblico per le società e l’inadeguatezza gestionale, politica dei dirigenti che si sono passate le poltrone del potere del pallone negli anni. Koulibaly è uno che ci tiene.

È DA SEI ANNI IN ITALIA, in arrivo dal Genk – una palestra di futuri campioni con origini africane – e sempre a Napoli, che in trasferta è spesso il canovaccio ideale per recitare a memoria slogan e ululati per gli strateghi dell’intolleranza.

Il Vesuvio invocato al lavaggio con il fuoco, ancora il colera. E lui prende tutti di petto, d’anticipo, il razzismo come in ogni weekend con l’attaccante di turno. Sia verso i neri che verso i napoletani, la sostanza non cambia. È ancora ed è stato un testimonial, nelle scuole italiane per i convegni sul razzismo organizzati dall’Uefa.

Anche a Milano, con gli studenti tre anni fa, dopo i cori razzisti subiti in Lazio-Napoli, con partita sospesa dall’arbitro per qualche minuto. «Da solo è molto difficile, durante quella partita anche qualche giocatore della Lazio mi diceva che erano solo due-tre stupide persone e mi aiutarono», disse il difensore al liceo Agnesi, nel capoluogo lombardo.

E nella stessa circostanza affrontò anche il tema della schiavitù in Libia, che tocca molti senegalesi.

IL SENEGAL È CASA SUA. In passato ha anche sostenuto le spese della nazionale, con le casse vuote in trasferta a Londra.

Nella battaglia contro l’intolleranza attualmente in Italia può contare su pochi compagni di squadra. Tra questi, il tecnico del suo Napoli, Carlo Ancelotti, che ha abbracciato una battaglia culturale dal suo ritorno in Italia, dopo aver allenato in Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, che hanno affrontato e in gran parte risolto il nodo razzismo, almeno negli stadi. Stop ai cori razzisti, omofobi, di discriminazione territoriale.

Anche a costo di scegliere in autonomia di abbandonare il campo, se non tutelati dal sistema. Come ipotizzato a Bergamo, qualche settimana fa. È richiesto dai principali club al mondo, Koulibaly, una quotazione da oltre 100 milioni di euro. Presto potrebbe andar via. E trovare in uno stadio avversario solo applausi, o fischi.

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