La Lega non ha vinto

La Lega non ha vinto. Ha stravinto, da nord a sud, in maniera omogenea e indiscutibile.

28 maggio 2019 –  Riccardo Lestini (*)

La Lega non ha vinto. Ha stravinto, da nord a sud, in maniera omogenea e indiscutibile. Con una campagna elettorale a suo modo perfetta e in totale sintonia con i tempi che stiamo vivendo.

Ovvero senza un vero e proprio programma, ma con pochi slogan tragicamente elementari, ripetuti ossessivamente in sostituzione di qualsiasi discorso e di qualsiasi risposta a qualsiasi domanda. E condotta in maniera aggressiva, come se il voto fosse una vera e propria chiamata alle armi e, soprattutto, come se fosse all’opposizone, come se non solo non stesse governando da un anno, ma come se non fosse il partito – tra quelli presenti – con più anni complessivi di governo alle spalle. Talmente totale, talmente continua che i più nemmeno se ne sono accorti che ci fosse una campagna elettorale.


Del resto lo schema base leghista, da anni, è proprio questo: restare in trincea, in campagna elettorale continua e incessante, in una eterna e paradossale opposizione ideale e, con questo perenne attacco aggressivo e feroce di nemici veri o presunti fabbricati periodicamente ad hoc, far passare in secondo piano (o far sparire direttamente) le cose fatte, le azioni concrete, i provvedimenti effettivi.


Uno schema che funziona, e paga, in maniera a dir poco chirurgica. Ieri, nel mio tradizionale “social tour” del giorno dopo per sondare reazioni e umori della pancia degli italiani, i commenti di un numero incalcolabile di elettori leghisti, andavano proprio in questa direzione. Vale a dire: con in tasca una vittoria storica, percentuali da Democrazia Cristiana dei tempi d’oro e, soprattutto, avere definitivamente in mano le chiavi del governo, sia quello attuale, sia – probabilmente e soprattutto – quello futuro, la principale attività dei sostenitori del Carroccio era quella di continuare la campagna elettorale, proseguire l’attacco incessante sentendosi, ancora ed eternamente, all’opposizione.

Perciò ho letto diluvi dei soliti attacchi ai “buonisti”, ai “sinistri”, ai “piddini”, alle “zecche rosse”, ai “centri sociali”, ai “comunisti criminali”, alle “lobby delle banche”, agli “amici della Boldrini”. Oceani di “prendeteveli a casa vostra gli immigrati”, “è giusto dare le case ai Rom e non ai terremotati italiani?” e via dicendo.


E non un solo ragionamento da “maggioranza”, non una sola parola sul fatto che, essendo ormai – appunto – maggioranza del paese, ci sono i numeri per FARE tutto ciò che è stato proclamato, sbandierato, strombazzato, promesso.


Ci sono i numeri:

  • per rimpatriare tutti i clandestini,
  • per radere al suolo i campi rom,
  • per escludere tutti i rom (compresi quelli italiani) da qualunque diritto,
  • per sgomberare tutti i centri sociali,
  • per chiudere definitivamente i porti,
  • per alzare un muro a Lampedusa e in Sicilia,
  • per ribellarsi all’Europa e sforare i parametri dell’UE senza pagare alcuna sanzione,
  • per eliminare le unioni civili,
  • per favorire il possesso delle armi,
  • per abolire la cannabis legale,
  • per revisionare la legge sull’aborto,
  • per dare finalmente una casa a tutti gli italiani terremotati,
  • per abbassare le tasse al ceto medio,
  • per istituire gli asili nido gratuiti,
  • per fare la TAV e le altre grandi opere,
  • per cacciare Fabio Fazio dalla RAI,
  • per togliere la scorta a Saviano,
  • per porre fine alla dittatura culturale della sinistra radical chic,
  • per tagliare gli stipendi ai parlamentari,
  • per stabilire un tetto massimo per tutti i dipendenti della televisione pubblica.


Ma, in barba alla logica, il fatto di essere maggioranza e di vedere realizzato ciò per cui si è votato (e quindi giudicare il partito e i politici prescelti sulla base delle azioni concrete, delle promesse effettivamente mantenute e della corrispondenza reale tra proclami e risultati), pare non interessare nessuno o quasi.

E più importante dell’essere maggioranza e del fare è, ancora una volta, attaccare e insultare chi non è d’accordo. Ovvero, è più importante continuare a sentirsi minoranza (quante volte Salvini, nelle ultime ventiquattro ore ha ripetuto “siamo soli contro tutto e contro tutti”?), ad evocare nemici da combattere e abbattere, a rimanere in campagna elettorale.
Salvini e la Lega, dal canto loro, hanno tutto l’interesse affinché le cose vadano così. Se infatti di colpo si quietasse la rissa, cessasse la caciara e si archiviassero gli slogan, occorrerebbe ragionare su dati concreti e reali. E oltre al fatto che sarebbe impossibile far passare per minoranza un partito che governa da un anno (e per nuova una forza che si trova al governo per la quarta volta in venticinque anni), emeregerebbero dati quanto meno contraddittori. Come ad esempio che la tanto strombazzata politica “nuova” in materia di rimpatri è in realtà preossché identica a quella del governo precedente (esatto, proprio quello dei “piddioti buonisti”), oppure che una legge sulla “legittima difesa” in realtà esisteva già.


Ma il razionalizzare l’ovvio, riuscire a vedere l’evidente, pare essere il principale problema dei nostri tempi liquidi. E riguarda tutti, non solo i leghisti.


Spostandoci sulla sponda Cinquestelle, nel mio solito social tour, non ho contato post e commenti di attacchi al PD e, soprattutto, ai suoi elettori (“come si fa a votare ancora PD?” era la domanda più ricorrente). Un attacco che, se pur in maniera più velata e sfumata, da una certa base si è esteso anche a una certa dirigenza. Come se l’unico – o quanto meno il principale – problema pentastellato, in questa clamorosa debacle senza precedenti nella storia del movimento, fosse il PD e questo presunto sorpasso. Presunto perché in realtà, sempre analizzando la realtà e non ragionando per slogan, non c’è stato alcun sorpasso. Il PD infatti, presentatosi con una lista unitaria (inglobando cioè anche LeU), ottiene un quasi 23% che altro non è che la somma dei ottenuti da PD e LeU alle politiche del 2018. Anzi, a voler esser pignoli, rispetto alla precedente tornata c’è addirittura un arretramento. Lievissimo, circa 80mila voti, che se considerata l’affluenza più bassa diventa nullo, ma resta il fatto che non è il PD ad aver sorpassato il Movimento, ma sono i Cinquestelle ad essergli precipitati alle spalle, con un tonfo di sei milioni di voti. Di cui nessuno, se la matematica non è un’opinione, pare essere travasato nel PD, ma tutti in quota Lega.
Eppure quasi nessuno, in casa pentastellata, pare voler affrontare la questione di come la Lega, in maniera fin troppo evidente, li stia letteralmente sbranando.
Procedendo sulle difficoltà a ragionare per principio di realtà e logica dell’evidenza, non sono messi affatto meglio in casa PD, dove oltre a vaneggiare (poco in realtà) del fantomatico sorpasso di cui sopra, si festeggia (in verità troppo) come se si fosse ottenuta la più piena e rotonda delle vittorie. Un festeggiamento che suona come la più sconsiderata delle follie: oltre a non registrare alcun incremento di voti e ad essersi limitati a esistere mantenendo la posizione, diciotto regioni su venti sono a maggioranza leghista (comprese alcune storiche roccoaforti della sinistra) o pentastellata, e nelle amministrative il PD non vince in nessun comune, ma bene che vada ottiene la riconferma. E nonostante l’entusiasmo di Zingaretti per la ritrovata unità del partito, già ieri sera i renziani partivano all’atacco rivendicando le vittorie di Gori a Bergamo e Nardella a Firenze non come successi del PD, ma come trionfi della loro corrente.

In mezzo a tutto questo, io continuo – comunque e tuttavia – a essere di sinistra. Totalmente e indiscutibilmente di sinistra. Laddove l’essere di sinistra non è – specie oggi, in questo panorama più desolante che confuso, più vuoto che contraddittorio – appartenenza a un partito o a uno schieramento. Al contrario, il passare degli anni marca sempre più la mia distanza dai partiti, l’impossibilità a identificarmi e a riconoscermi in essi, tutti quanti, che si tratti del PD o della Sinistra di Fratoianni (che pure, per posizionamento e principi, sarebbe la mia “casa naturale”) o di Potere al Popolo. Una solitudine, la mia, tutt’altro che felice e dettata e dovuta in particolare alle modalità di azione e intervento, agli stessi modi con sui si manifesta il proprio essere e il proprio esserci. Modalità che nella migliore delle ipotesi risultano totalmente aliene dalla società reale, inadeguate alla società contemporanea, incapaci di leggerla e di offrire risposte convincenti. Nella peggiore finiscono per rinnegare quello stesso sistema di valori e principi assoluti che, a priori, hanno sempre definito e continuano a definire la sinistra.

Nella speranza, un domani che mi auguro il più prossimo possibile, di approfondirli, concludo lanciando tre modestissimi spunti di riflessione, tre questioni su cui, sempre nella mia piccola visione di uomini e mondo, si dovrebbe giocare il futuro della sinistra.

Uno. Parlare per prima e non limitarsi a rispondere. Ovvero smetterla di rincorrere la destra, sia nell’imitarla (e di tentativi di emulazione, purtroppo, negli ultimi trent’anni, ne contiamo a non finire), sia nel limitarsi a opporsi alle sue iniziative. Sono anni che la sinistra è ferma e immobile, che si muove esclusivamente “in risposta” alle azioni degli altri. Per fare un esempio, non basta schierarsi contro la chiusura dei porti. Occorre proporre l’alternativa, spiegare la società aperta e dell’integrazione che abbiamo in mente, come la faremmo funzionare, illustrare quali sarebbero i nostri provvedimenti e quali sarebbero i benefici. E questa alternativa occorre costruirla e proporla indipendentemente dalle azioni della Lega o di chi per loro. In tutti i campi, dall’immigrazione alla scuola, dal lavoro alle politiche giovanili.
Due. Il territorio, la strada, la gente. Ovvero, ritornare nel tessuto sociale, riportare la politica per strada. Oggi siamo o partiti che esistono solo in virtù delle proprie segreterie e di iscritti che si limitano a pagare la quota annuale, oppure siamo élite annoiate che si parlano addosso e snobbano il ventre del mondo. Al contrario dobbiamo tornare a quel ventre, capire che cosa è popolare e perché lo è, decifrare il linguaggio della strada e, prima di pretendere di “elevarlo”, comprenderlo a fondo. Organizzare iniziative per tutti, creare momenti di incontro dove la politica non sia nelle parole, ma nelle azioni.
Tre. Presente e futuro. Ovvero, che il passato resti come un’eredità gigantesca di valori che non possono essere messi in discussione, come la giustizia sociale, l’uguaglianza, l’egalitarismo, l’apertura delle frontiere, la cooperazione e la solidarietà. Ma che cessi, il passato, di essere un mostro da rincorrere e da far rivivere ostinatamente identico a se stesso. Prendere quei valori imprescindibili e altissimi e portarli nel nostro presente. E proiettarli nel futuro che verrà.

E tutto questo non perché la sinistra continui a esistere, ma perché ricominci a essere.

(*)  Riccardo Lestini (Passignano sul Trasimeno, 1976),  scrittore e regista, scialacquatore d’esistenza e protagonista di imprese disperatamente trascurabili, viaggiatore corsaro e disordinato, a volte guerriero, più spesso eremita, vive a Firenze, con la sua compagna Teresa, dove insegna  materie letterarie nelle scuole superiori.

Ha pubblicato i libri: Solitudini, Amore e disamore Con il tuo sasso, nonché il saggio di storia del teatro Alla ricerca di un attore perduto edito da Olshcki e il fumetto L’estate ritorna, su disegni di Michele Benevento.

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