Pensare fuori dai modelli convenzionali aiuta, ma prima di tutto è meglio conoscerli.

Sì, la crisi del liberalismo secolare a cui il Presidente Putin ha fatto riferimento nella sua intervista al Financial Times non è limitata all’Europa. È anche in Israele.

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di Alastair Crooke, 8 luglio 2019

Daniel Levy, un ex negoziatore israeliano con i palestinesi, scrive: “ciò che Manama [la presentazione di Kushner sugli aspetti economici del ‘Deal of the Century’] ci dice dell’approccio di Kushner alla regione più estesa al di là di Israele-Palestina, potrebbe essere ancor più preoccupante per il benessere americano e globale nei prossimi 18 mesi …”:

“L’errata attuale diagnosi americana alla regione, con l’aggiunta dell’ingenuità di questa Casa Bianca, combinata con l’assenza di rilevatori di stronz… quando si tratta di ciò che israeliani e alcuni Stati del Golfo stanno preparando, è stata pericolosamente presentata in Bahrein. L’amministrazione Trump non è riuscita a creare un nuovo modo di procedere in Palestina e nella regione. Tuttavia, si è comprata un progetto in cui Israele e alcune parti del Golfo cooperano, non per stabilizzare la regione, ma per spingere la Casa Bianca a eseguire i loro ordini contro l’Iran. Quello che a Gerusalemme e Riyadh si preferisce è che, invece che fare i conti con un necessario bilanciamento degli interessi regionali, compresi i legittimi interessi dell’Iran, è avere il massimo dello scontro tra l’America e l’Iran.

“Manama ha mostrato i limiti (per non parlare della desiderabilità) di ogni presunta nuova alleanza regionale [configurata contro l’Iran] … La riunione ha sicuramente messo a fuoco la loro scarsa conoscenza del portfolio Israele-Palestina. (Un partecipante di spicco ha confidato privatamente che anche se è bello che questa squadra americana sia orgogliosa di pensare fuori dai modelli convenzionali, sarebbe bene se innanzi tutto li conoscesse.) Èuna dimostrazione stupefacente di quanto sono del tutto manipolati dai vari attori regionali in un modo altamente dannoso per gli interessi americani”.

 

Dunque, cosa si intende esattamente per ‘modelli convenzionali’? Bene, in primo luogo, ‘che cos’è esattamente’ che gli attori regionali temono? Non un’arma nucleare iraniana – di sicuro. Questo è uno ‘spauracchio’ evocato da Israele per spaventare e mobilitare i funzionari americani a sostegno di Israele. Anche se l’Iran dovesse sviluppare un’arma del genere (cosa che tutte le agenzie di intelligence statunitensi dicono che l’Iran non fa), come potrebbe essere usata contro Israele, la cui popolazione, tra il fiume e il mare, è di 6,5 milioni di palestinesi e 6,5 milioni di israeliani? Le armi nucleari non discriminano per etnia.

Molto tempo fa, israeliani di alto livello furono abbastanza schietti nel dirmi di non essere preoccupati per gli armamenti convenzionali dell’Iran (e per quelli non convenzionali): non avevano mai creduto alla ventennale narrativa di Israele sull’Iran che era a un anno dall’avere una ‘bomba islamica’.

Un anno o due fa, ho trascorso una settimana come ospite delle due sacre moschee a Karbala (Iraq). Lì ho visto, nel santuario dell’Imam Hussein, qualcosa di indimenticabile. In quel luogo, letteralmente ribollente di umanità, c’era lo spettro di una energia fluida. Era un popolo che si era mobilitato, stimolato smisuratamente, per il quale il truce assassinio di Hussein (il nipote del Profeta) si stava svolgendo in quel preciso istante. Lo stavano vivendo, ora come allora, in un modo che gli occidentali semplicemente non possono assolutamente comprendere in profondità.

Cosa significa? Ciò che spaventava gli Stati del Golfo allora nel 1979 – e ciò che li spaventa ora – era il rivoluzionario impulso all’insurrezione della Rivoluzione iraniana. Lo sciismo fin dall’inizio è stato in qualche modo in contrasto con giochi di potere dominanti e terreni: sempre alla ricerca di qualcosa – un ‘dentro’ più profondo. Kerbala mi ha mostrato che se l’impulso rivoluzionario in Iran si era placato in lenta combustione, non si era però estinto. E anzi, quella religiosità sciita si accende ancora nella periferia.

Ovviamente la Rivoluzione del 1979 – e il sequestro della Grande Moschea alla Mecca da parte dei rivoluzionari wahhabiti (sunniti) nello stesso anno – spaventarono gli Stati del Golfo. Questi ultimi – nonostante la simpatia verso il lancio della Jihad religiosa contro i loro nemici – in casa propria hanno abbracciato un neoliberismo secolare. Ma la legittimità di una autocrazia di sicurezza o monarchia sta calando, e c’è mancanza di un qualsiasi sistema credibile di governance (o persino di qualsiasi sistema per una successione stabile). In breve, non c’è una ‘visione’ convincente.

Questo è il punto. Queste grandi ‘dinamiche’ del mondo musulmano non sono affari degli Stati Uniti e, in più, non saranno risolte da un intervento straniero (non più di quanto la sanguinosa ‘Riforma’ europea avrebbe potuto essere arbitrata da uno straniero). In breve, lo sciismo sta vivendo un rinascimento, proprio come il ‘sistema’ arabo continua la sua parabola discendente in termini di legittimità e credibilità popolari. Per gli Stati Uniti pensare che gli Stati del Golfo siano in grado di affrontare l’Iran – di estinguere questa rinascita sciita – è, come dice Levy, ingenuo.

No, non possono. Anche se gli Stati del Golfo e Israele condividono comunque un interesse comune. Vorrebbero che l’America distruggesse l’Iran per conto loro, nella speranza che ciò possa in qualche modo prolungare la longevità delle monarchie del Golfo. E, per così dire, proteggerle anche da disordini civili interni (con l’invio del ‘gene’ rivoluzionario nella regione). Ma anche così, alcuni leader del Golfo vedono il pericolo che un simile progetto possa non rimanere limitato all’Iran, ma arrivi a immolare l’intera regione. Per Israele, questi Stati di sicurezza forniscono la compiacente – pur se inadeguata – profondità strategica in cui un Grande Israele potrebbe, un giorno non lontano, realizzarsi.

Quindi, qual è allora la natura di questa crisi iraniana? Beh, ci sono due componenti: in primo luogo, la crisi tra Iran e Washington è solo nominalmente su questioni nucleari. È piuttosto una crisi politica tra Iran e America che risale all’umiliazione del presidente americano Carter nel contesto dell’assedio dell’ambasciata statunitense a Teheran. La disputa nucleare è solo il pretesto per questa aspra lotta. Quando il Segretario Pompeo dice che i negoziati sono possibili – come e quando – l’Iran diventerà una ‘nazione normale’, intende chiaramente solo ‘quando l’Iran abiurerà alla sua rivoluzione’. Ancora una volta, questo riflette una completa mancanza di comprensione di ‘quello’ che rende l’Iran esattamente ciò che è.

Questo antagonismo USA-Iran spiega anche il motivo per cui l’Iran rifiuta di negoziare sul JCPOA (accordo sul nucleare iraniano – NdT) con Trump. La Guida Suprema capisce che la natura della crisi è di profonda ostilità politica, piuttosto che di una necessità delle parti ad accordarsi su qualche ‘rattoppo’ tecnico da scaricare per il software del JCPOA (come ad esempio l’estensione delle ‘clausole di caducità’).

Il ‘cerotto’ a breve termine applicato al JCPOA risolve poco. L’antagonismo rimane irrisolto. Invece l’Iran intende alzare la posta in gioco per Trump dandogli la scelta: Rischia le tue prospettive elettorali presidenziali per il 2020, intrappolandoti in una acuta escalation con l’Iran, o rinuncia alle sanzioni sul petrolio e bancarie. La leadership iraniana innalzerà le sue contromisure contro il ‘collasso del regime’ perseguito dallo strangolamento economico. Trump potrebbe scoprire di essere obbligato a scegliere tra via militare o ritirata.

La seconda crisi è quella interna a Israele. Da notare cosa un importante commentatore politico israeliano, Ben Caspit, ha scritto (in ebraico, per Ma’ariv – 24 maggio) come ‘voce del cuore’, prima della grande marcia indetta dall’opposizione a Netanyahu, poco prima delle recenti elezioni israeliane:

“È imperativo venire al Museo d’Arte di Tel Aviv domani sera. Venite in macchina, venite a piedi, portate la bici, portate lo scooter, venite in compagnia, venite da soli. Portate i vostri amici, i genitori, i figli, vostra moglie, vostro marito, la vostra badante. Venite correndo, venite camminando, venite con il deambulatore o la sedia a rotelle. Venite come siete: di sinistra, di destra, sopra, sotto o al centro. Ciò che conta è che veniate. Succede qui, succede ora. Non avrete scuse più tardi. Quando vi chiederete dove eravate quando è successo, dite a voi stessi che eravate lì. Siete venuti. Vi siete offerti volontari per salvare lo Stato di Israele che conoscevamo. Saprete che non vi siete arresi, che non vi siete lamentati, che non avete accettato il decreto, che siete venuti a combattere per la vostra casa. Non è un luogo comune. Questa è una guerra per la nostra casa.

“Questa non è la guerra di Blue and White o del Partito laburista o ‘della sinistra’ o del centro o dei liberali o dei conservatori… È la guerra di ogni israeliano che crede nella libertà, nell’uguaglianza, nei valori della Dichiarazione di Indipendenza e nella natura di Israele così come i padri fondatori l’hanno immaginata. Di tutti coloro che non sono disposti ad accettare un governo tirannico, che riconoscono la china scivolosa su cui saremo spinti quando la Knesset pone il governo al di sopra della legge e revoca la capacità dei tribunali di svolgere la loro funzione accettata in qualsiasi paese democratico: la supervisione del governo.

“Questa è la guerra di tutti coloro che non vogliono lasciare che la Knesset si trasformi in una città rifugio per i criminali. Questa è anche la guerra (come hannodimostrato i sondaggi) dell’estrema destra, dei sionisti religiosi, delle persone che indossano maglie e zucchetti neri, dei membri registrati del partito Likud e dei suoi elettori”.

Sì, la crisi del liberalismo secolare a cui il Presidente Putin ha fatto riferimento nella sua intervista al Financial Times non è limitata all’Europa. È anche in Israele.

Laurent Guyénot ha scritto un libro erudito, From Yahwey to Zion, che traccia il percorso dal Yahwehism biblico al laico – ma ancora ‘biblico’ – sionismo, come esemplificato nella persona di Ben Gurion. Ma quello che possiamo osservare che spaventa tanto Caspit nella sua supplica di Ma’ariv, è la sua paura che Israele stia ora transitando dal sionismo liberale (dei primi sostenitori del Kibbutzim) indietro verso il Yahwehism.

Gli Stati del Golfo ne hanno certamente una vaga idea. E l’Iran certamente lo fa. Questo costituisce il secondo filone non detto. In un articolo del Washington Post intitolato Gli inviati di Trump prendono un martello per la Pace in Medio Oriente, c’è una foto dell’inviato statunitense David Friedman che pochi giorni fa brandiva un martello per aprire un antico passaggio per ‘quella che alcuni archeologi e un un’organizzazione ebrea di estrema destra nazionalista credono essere un’antica arteria che portava ai luoghi santi di Gerusalemme (ma che passa direttamente sotto l’antico quartiere palestinese di Silwan).’ Friedman era accompagnato dal donatore di Trump, Sheldon Adelson, da Jason Greenblatt, Sara Netanyahu, moglie del primo ministro e dall’ex sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat.

Questo può giocare bene con le basi di Trump e Netanyahu, ma Trump e i suoi consiglieri comprendono cosa potrebbero scatenare, con l’incoraggiamento della destra religiosa in Israele (cioè, Yahwehism con tutte le sue connotazioni bibliche di dominio e persino Impero)? La squadra di Trump, chiede Daniel Levy, capisce veramente ‘quanto siano stati completamente manipolati dai vari attori regionali, in un modo che è altamente dannoso per gli interessi americani’?

Probabilmente no – ecco perché la regione è così in tensione. L’attualizzazione di un Israele biblico – che gli evangelici statunitensi chiaramente desiderano – rappresenta una provocazione molto, molto più potente della “Deal of the Century”.

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

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