Dalle ondate di calore all’eco-apartheid: i cambiamenti climatici in Israele-Palestina.

Mentre il nascente movimento israeliano per la giustizia climatica cerca di attirare l’attenzione del pubblico, i palestinesi sotto occupazione rimangono i più vulnerabili ai pericolosi effetti dei cambiamenti climatici. A causa dell’attuale squilibrio di potere, tuttavia, lavorare insieme per combatterli sembra quasi impossibile.

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Matan Kaminer, Basma Fahoum, Edo Konrad – 8 agosto 2019

Immagine di copertina: lavoratori palestinesi raccolgono  zucche in un campo vicino a Moshav Masua, nella valle del Giordano, al confine israelo-giordano. 8 gennaio 2017. Foto di Yaniv Nadav / FLASH90

Il Luglio 2019 è stato, secondo i ricercatori climatici  europei, il mese più caldo mai registrato. Appena un anno dopo la pubblicazione, ad opera dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, del suo rapporto di riferimento che avvertiva di una catastrofe climatica imminente, le temperature sono salite a livelli senza precedenti in luoghi come l’Alaska e la Svezia, in Siberia le foreste bruciano, in Groenlandia i ghiacciai si sciolgono e in India intere città sono rimaste senz’acqua.

Di fronte all’aumento delle temperature, in tutto il mondo affrontare la crisi climatica e i suoi effetti sull’umanità è diventata una questione chiave per governi, politici e movimenti per la giustizia sociale. Israele-Palestina, situata in una delle regioni più calde del globo, dovrebbe riscaldarsi a un ritmo ancora più veloce.

Un sondaggio tra gli israeliani mostra molta indifferenza nei confronti della crisi in arrivo, il che significa che il governo israeliano sta subendo poca pressione popolare sulla questione. Non sono state condotte ricerche equivalenti nei territori palestinesi occupati, ma la continua occupazione della Cisgiordania e l’assedio di Gaza aggravano il rischio di catastrofi climatiche per i palestinesi e rendono praticamente impossibile per il loro governo fare qualcosa al riguardo.

Alla fine dell’anno scorso, un gruppo di ricercatori israeliani pubblicò la prima previsione dettagliata di ciò che il cambiamento climatico potrebbe significare per Israele-Palestina. I risultati sono spaventosi: rispetto al periodo di riferimento 1981–2010, si prevede che il periodo di 30 anni a partire dal 2041 vedrà aumentare le temperature medie fino a 2,5 gradi Celsius con un calo delle precipitazioni fino al 40% nelle zone non aride del Paese.

Israeliani attraversano i binari della metropolitana leggera a Gerusalemme, l’8 settembre 2015, mentre una tempesta di sabbia colpisce il paese. (Yonatan Sindel / Flash90)

Secondo una ricercatrice , la professoressa Hadas Saaroni dell’Università di Tel Aviv, durante i mesi estivi il caldo e l’umidità che gli israeliani e i palestinesi che vivono lungo la costa dovranno sopportare, non faranno che aumentare. Abbiamo già quasi 24 ore di stress termico in estate, dice,  che tuttavia ora tende a diminuire di sera e di notte. “Questo peggiorerà: lo stress da calore sarà pesante durante il giorno e non si attenuerà durante la  notte.” E come quasi tutto ciò che riguarda i cambiamenti climatici, il calore non sarà distribuito equamente. Recenti ricerche condotte dal Comune di Tel Aviv-Jaffa prevedono che le temperature nella parte  sud della città, la zona più povera, saranno fino di sette gradi Celsius più elevate rispetto al ricco nord.

Mentre Saaroni è sorprendentemente ottimista riguardo  gli effetti del cambiamento climatico sull’innalzamento del livello del mare (“il mare si innalzerà di circa un metro, ma solo entro la fine del secolo. Con la tecnologia abbiamo tempo di adattarci”), lei e altri climatologi israeliani sono sempre più preoccupati per la desertificazione strisciante del Paese. Temperature più alte e meno precipitazioni significano che il deserto, che copre già gran parte del Paese, avanzerà costantemente verso nord, afferma il professore ecologista Marcelo Sternberg, anch’egli  dell’Università di Tel Aviv.

Tuttavia, senza ulteriori ricerche, è difficile dire fino a che punto procederà la desertificazione. “Alcune ricerche, compresa la mia, dimostrano che il nostro territorio è resistente ai cambiamenti delle precipitazioni all’interno della gamma naturale di variazione”, afferma Sternberg. “Ma i cambiamenti climatici significano temperature al di fuori di tale intervallo – e non sappiamo cosa significhi”. Ciò che sembra certo è che gli incendi, che hanno sempre più colpito il Paese negli ultimi anni, durante le estati continueranno a devastarlo.

Lottare contro “l’apartheid climatico”

Lo Stato di Palestina ha firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Ma a causa del dominio militare israeliano sulla Cisgiordania e del blocco della Striscia di Gaza, i palestinesi non hanno quasi alcun controllo sulle proprie risorse naturali, non sono in grado di attuare pienamente i trattati o di accettare progetti nazionali e non possono fare piani concreti per far fronte ai cambiamenti climatici.

Per gli  effetti dei cambiamenti climatici, in Cisgiordania l’approvvigionamento idrico è il più vulnerabile. Secondo un rapporto del 2013 del gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq, il consumo pro capite israeliano di acqua per uso domestico è da quattro a cinque volte superiore a quello della popolazione palestinese dei Territori Occupati. In Cisgiordania i coloni israeliani consumano circa sei volte la quantità di acqua utilizzata dalla popolazione palestinese che vive nello stesso territorio.

Palestinesi cercano di estinguere un incendio in un campo di grano nel villaggio di Salem, a est di Nablus, in Cisgiordania, il 23 giugno 2018. (Haytham Shtayeh / Flash90)

Alcune comunità palestinesi, in particolare quelle che vivono in zone della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano, non sono collegate a nessuna infrastruttura idrica e devono viaggiare per miglia per acquistare acqua, spesso costosa e di dubbia qualità. Nel frattempo, l’esercito israeliano rende quasi impossibile la costruzione di nuove cisterne per l’acqua, e quelle costruite senza permessi vengono regolarmente distrutte dalle autorità.

Secondo Al-Haq, il settore idrico nei Territori Occupati e in Israele è caratterizzato da un asimmetrico sfruttamento eccessivo delle risorse idriche condivise, dall’esaurimento dello stoccaggio a lungo termine, dal deterioramento della qualità dell’acqua e dall’aumento dei livelli di domanda trainati da un’elevata crescita della popolazione. Nel frattempo, l’area sta assistendo a una riduzione pro capite dell’approvvigionamento idrico – un onere che è sproporzionatamente  a carico della popolazione palestinese.

Il Dr. Abdulrahman Tamimi, direttore generale del Palestinian Hydrology Group, afferma che mentre Israele ha la capacità tecnologica di adattare il proprio settore agricolo ai cambiamenti climatici, entro un decennio in Cisgiordania l’agricoltura diventerà impraticabile. La situazione a Gaza è aggravata dall’assedio israeliano, che tra l’altro ha portato allo sfruttamento eccessivo delle risorse idriche sotterranee che impoveriscono sempre più la falda acquifera costiera, il che ha reso il 90 percento dell’approvvigionamento idrico inadatto al consumo umano.

” Fintanto che la situazione politica rimane irrisolta, non c’è speranza per Gaza sotto nessun aspetto “, sostiene Tamimi. Dice di credere che nei prossimi cinque o sei anni l’agricoltura, le infrastrutture idriche e l’economia di Gaza saranno disfunzionali. Soluzioni come la dissalazione, che consentirebbe sia di bere acqua potabile sia di irrigare regolarmente, sono lussi che le persone a Gaza semplicemente non possono permettersi, Tamimi spiega: “Chi pagherebbe  1,5 dollari  al metro cubo?”

“L’acqua è già una risorsa scarsa nella regione”, afferma Zena Agha, il Policy Fellow di Al Shabaka che si concentra sull’intersezione tra il clima e l’Occupazione israeliana, “il cambiamento climatico agisce semplicemente come un moltiplicatore della minaccia. ”

Agha afferma che sulla carta, un accordo di pace israelo-palestinese avrebbe dovuto essere in grado di risolvere la crisi idrica in Cisgiordania. Invece, gli Accordi di Oslo, una serie di accordi provvisori che oltre due decenni fa avrebbero dovuto portare a un accordo sullo status definitivo, non hanno fatto altro che aggravarlo. Di conseguenza, l’80% delle fonti idriche nei Territori Occupati sono sotto il controllo israeliano. Nel frattempo, i soldati israeliani distruggono regolarmente i tradizionali sistemi di raccolta dell’acqua su piccola scala utilizzati dai palestinesi nelle aree della Cisgiordania lasciati da Oslo sotto il pieno controllo militare israeliano.

“Si inizia a a vedere una politica formale di furto di acqua e di risorse, sostenuta e regolamentata da una serie di leggi, politiche, licenze, permessi e udienze giudiziarie che vengono utilizzate per rubare l’acqua palestinese”, afferma Agha. “In più, esiste anche un  tipo di approccio realista, che prevede l’arrivo dell’IDF, la dichiarazione di una zona militare chiusa e il furto diretto delle risorse. Questa è la politica attiva dello Stato israeliano “.

Agha afferma che le politiche di Israele in Cisgiordania equivalgono a un “apartheid del  clima”.

Palestinesi prendono acqua dalle tubature fornite dal quartier generale dell’UNRWA) nel campo profughi di Rafah nella striscia meridionale di Gaza, 6 gennaio 2018. (Abed Rahim Khatib / Flash90)

“Quello che sta accadendo in Palestina è un chiaro esempio di un gruppo etno-religioso che, puramente sulla base della religione e della cittadinanza, ottiene risorse migliori e preferenziali rispetto a un altro gruppo. L’occupazione crea una situazione in cui è impossibile per i palestinesi sviluppare effettivamente delle capacità adattive per resistere all’imminente minaccia dei cambiamenti climatici “, afferma Agha.

Mentre la Palestinian Authority’s Environment Quality Authority ha pubblicato un piano  sostenuto dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite, Agha sostiene che tali piani sono “quasi farseschi”.

“Supponiamo che l’AP abbia la capacità di pianificare in anticipo 40 anni. In realtà non ha  neppure la capacità di prevedere cosa accadrà domani. L’AP è in nel mezzo di un paradosso: pianificare un futuro su una terra su cui non ha controllo. In qualsiasi caso, è impotente. ”

Tuttavia, Agha ritiene che l’AP abbia un ruolo da svolgere, implementando strategie a lungo termine per cercare di adattarsi alla realtà attuale, incluso il confronto diretto con Israele sulle sue politiche idriche, la promozione dell’agricoltura sostenibile e dell’agro-ecologia e il ripristino delle cooperative agricole che rappresentino gli interessi e le preoccupazioni degli agricoltori e che negli anni ’80 erano popolari in tutti i Territori Occupati.

Un ufficiale di polizia di frontiera israeliana osserva agricoltori palestinesi nel villaggio di Qusra in Cisgiordania, 19 novembre 2013. (Nati Shohat / Flash90)

Alcune ONG e attivisti palestinesi stanno cercando di  riempire quel vuoto. La Nature Palestine Society, ad esempio, sta cercando di condurre il primo sondaggio completo sulla flora e sugli uccelli della Palestina, per comprendere meglio i cambiamenti della biodiversità a seguito dei cambiamenti climatici. Il Palestine Institute for Biodiversity and Sustainability  e  il Museo di Storia Naturale della Palestina presso l’Università di Betlemme stanno conducendo un programma per preservare la biodiversità del Paese e per studiare le complesse questioni sulla distruzione dell’habitat e il declino ambientale causati sia dal cambiamento climatico che dalla politica dei conflitti.

In Cisgiordania attivisti palestinesi hanno dato vita a iniziative ambientali come librerie di semi antichi che preservano il patrimonio agricolo e la biodiversità palestinesi, agroecologia e agricoltura sostenuta dalla comunità, al fine di promuovere la sovranità alimentare minimizzando i danni ambientali dell’agricoltura.

Un insuccesso politico

Nel luglio 2018, il governo israeliano ha adottato il “Programma Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici”, che comprende 30 azioni riguardanti vari aspetti del cambiamento climatico, come l’acqua, l’energia e la salute pubblica. Il piano affronta anche questioni politiche ed economiche, tra cui gli adeguamenti all’industria del clima, la possibilità di utilizzare l’energia nucleare e il modo in cui i cambiamenti climatici influenzano il Medio Oriente, inclusi i rifugiati, nuove rotte commerciali e scarsità di cibo e acqua.

Grande attenzione è riservata alle questioni militari. Il piano include raccomandazioni per le esigenze materiali e strategiche dell’IDF, che si estendono dalle uniformi dei soldati e dalle posizioni delle basi allo studio dell'”effetto del cambiamento climatico sui Paesi musulmani” e alla stipula di accordi di mutuo soccorso. Il piano, tuttavia, non specifica la fonte di finanziamento per ciascuna voce e non fornisce il costo complessivo previsto.

La produzione di energia di Israele rimane quasi interamente basata sui combustibili fossili. In molti Paesi in tutto il mondo,  il dibattito sul clima si è concentrato sulla produzione di energia non più basata sui combustibili fossili – a seguito di forti pressioni pubbliche, governi come quelli della Germania e della California hanno annunciato un passaggio pianificato al 100 percento di energia rinnovabile entro il 2050 – ma in Israele, la questione è un insuccesso politico. All’inizio del 2018, il Ministero dell’Energia israeliano ha proposto un piano per passare da “combustibili inquinanti” come carbone e petrolio al gas naturale. Il piano mira a raggiungere un obiettivo pari al 17% della produzione di energia rinnovabile entro il 2030, con un obiettivo intermedio del 10% entro il 2020.

Turbine eoliche nelle alture del Golan occupate da Israele. (Flash90)

La domanda di produzione  di energia rinnovabile al 100%, tuttavia, ha  oppositori anche all’interno del movimento ambientalista israeliano. Mentre Green Course, un gruppo ambientalista di base, ha accettato la sfida, la Society for the Protection of Nature in Israel, l’organizzazione ambientalista più affermata di Israele, sostiene che i parchi eolici e solari rappresentano una minaccia per la rara e preziosa biodiversità del Paese, in quanto  i primi distruggono gli habitat degli animali terrestri e i secondi uccidono gli uccelli.

“Stimiamo che i pannelli solari posizionati sui tetti o su  altre superfici abbandonate  o degradate possano fornire almeno un terzo del fabbisogno energetico di Israele”, afferma Dror Boymel, capo del dipartimento di pianificazione di SPNI. “Il resto dovrà provenire da altrove – dal gas naturale o da altri Paesi della regione senza carenza di spazio e con una fauna selvatica meno vulnerabile”.

‘È difficile parlare di rendere questo un posto migliore’.

Uno studio pubblicato dal Pew Research Center prima della Giornata della Terra di quest’anno, ha  rivelato che solo il 38% degli israeliani considera il cambiamento climatico una grave minaccia. Dei 26 Paesi presi in considerazione, Israele è arrivato ultimo. La ricerca non ha incluso i palestinesi nei Territori Occupati.

Il movimento ambientalista israeliano sta cambiando marcia in conformità a tali risultati. Mentre in passato i gruppi ambientalisti tendevano a concentrarsi su questioni “leggere” come il riciclaggio, oggi il cambiamento  climatico è in cima alla loro agenda, con molti convinti che solo un’azione radicale sarà in grado di fermare la catastrofe.

“Gli attivisti del clima non sono più considerati ” carini ” come una volta”, afferma Ya’ara Peretz, responsabile della politica per il Green Course.  Peretz è stata una degli organizzatori  principali della Marcia Climatica di quest’anno, la più grande di sempre in Israele, che ha visto diverse migliaia di persone protestare nel centro di Tel Aviv, chiedendo al governo israeliano di agire immediatamente.

“Il rapporto IPCC ha cambiato tutto e ha spinto le persone fuori dalla loro zona di comfort”, afferma. “Ci stiamo  rendendo conto che la situazione è grave e ciò che stiamo vedendo accadere in tutto il mondo sta aiutando ad acquisire consapevolezza. Le persone vogliono essere coinvolte: ora è il momento di essere creativi. ”

Uno dei maggiori cambiamenti, afferma Peretz, è l’impegno dei giovani cittadini israeliani – sia ebrei che palestinesi – che ora guidano il movimento con l’aiuto di attivisti del Green Course. Prendendo spunto da Greta Thunberg, l’attivista adolescente svedese che è diventata un’icona della lotta contro i cambiamenti climatici, gli studenti delle scuole superiori hanno tenuto diversi presidi e hanno marciato verso la Knesset, chiedendo ai legislatori di iniziare a prendere sul serio il problema. “Questi ragazzi sono molto più intelligenti di noi”, afferma Peretz.

“Ho sempre pensato che i problemi si verifichino quando qualcun altro  prende le decisioni”, ha dichiarato Lama Ghanayim durante un evento nel Left Bank Club di Tel Aviv a metà luglio. Ghanayim, della città araba di Sakhnin, nel nord di Israele, è una dei leader degli scioperi studenteschi. “Organizzare questi scioperi è stata un’opportunità per fare finalmente qualcosa. Non mi farò da parte lasciando  che qualcun altro prenda il volante quando si tratta di un problema così critico “, ha detto Ghanayim.

Gruppi ambientalisti veterani come Green Course e SPNI non sono più le uniche voci che si occupano di clima in Israele. Il movimento ad azione diretta Extinction Rebellion ha recentemente  aperto un gruppo in Israele. Il movimento israeliano di sinistra Standing Together, che finora si era concentrato principalmente sulla lotta contro il razzismo, l’occupazione e il sostegno ai diritti dei lavoratori, ha recentemente adottato il cambiamento climatico come una questione centrale della sua piattaforma.

“Tra noi  attivisti si aveva la sensazione che quando si passava dalle proteste climatiche alle proteste per la  pace, si vedevano  facce totalmente diverse”, afferma Ilay Abramovitch, un attivista di Standing Together. “Semplicemente non erano le stesse persone. Ma se ti guardi intorno, vedrai che la maggior parte dei partiti di sinistra hanno il clima in cima alla loro agenda. ”

Abramovitch afferma che la visione della sua organizzazione si basa sull’idea che qualsiasi lotta contro i cambiamenti climatici deve essere intrapresa in collaborazione con i sindacati e con i gruppi palestinesi. “Riteniamo che quando l’ambiente viene danneggiato, le persone vengono danneggiate e coloro che sono maggiormente a rischio sono i segmenti più poveri della società e i Paesi più poveri. La nostra lotta deve essere regionale e, naturalmente, deve essere una lotta arabo-ebraica. ”

Visitatori camminano vicino a un’installazione d’arte presso l’Alrove-Mamilla Esplanade vicino alla Città Vecchia di Gerusalemme. Ogni globo simboleggia una soluzione proposta ai cambiamenti climatici, il 17 aprile 2013. (Nati Shohat / Flash90)

Ma mentre il lavoro congiunto arabo-ebraico sulle questioni climatiche risulta naturale  per  attivisti come Ghanayem e Abramovich, che sono cittadini di Israele, in Cisgiordania la decisione per gli attivisti palestinesi e gli accademici è molto più complicata. Mentre si rendono conto che la pianificazione regionale è inevitabile, sono preoccupati che qualsiasi discussione sulla collaborazione con israeliani sulle questioni climatiche che non affronti l’occupazione, servirà a normalizzare una situazione politica in cui le comunità palestinesi sono più vulnerabili ai cambiamenti climatici.

Ma anche nella sinistra israeliana, unire le forze con il movimento ambientalista non sembra sempre essere una scelta naturale. “Alcune persone chiedono:” Che cosa ha a che fare la sinistra con il movimento ambientalista? Perché non ci lasciate continuare a combattere l’occupazione? “Dice Abramovitch. “Le persone non comprendono del tutto l’opportunità che abbiamo di creare una lotta più ampia mentre affrontiamo la crisi climatica”.

Peretz afferma che, nonostante il suo ottimismo, è ancora difficile convincere gli israeliani, anche quelli coinvolti in altre lotte per la giustizia sociale, a vedere il cambiamento climatico come una minaccia immediata. “La lotta ambientale è vista come una lotta dei privilegiati, soprattutto quando così tanti credono che nulla sia più importante della nostra sicurezza nazionale”, afferma. “È difficile parlare alla gente di come rendere questo un posto migliore. La mentalità è che dovremmo solo essere grati di avere uno Stato tutto nostro – se poi si tratti o meno di uno Stato buono o giusto, questo è considerato secondario. ”

 

Matan Kaminer è un antropologo e membro del consiglio di amministrazione di Academia for Equality.

Basma Fahoum è dottoranda in Storia all’Università di Stanford.

Edo Konrad è il vicedirettore della rivista +972 Magazine.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

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