Il movimento israeliano per la giustizia climatica ha un problema di colonialismo

In tutto il mondo I movimenti per la giustizia climatica considerano l’antirazzismo e la fine dell’oppressione parte integrante della loro lotta. Allora perché gli attivisti ambientali israeliani non sostengono i palestinesi?

Fonte: English Version

Mor Gilboa –  11 settembre 2020

Immagine di copertina: Israeliani partecipano a una manifestazione che invita all’azione contro la crisi climatica e la crisi ecologica  – Piazza Habima, Tel Aviv, 26 luglio 2020 (Tomer Neuberg / Flash90)

In tutto il mondo, i movimenti per il clima sono saldamente radicati nella sinistra politica, sociale ed economica. Le loro campagne e il loro  attivismo creano collegamenti con le lotte per la democrazia, la giustizia sociale e i diritti umani e si esprimono contro il razzismo, la discriminazione, il nazionalismo e il neoliberismo. Non soddisfatto di chiedere un cambiamento delle politiche ambientali, il movimento globale per la giustizia climatica cerca di cambiare le strutture del potere economico e liberare tutti gli esseri viventi da tutte le forme di oppressione, violenza ed espropri.

Eppure il movimento israeliano per il clima spesso rimane in silenzio quando si tratta di combattere il neoliberismo, il razzismo, l’oppressione e l’occupazione e il suo profondo danno ecologico nei confronti di  questa terra e delle persone che ci vivono.

Come persona che ha gestito una grande organizzazione ambientalista per quasi un decennio, ho assistito a come, da un lato, il discorso ambientale si collega facilmente alle lotte contro la corruzione del governo, l’ipercapitalismo e il rifiuto dell’interesse pubblico, e dall’altro come questioni politiche e sociali scottanti che, almeno sulla carta, sembrano estranee al clima, vengono del tutto ignorate.

Al contrario il movimento israeliano per il clima rimane nella zona di comfort del mainstream, sia per cecità, ideologia o per paura di perdere l’ampio sostegno pubblico a cui il movimento ambientalista si è abituato nel corso degli anni.

Eppure non possiamo continuare a ignorare il fatto che Israele governa la vita di coloro che soffrono maggiormente per l’ingiustizia climatica. Molti di loro sono palestinesi, beduini, residenti nelle periferie operaie  a maggioranza  mizrahi, e altri che vivono sotto le catene del razzismo istituzionale e del governo militare.

Molte di queste persone vivono qui da generazioni e sin dai primi giorni dell’impresa sionista hanno affrontato continue discriminazioni, espulsioni e repressioni. Questo è vero per palestinesi, mizrahim, etiopi e altri gruppi che vivono all’interno di Israele e, naturalmente, per coloro che vivono nei Territori Occupati.

Negli Stati Uniti, l’omicidio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis ha portato a commoventi manifestazioni di solidarietà tra il movimento per la giustizia climatica e il movimento Black Lives Matter, sulla base della profonda comprensione che la lotta contro il cambiamento  del clima non è solo una lotta ecologica, ma anche sociale. In Israele,  invece, il movimento per il clima si è astenuto dall’unirsi alla lotta contro la deportazione dei richiedenti asilo africani o contro l’uccisione di Iyad al-Hallaq e Solomon Tekah  ad opera dei militari.

Radici nel movimento sionista

Per comprendere la profondità della crisi che affligge il movimento israeliano per il clima, è sufficiente ricordare che le sue radici furono piantate nei primi giorni del movimento sionista da coloro che credevano che la cura dell’ambiente richiedesse, prima di tutto, assicurarsi che fosse trasferito dalle mani arabe a quelle ebraiche.

Membri del Kibbutz Amir lavorano nel boschetto di papiri delle Paludi di Hula, 30 giugno 1940 (Kluger Zoltan / GPO)

Più di un secolo di colonizzazione della terra ha portato non solo alla cancellazione di rare aree ecologiche come il lago Hula nel nord o del Mar Morto, ma anche alla conquista di un intero paese dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano. Ha significato cancellare un intero popolo dal paesaggio, espellendo le comunità indigene, espropriando la loro terra, giudaizzando il Negev / Naqab e la Galilea e stabilendo centinaia di comunità, insediamenti e avamposti esclusivamente ebraici in tutto il paese.

Il movimento ambientalista in Israele è rimasto tradizionalmente in silenzio su queste questioni fondamentali, preferendo rimanere neutrale piuttosto che rappresentare una minaccia per l’impresa sionista e il suo regime politico-economico. Il movimento ambientalista ha preferito cercare di accontentare tutti, mentre non si allontana quasi mai da quello che è considerato il mainstream politico. Anche la scarsa opposizione all’accaparramento di terre e alla costruzione di insediamenti spesso si aggrappa ad argomenti radicati nella pianificazione e nelle pratiche ecologiche, mai nei diritti dei palestinesi la cui terra è stata saccheggiata.

Dobbiamo guardare negli occhi questa realtà e capire che la crisi ecologica in cui ci troviamo è in verità una crisi politica, economica e sociale. Questo è vero non solo all’interno della Linea Verde, ad Haifa, che è afflitta da inquinamento e malattie; nella valle Hefer, proprio di fronte al giacimento di gas Leviathan; nell’impoverita Tel Aviv meridionale; e nelle alleanze del governo con le società del gas e del petrolio. È anche vero nelle colline meridionali di Hebron e in Cisgiordania in generale, a Gerusalemme est e a Gaza.

Attualmente sono uno dei fondatori di “One Climate”, un movimento che promuove la giustizia climatica tra il fiume e il mare. Oggi siamo in prima linea nella lotta contro l’espansione della cava di Nahal Raba, che da 10 anni in Cisgiordania opera in violazione del diritto internazionale.

La cava, che ha completamente distrutto il torrente Raba, è costruita su un terreno che negli anni ’80 è stato espropriato ai palestinesi. L’area è abitata da dozzine di beduini ed è anche un luogo ecologico sensibile, con branchi di cervi e un’enorme varietà di animali e piante unici, che fanno tutti parte del corridoio ecologico del centro del Paese.

Il piano di ampliamento della cava – che prevede la costruzione di un grande cimitero e di una zona industriale – è solo uno degli ultimi passi volti a consolidare  l’annessione dell’Area C della Cisgiordania, già sotto il pieno controllo militare israeliano, traendo ulteriori profitti dall’occupazione e dalla creazione di un continuum territoriale tra gli insediamenti di Oranit ed Elkana e la città di Rosh HaAyin all’interno di Israele.

Il piano della cava ha incontrato l’opposizione dell’Autorità per la Natura e i Parchi, la Società per la Protezione della Natura e i residenti locali. Tuttavia questi gruppi rimangono ciechi al contesto politico del piano e stanno conducendo una cosiddetta lotta “neutrale” per “preservare” la natura, come se la politica non avesse alcun ruolo nel dettare e plasmare queste politiche distruttive.

View of the Israeli Leviathan gas field gas processing rig as it seen from Dor Habonim Beach Nature Reserve, on January 1, 2020. Photo by Flash90

“One Climate” si è unito al gruppo anti-occupazione “Combatants for Peace”  e all’Istituto Arava per fare  ricorso contro il piano. Questa è una collaborazione senza precedenti tra  organizzazioni ambientali e per i diritti umani e un presagio di lotte future che richiederanno che il movimento per il clima in Israele si unisca alle altre lotte.

Decenni di ingiustizia umanitaria ed ecologica

Per decenni, questo Paese ha subito infinite ingiustizie umanitarie, ecologiche e climatiche a causa di politiche di occupazione razziste e discriminatorie. Queste politiche lasciano milioni di metri cubi di acque luride nei nostri corsi d’acqua e nei nostri mari. Creano gravi carenze di acqua potabile e per l’agricoltura per milioni di palestinesi. Promuovono l’accaparramento di terre e il furto di risorse naturali, nonché l’inquinamento atmosferico e idrico.

Il movimento per il clima in Israele non è un partner in queste lotte. Forse è perché toccano le questioni più centrali e delicate relative alla vita ebraica in Israele-Palestina. Forse perché c’è una discrepanza tra il DNA stesso del movimento ambientalista in Israele – percepito da molti come una delle manifestazioni più salienti del sionismo – e quello delle varie lotte per la giustizia in questo Paese.

Ma è solo con un senso di destino condiviso, identificazione e solidarietà con tutte le vittime del regime in Israele-Palestina che saremo in grado di creare le partnership e la massa critica necessarie per fermare la crisi climatica e i suoi effetti nella nostra regione, il tutto promuovendo l’indipendenza e la giustizia per tutti tra il fiume e il mare.

 

Mor Gilboa è un attivista ambientale e per i diritti umani. Attualmente guida il movimento”One Climate” per promuovere la giustizia climatica tra il fiume e il mare. È l’ex direttore esecutivo dell’organizzazione ambientalista israeliana “Green Course”.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

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