A “Red” Knesset – Un Parlamento “Rosso”

In ogni fazione della Knesset, ad eccezione dei partiti ultraortodossi e arabi, vi sono rappresentanti che in passato sono stati in armi e che sono stati  coinvolti nell’uccisione di civili: Palestinesi, Libanesi, Egiziani.

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Amira Hass – 5 aprile 2021

Foto di copertina: La Knesset. Credit: Adina Valman / Knesset

Con grande frenesia ed entusiasmo i corrispondenti del canale israeliano Kan 11 hanno informato sui candidati al parlamento palestinese che in passato sono stati in armi, sono stati coinvolti nell’uccisione di israeliani ed erano, o sono ancora, incarcerati nelle prigioni israeliane. In breve, quelli che chiamiamo “terroristi”. Hanno anche riferito della moglie di un certo residente di Hebron che ha ucciso ed è stato ucciso, e che è la candidata numero 2 nella Lista ufficiale di Fatah (fedele al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas).

Gli israeliani che non sanno la verità, che si rifiutano di ammetterla o non la conoscono nemmeno, sono la maggioranza. Solo negli ultimi due anni, ad esempio, il campo “Chiunque Tranne Netanyahu” ha riposto le sue speranze su tre parlamentari ex Capi di Stato Maggiore dell’esercito israeliano: Benny Gantz, Moshe Ya’alon e Gabi Ashkenazi. È impossibile calcolare il numero preciso di cittadini palestinesi e libanesi (comprese donne, bambini e anziani disarmati) che sono stati uccisi dai soldati che prestavano servizio sotto l’alto comando di questi tre uomini. Sono molti, molte migliaia. È anche impossibile sapere quanti furono uccisi direttamente dai tre Capi di Stato Maggiore, con le proprie mani, mentre  scalavano i ranghi militari. E non dimentichiamo i due Primi Ministri il cui curriculum includeva “Capo di Stato Maggiore”: Yitzhak Rabin ed Ehud Barak.

Benny Gantz, a sinistra, Gabi Ashkenazi e Moshe Ya’Alon.Credito: Daniel Bar-On

In ogni fazione della Knesset, ad eccezione dei partiti ultraortodossi e arabi, e che Hashem e Allah li benedica per questo “difetto”, ci sono rappresentanti che sono stati in armi in passato e che sono stati coinvolti nell’uccisione di civili: Palestinesi, Libanesi, Egiziani.

Quante sono le parlamentari donne che sono “mogli di” o “sorelle di” piloti dell’Aviazione o ufficiali ordinari del Corpo d’Artiglieria, che sono stati direttamente o indirettamente coinvolti nell’uccisione di arabi? Quanti legislatori, uomini e donne, presenti ed ex, hanno figli che hanno ucciso e ferito arabi mentre i loro genitori prestavano servizio alla Knesset? Come possiamo anche solo iniziare ad analizzare questa enorme statistica? Fin dal suo inizio il Parlamento israeliano è stato gremito di rappresentanti sionisti con le mani sporche di sangue, principalmente sangue palestinese.

Quando invece si tratta di palestinesi che si macchiano del crimine di “resistenza”, sapremo sempre ogni dettaglio dell’israeliano che hanno ucciso o ferito. E conosceremo anche tutti i dettagli su quei palestinesi. Il Servizio di Sicurezza dello Shin Bet e la polizia non solo fanno ogni sforzo per arrestare e torturare queste persone, ma sono anche felici di segnalare i loro sospetti su di loro (che sono praticamente condanne pre-processuali), seguiti dalle incriminazioni e dalle sentenze del tribunale. Giornalisti diligenti e istituti di ricerca si prodigano anch’essi per documentare e informare su tutto ciò che è stato detto di quei palestinesi armati, anche decenni dopo il processo.

D’altra parte, quando i soldati israeliani uccidono o feriscono un palestinese, e questo accade da sempre e costantemente, molto più del contrario, sono al sicuro e protetti dal gradito anonimato garantito dal servizio nelle Forze di Difesa Israeliane. Infatti, questo è il caso, con l’eccezione di casi davvero rari, in cui il soldato o ufficiale di polizia israeliano è soggetto a un rimprovero, una punizione disciplinare o una pena detentiva molto breve, condonata di un terzo per buona condotta.

Invece di documentare il numero di ex prigionieri o militanti tra i candidati alle elezioni del mese prossimo per il Consiglio Legislativo Palestinese, è opportuno che i media israeliani, da un punto di vista professionale, accertino anche i seguenti dettagli su ogni candidato, uomo e donna:

Da quale villaggio o città fu espulsa la sua famiglia nel 1948; quanti dunam di terra ha rubato Israele dai villaggi e dalle città della Cisgiordania per costruire un insediamento o un’autostrada solo per gli israeliani; chi ha perso genitori, figli e fratelli nei bombardamenti militari israeliani e li ha visti uccidere davanti ai propri occhi; chi è stato espulso dal paese;che hanno subito incursioni militari nelle loro case, nel cuore della notte, e da bambini hanno ricevuto schiaffi o calci da un soldato; che è stato torturato dallo Shin Bet; la cui casa è stata demolita nell’ambito di una punizione collettiva, prima o senza un processo; che è stato soffocato dai gas lacrimogeni da bambino alle elementari; che è stato imprigionato in detenzione amministrativa, senza processo; e che ha perso e perde ancora diverse ore alla settimana della sua esistenza ai posti di blocco militari, mentre i soldati israeliani gli puntano contro i fucili.

La maggior parte degli israeliani, tra cui molti giornalisti, sono ciechi a tali dettagli e all’ingiustizia che invocano, non solo perché li commettono e ne sono responsabili, ma perché associano automaticamente la “legittimità” e la “giustizia” con il governo, le forze di polizia e l’esercito. A loro avviso, “Un atto giusto è un atto che esprime la volontà del forte”, come spiega il compianto Ovadia Ezra, in una raccolta postuma di saggi in ebraico, intitolata “Vivere con dignità.”

Professore presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Tel Aviv, Ezra è stato nel 1982 tra i fondatori di Yesh Gvul (Non Superare il Confine), un’organizzazione che sostiene soldati e riservisti che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati, e lui stesso un refuzniks (obiettore), che è stato incarcerato in una prigione militare più volte per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito. Come spiega in un saggio, datato 1997: “Questa percezione (di un atto giusto come espressione della volontà del forte) può essere associata al punto di vista di Thomas Hobbes, secondo cui giustizia significa eseguire la volontà del sovrano, e quindi, per definizione, il sovrano stesso non può essere accusato dell’ingiustizia. Più passa il tempo, e più aumenta la misura della sofferenza e del tormento, maggiore è l’adesione della parte forte a quel concetto di giustizia, e maggiore è l’odio e l’aspirazione a rovesciare la gerarchia belligerante. Oltre a questo, c’è anche un aumento della paura, che a volte si spinge fino alla paranoia, che l’altra parte possa diventare più forte e la giustizia oltrepasserà i confini per raggiungerla”.

 

Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.

 

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org