Femoimperialismo: i diritti delle donne come giustificazione di guerra

Questo articolo nasce dall’esigenza di analizzare cosa sta succedendo e cosa è successo in Afghanistan, cosa è stato fatto e cosa no, ma soprattutto come nel XXI secolo sia possibile giustificare una guerra, una violazione sistematica dei diritti umani, anche in nome dei diritti delle donne in un dibattito del tutto strumentalizzato.

di Lorenzo Poli –Invictapalestina –  30 agosto 2021

Uno dei tanti strumenti di guerra per legittimare un conflitto colpendo la sensibilità dei propri cittadini. In questo, l’Impero USA è riuscito benissimo, trovando fondamenta nella storia coloniale dell’Occidente che, inorridito da certe pratiche e certi costumi di alcune popolazioni definite “tribali”, ha pensato bene di esportare la sua forma mentis e il suo modo di concepire il mondo.

Infatti il termine “femminismo imperiale” nasce durante l’espansione degli imperi coloniali europei tra il XIII e XIX secolo, quando gli europei iniziarono a governare su vaste popolazioni di persone non bianche e non occidentali con la giustificazione della “missione civilizzatrice” verso le donne di queste nazioni, in cui vigeva un forte maschilismo. Secondo la vulgata occidentale, il dominio coloniale avrebbe giovato a queste donne liberandole dalle “catene maschili”.

Il “femoimperialismo”, parafrasando il termine “femonazionalismo” coniato da Sara Ferris, si riferisce a casi in cui, per giustificare la costruzione di un impero, si usa una retorica che strumentalizza i discorsi e le lotte femministe in tono salvifico verso le donne che, secondo la narrazione, andrebbero “salvate” , da un nemico del tutto decontestualizzato.

La studiosa, attivista e femminista Zillah Eisenstein, professoressa emerita presso il Dipartimento di Politica dell’Ithaca College, nel 2016 scrisse un articolo significativo in critica al “femminismo imperialista” affermando che “Il femminismo imperiale privilegia la disuguaglianza attraverso la flessione di genere che si maschera da uguaglianza di genere. Il femminismo imperiale privilegia la costruzione dell’impero attraverso la guerra” ( https://www.thecairoreview.com/essays/hillary-clintons-imperial-feminism/ ).

La professoressa Deepa Kumar, attivista indio-americana e docente di giornalismo e studi sui media alla Rutgers University, sostiene che il “femminismo imperialista” sia una retorica basata sull’appropriazione dei diritti delle donne per giustificare l’impero e che non possa avvantaggiare né le donne in Oriente, né le donne dei Paesi imperialisti. Con il fine di decostruire il “femminismo imperialista”, la sua analisi parte dagli inizi della propaganda imperialista che iniziò con le rappresentazioni culturali del genere e della sessualità in prodotti culturali come i dipinti orientalisti, i primi film di Hollywood e gli spettacoli televisivi contemporanei.

Il femoimperialismo nasce esclusivamente dal femminismo bianco occidentale e dal suo atteggiamento nei confronti dei Paesi non-bianchi e non-occidentali, perpetuando stereotipi umilianti sullo status delle donne nei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”.

Le sue retoriche hanno creato un’immagine di donne non-bianche in una posizione socioeconomica inferiore nei paesi in cui vivono rispetto alla realtà, inferiorizzandole più del dovuto, portando avanti anche atteggiamenti razzisti nei confronti di gruppi etnici minoritari emarginati che non fanno parte del femminismo mainstream, o “femminismo di Stato”, come l’ha chiamato Giulia Siviero. Proprio per questo, i femminismi postcoloniali si sono sviluppati in aperta contrapposizione alla visione occidentale. Come disse Bell Hocks “le donne bianche sono state complici di questo patriarcato imperialista, suprematista bianco e capitalista”, sottintendendo che le donne di colore stavano dando inizio all’ennesimo processo di liberazione: quello dai falsi immaginari che generano stereotipi e discriminazione.

Ma la cosa più interessante è che queste dinamiche siano state utilizzate anche come giustificazione di guerra dalla NATO in un’ottica di politica estera delle nazioni occidentali con lo scopo di sostenere politiche imperialistiche, promuovendo al contempo una “retorica inclusiva e progressista”. Sarà banale ribadirlo, ma un esempio è la guerra in Afghanistan.

Dopo gli attacchi dell’11 settembre alla Torri Gemelle, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno lanciato la “guerra al terrorismo” con un’invasione dell’Afghanistan che non aveva nessuna giustificazione valida in quanto non c’era nessun cittadino afghano coinvolto nell’attentato di New York. Inoltre non reggeva la tesi secondo la quale i Talebani stavano dando aiuto a Bin Laden, in quanto quest’ultimo era fuggito in Pakistan.

Le solite bugie di guerra, che però hanno dato adito ad altre giustificazioni come “la liberazione delle donne afghane dal burqa”. Una retorica ridicola, vuota ed ipocrita se pensiamo che la situazione delle donne afghane era peggiorata da quando i talebani, finanziati dagli USA, stavano prendendo potere territoriale in tutta la zona. Eppure fu un ottimo motivo per lanciare un’invasione, che poi SI tramutò in occupazione militare, orchestrando una campagna mediatica volta alla sensibilizzazione degli animi degli utenti occidentali.

L’allora first lady repubblicana Laura Bush, in diversi discorsi radiofonici, sostenne che l’invasione americana avrebbe aiutato le donne afghane a liberarsi dall’oppressione dei talebani, affermando:

“Le persone civili di tutto il mondo parlano con orrore, non solo perché i nostri cuori si spezzano per le donne e i bambini in Afghanistan, ma anche perché in Afghanistan vediamo il mondo che i terroristi vorrebbero  imporci.”

Durante il periodo in cui suo marito fu in carica, Laura Bush fu la femoimperialista per eccellenza, portando nel 2007 Elizabeth Gettelman Galicia, allora caporedattrice e direttrice delle relazioni pubbliche del sito Mother Jones, e la fotoreporter canadese Lana Šlezic ,a fare un servizio fotografico sulle donne afghane documentando una situazione peggiore rispetto a dieci anni prima:

“La difficile situazione delle donne sotto il regime talebano ha fornito agli Stati Uniti una giustificazione morale ordinata per la loro invasione dell’Afghanistan, un argomento di discussione che Laura Bush ha preso l’iniziativa nel portarlo a casa. “La lotta al terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne”, ha detto Bush dopo l’invasione del 2001, aggiungendo che grazie all’America, le donne “non sono più imprigionate nelle loro case”. Sei anni dopo, il burka è più comune di prima, una “straordinaria maggioranza” di donne afgane subisce violenze domestiche, secondo il gruppo di aiuto Womankind, e i delitti d’onore sono in aumento. L’assistenza sanitaria è così logora che ogni 28 minuti una madre muore di parto, il secondo tasso di mortalità materna più alto al mondo. Le ragazze frequentano la scuola con la metà dei ragazzi e nel 2006 almeno 40 insegnanti sono stati uccisi dai talebani. Per due anni, la fotoreporter canadese Lana Šlezic ha attraversato l’Afghanistan, da Mazar-e-Sharif a nord a Kandahar a sud, per documentare queste realtà in gran parte nascoste.”

Eppure pochi mesi dopo l’invasione, il 17 novembre 2001, Laura Bush celebra l’apparente progresso degli Stati Uniti verso l’emancipazione delle donne dell’Afghanistan:

“A causa dei nostri recenti successi militari, in gran parte dell’Afghanistan le donne non sono più imprigionate nelle loro case. Possono ascoltare musica e insegnare alle loro figlie senza paura di essere punite. Tuttavia, i terroristi che hanno contribuito a governare quel paese ora tramano e pianificano in molti paesi e devono essere fermati. La lotta al terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne”.

Questi argomenti sono stati criticati da molti intellettuali, tra cui anche lo scrittore americano Akbar Shahid Ahmed, il quale il 18 marzo 2016 pubblicò su Huffington Post un articolo in inglese dal titolo “Dear Laura Bush, This Is Not The Way To Help Oppressed Women” (“Cara Laura Bush, questo non è il modo per aiutare le donne oppresse”):

“Penso che dobbiamo mantenere le truppe lì”, ha detto all’evento di martedì a Washington. “Dobbiamo assicurarci che l’Afghanistan abbia la sicurezza per essere in grado di costruire stabilità. … Ovviamente, la cosa più importante è la sicurezza e le nostre truppe possono aiutare in questo”.

Questa non è una nuova retorica per Bush. Alla fine del 2001,  divenne notoriamente la prima donna in assoluto a prendere in consegna il discorso radiofonico settimanale del presidente due mesi dopo che gli Stati Uniti avevano iniziato a lavorare per rovesciare il regime dei talebani. Bush  sosteneva che l’invasione degli Stati Uniti avrebbe avuto chiari benefici per le donne oppresse in Afghanistan, delle cui difficoltà disse che lei e la maggior parte degli americani erano venute a conoscenza solo attraverso la copertura mediatica dopo l’11 settembre.”

Laura Bush visita il dormitorio femminile dell’Università di Kabul il 30 marzo 2005. (Susan Sterner / Casa Bianca)

Delle domande sorgono inevitabilmente: gli sforzi per aiutare le donne afghane ad assicurarsi lo status di cittadine a pieno titolo dovevano per forza essere legate al militarismo statunitense? Schierarsi per l’empowerment femminile è servito come espediente per rafforzare il controllo americano nell’area?

Come diceva Ahmad Shah Massud, se volete aiutare le donne afghane non venite a parlare del burqa, ma date alle donne lavoro e istruzione che le cose, pian piano, cambieranno. Questo fino ad ora non è stato fatto, anzi l’occupazione militare USA e NATO ha contribuito a peggiorare la situazione.

Negli anni Settanta a Kabul, la capitale afghana, era donna il 40% dei medici, il 70% degli insegnanti e il 15% dei deputati. Nel 1940 l’Afghanistan era una terra culturalmente vivace e piena di opportunità con edifici moderni, tecnologia e istruzione che arricchivano un paesaggio arido nel quale le donne indossavano gonne, guidavano, ascoltavano musica liberamente e frequentavano l’università insieme ai maschi. Il governo socialista di Nur Mohammad Taraki (1978-1979) approvò il diritto di voto alle donne, abolì i matrimoni combinati e introdusse servizi sociali universali. Il 30 settembre 1987 Mohammad Najibullah fu eletto Presidente della Repubblica ed emanò una nuova Costituzione prevedendo multipartitismo, libertà d’espressione e una magistratura indipendente. Le donne in Afghanistan erano libere quando l’Afghanistan era ancora una Repubblica Democratica, ma quando nel 1992 divenne Repubblica Islamica, con l’instaurarsi del regime talebano (sfuggito di mano agli USA) fu la fine. Oggi dei suoi circa 30 milioni di abitanti solo il 5% delle donne sa leggere e scrivere e, con l’attuale Emirato Islamico dell’Afghanistan sicuramente la situazione non sarà delle migliori.

Eppure la liberazione delle donne afghane, propagandata dall’Alleanza Atlantica, non si è vista perché non solo non hanno mai voluto “esportare la democrazia”, ma non hanno mai avuto intenzione di crearla, una democrazia.

Oggi, nonostante il presunto abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe USA, la propaganda femoimperialista continua nelle versioni più viscide. È stato facile in queste settimane sentire commenti come “erano andati in Afghanistan per togliere il burqa alle donne, ma ora scappano lasciando donne, bambini e vecchi in mano ai talebani”: una nauseante retorica paternalista volta a rilegittimare quella imperialista di stampo militare, quasi non riuscendosi a spiegare perché gli americani abbiano scelto di andarsene proprio in un momento così critico, come se dopo aver distrutto un Paese siano gli unici a poterlo “aiutare”. I soldati americani, secondo questa vulgata, sarebbero ancora una volta salvatori di donne e bambini.

Nicole Gee (Agenpress)

La soldatessa Nicolee Gee con il bambino in braccio dà un’immagine compassionevole, di donna forte, ma che dentro di sé cova lo spirito materno legato alla cura e alla protezione, riecheggiando emozioni forti come a ricordarci che nonostante la serietà militare della divisa si continua a mantenere un profilo umano.

In memoria di lei, uccisa nel recente attentato, il 29 agosto 2021 Il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo dal titolo “Nicole Gee, morta nell’attentato a Kabul la marine della foto simbolo in cui cullava un bambino” in cui si leggono queste parole:

“Un bambino in pigiama e bavaglino in braccio, lei così giovane da sembrare più che la mamma la sorella, nonostante la divisa. Nicole Gee aveva postato la foto sul suo profilo Instagram con sotto la scritta «Amo il mio lavoro». Ma di quel momento c’erano altri scatti, uno, quello che vedete accanto, l’aveva pubblicato il 20 agosto l’account Twitter del dipartimento della Difesa, e ha fatto il giro del mondo.”

Parole di propaganda in cui una soldatessa americana, oltre a salvare le donne, salva anche i bambini afghani, facendosi una foto ricordo: una nuova moda, dal momento che anche altri militari USA si sono scattati foto con neonati per darsi un volto “umanitario”.

Nella foto si vede il Marine Isaiah Campbell con il bambino afgano che, secondo il mainstream, sarebbe stato consegnato dai genitori agli americani all’aeroporto di Kabul “per assicurargli un futuro migliore”. Ancora una volta la propaganda di guerra continua.

Per non parlare del video che sta girando sul web dal 18 agosto 2021, in cui un gruppo di ragazze afghane implora aiuto, con pianti terribili, dietro ai tornelli dell’aeroporto di Kabul, ad alcuni soldati americani, urlando «Aiutateci, i talebani stanno arrivando a casa»

https://www.la7.it/intanto/video/le-urla-disperate-delle-ragazze-afghane-ai-soldati-usa-aiutateci-i-talebani-stanno-arrivando-a-casa-18-08-2021-393702 .

Il messaggio che si vuole dare è che ci sono migliaia di donne che da giorni cercano di fuggire dal “nuovo dominio”. Ma forse l’immagine più strumentalizzata in questi giorni è stata quella della donna che su un pezzo di cartone, con un pennarello blu, ha scritto “Tuscania”, riferendosi al luogo in cui sarebbe voluta andare scegliendo la salvezza piuttosto che il muro di filo spinato.

Una vera e propria mercificazione del dolore che, usando quell’immagine, vuole convincere il mondo che veramente quella donna per salvarsi ha avuto bisogno dell’intervento anche armato dell’Occidente “inclusivo, progressista e difensore delle donne”. Nessuno che dica che i profughi afghani (donne, uomini e bambini) ci sono sempre stati in questi vent’anni e che ora è solo il culmine di una crisi umanitaria iniziata nel 2001.

Eppure delle questioni rimangono aperte. Proprio l’esercito che vorrebbe salvare le donne dai talebani, è lo stesso che, secondo The Times, avrebbe lasciato circa 85 miliardi di dollari di equipaggiamento militare statunitense in mano ai talebani: 75.000 veicoli, 200 aerei ed elicotteri e circa 600.000 armi leggere. Se gli americani hanno lasciato tutto questo arsenale ai talebani non è stato per la fretta di andarsene, né tantomeno per “aiutare”. Potrebbe far parte degli Accordi di Doha tra talebani e forze USA?

Ad oggi, il femoimperialismo come giustificazione di guerra in nome dei “diritti delle donne” sembra essere vincente sul fronte della propaganda, ma non credibile nella realtà. Due giorni fa il Daily Mail ha riportato che solo l’anno scorso ci sono stati 26.000 stupri contro soldatesse USA nell’esercito statunitense: questo sarebbe l’esercito “femminista” che deve liberare le donne in tutto il mondo?

Fonti:

Lezione della professoressa Deepa Kumar sul “femminismo imperialista” e la guerra al terrore: https://www.youtube.com/watch?v=0_WG5C5OIbI

Fotoreportage di Elizabeth Gettelman Galicia e Lana Šlezic: https://www.motherjones.com/politics/2007/07/hidden-half-women-afghanistan-lana-slezic/

Discorso via Radio di Laura Bush, 2001: https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/releases/2001/11/20011117.html