Sì, gli evasi dalle carceri palestinesi sono combattenti per la libertà

I sei ribelli hanno scelto la via della resistenza all’occupazione violenta e crudele. Si può discutere della sua efficacia contro uno stato israeliano forte e ben armato, ma la sua giustizia non può essere messa in discussione.

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Gideon Levy – 9 settembre 2021

Immagine di copertina: un uomo cammina davanti a uno striscione raffigurante i sei evasi dal carcere palestinese, a Betlemme, in Cisgiordania. AHMAD GHARABLI – AFP

I sei prigionieri palestinesi fuggiti sono i combattenti per la libertà più audaci che si possano immaginare. Gli israeliani che trovano difficile ammetterlo farebbero bene a ricordare molti dei film e delle serie televisive che hanno guardato: la fuga dalla prigione è il perfetto “lieto fine”.

L’evasione dalla prigione di Acre del 1947 – in cui membri dell’Irgun, la milizia clandestina pre-stato guidata da Menachem Begin, irruppero per liberare i membri della milizia detenuti dal governo del mandato britannico – è rimasta impressa per sempre nella memoria collettiva come parte dell’ethos dell’eroismo. Ma ciò che è buono per i film e per gli ebrei non è mai applicabile ai palestinesi. I sei fuggitivi sono solo terroristi, e il sentimento nazionale vuole vederli morti. Nel frattempo, i social ronzano di battute spiritose sulla fuga, forse per evitare di affrontarne il significato o per fuggire dall’imbarazzo.

I sei ribelli hanno scelto la via della resistenza all’occupazione violenta e crudele. Si può discutere della sua efficacia contro uno stato israeliano forte e ben armato, ma la sua giustizia non può essere messa in discussione. Hanno il diritto di usare la violenza per resistere a un’occupazione più crudele e violenta di qualsiasi terrorismo palestinese.

Dopo essere stati catturati, hanno ricevuto condanne draconiane e prive di ogni proporzione, in particolare rispetto alle norme di condanna applicate in Israele ad altri detenuti. Anche le loro condizioni carcerarie sono una vergogna, non superando alcun test di umanità e di diritti umani, compreso il confronto con le condizioni in cui sono tenuti i peggiori criminali prigionieri. Ignorate la propaganda vile e fallace sulle loro condizioni, con la foto della baklava in prigione: nessun detenuto in una prigione israeliana vive in tali condizioni. Decenni senza una licenza o una telefonata legale con la famiglia, a volte anche senza visite da parte dei familiari, vivendo in condizioni così affollate che persino l’Alta Corte di Giustizia ha ritenuto necessario intervenire.

La maggior parte dei sei evasi ha già scontato circa 20 anni di carcere, senza possibilità di futuro: ognuno di loro ha ricevuto qualche ergastolo, più 20-30 anni. Perché non dovrebbero provare a scappare? Perché non dovrebbe esserci un minimo di comprensione per il loro atto e persino una segreta speranza che dopo essere fuggiti scompaiano e inizino una nuova vita, come nei film?

Conosco molto bene Zakaria Zubeidi; potrei anche definirmi suo amico. Come una manciata di altri giornalisti israeliani, l’ho incontrato spesso nel corso degli anni, in particolare quando era ricercato. Fino a circa tre anni fa gli mandavo ancora articoli di opinione dall’archivio Haaretz per la sua tesi di laurea. Tuttavia, per me è rimasto un po’ un enigma, e l’intreccio che ha portato al suo nuovo arresto circa due anni fa è ancora un mistero; Zakaria non è un ragazzo, è un padre, quindi perché?

Ma la sua storia è una classica storia di una vittima e di un eroe. “Non ho mai vissuto come un essere umano”, mi ha detto una volta. Da ragazzo portava già sacchi di sabbia in un cantiere in Abbas Street ad Haifa, mentre gli ebrei della sua età erano a casa con i genitori. Suo padre morì quando lui era giovane; era un adolescente quando sua madre fu uccisa dalle forze dell’IDF mentre era affacciata alla finestra della sua casa, e poche settimane dopo anche suo fratello fu ucciso e la sua casa demolita dall’esercito. Di tutti i suoi amici nel campo profughi di Jenin che sono stati immortalati nel meraviglioso documentario del 2004 “I bambini di Arna”, solo lui è ancora vivo. Nel 2004 mi disse: “Sono morto. So di essere morto”, ma la fortuna, o qualcos’altro, era dalla sua parte.

Come Marwan Barghouti e altri eroi palestinesi, voleva la pace con Israele, ma in condizioni di giustizia e onore per il suo popolo, e anche lui sentiva che l’unica opzione che gli restava era quella della resistenza violenta. Non l’ho mai visto senza una pistola.

Penso a Zakaria ora e spero che scappi verso la libertà, così come spero che un giorno Barghouti sarà liberato. Queste persone meritano di essere punite per le loro azioni, ma meritano anche comprensione e apprezzamento per il loro coraggio e soprattutto per la loro rettitudine. Israele ha deciso di tenerli in prigione per sempre, e loro stanno cercando, ognuno a modo suo, di annullare l’ingiusto, malvagio decreto. Sono esattamente quelli che definirei combattenti per la libertà. Combattenti per la libertà della Palestina. Come potrebbero essere chiamati diversamente?

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org