I Palestinesi hanno ancora carte politiche da giocare nonostante il rifiuto di Israele a impegnarsi

Ora che gli israeliani si stanno preparando per la quinta elezione in meno di quattro anni, è importante porsi la domanda: in che modo la Palestina e i palestinesi incidono nella politica israeliana?

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Di Ramzy Baroud – 1 agosto 2022Immagine di copertina: Naftali Bennett e Benjamin Netanyahu durante un incontro del blocco di destra israeliano, Knesset, Gerusalemme, 4 marzo 2020. (AFP)

Fino a poco tempo, la politica israeliana non aveva importanza per i palestinesi. Sebbene il popolo palestinese abbia mantenuto la sua azione politica nelle condizioni più demoralizzanti, la sua azione collettiva ha raramente influenzato i risultati in Israele, in parte a causa dell’enorme disparità di potere tra le due parti.

Ora che gli israeliani si stanno preparando per la quinta elezione in meno di quattro anni, è importante porsi la domanda: in che modo la Palestina e i palestinesi incidono nella politica israeliana?

Politici e media israeliani, anche quelli che denunciano il fallimento del “processo di pace”, concordano sul fatto che la pace con i palestinesi non è più un fattore essenziale e che la politica israeliana ruota quasi interamente attorno alle proprie priorità socioeconomiche, politiche e strategiche. Tuttavia, questo non è del tutto vero.

Sebbene sia appropriato sostenere che nessuno dei principali politici israeliani è impegnato in un dialogo sui diritti dei palestinesi, su una giusta pace o coesistenza, la Palestina rimane un fattore importante nella campagna elettorale della maggior parte dei partiti politici. Ma invece di sostenere la pace, questi schieramenti sostengono idee sinistre, che vanno dall’espansione degli insediamenti illegali alla distruzione della Moschea di Al-Aqsa. Il primo è rappresentato dagli ex primi ministri Benjamin Netanyahu e Naftali Bennett e il secondo in personaggi più estremisti come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

La Palestina ha sempre considerato la politica israeliana indegna. Anche prima della creazione dello Stato di Israele sulle rovine della Palestina storica nel 1948, il movimento sionista capì che il loro Stato poteva esistere e mantenere la sua maggioranza solo con la forza, e solo quando la Palestina e il popolo palestinese avrebbero cessato di esistere.

“Il sionismo è una crociata colonizzatrice e, pertanto, si sorregge o cade sulla questione delle forze armate”, scrisse l’ideologo sionista Ze’ev Jabotinsky quasi 100 anni fa. Questa filosofia della violenza continua a permeare il pensiero sionista ancora oggi. “Non si può fare una frittata senza rompere le uova. Ci si deve sporcare le mani”, ha detto lo storico israeliano Benny Morris in un’intervista del 2004, in riferimento alla Nakba e alla successiva espropriazione del popolo palestinese.

Fino alla guerra del 1967, gli Stati palestinesi e arabi erano importanti, in una certa misura, per Israele. La resistenza palestinese e araba ha rafforzato l’azione politica palestinese per decenni. Tuttavia, l’esito devastante della guerra, che ancora una volta ha dimostrato la centralità della violenza nell’esistenza di Israele, ha relegato i palestinesi e quasi del tutto escluso gli arabi.

Da allora, i palestinesi hanno avuto importanza solo per Israele basandosi quasi esclusivamente sulle priorità israeliane. Ad esempio, i leader israeliani hanno mostrato i muscoli davanti ai loro collegi elettorali trionfanti attaccando i campi di addestramento palestinesi in Giordania, Libano e altrove. I palestinesi sono stati anche considerati la nuova forza lavoro a basso costo di Israele. In qualche modo, ironicamente ma anche tragicamente, sono stati i palestinesi a costruire Israele dopo l’umiliante sconfitta della Naksa.

Le prime fasi del processo di pace, specialmente durante i colloqui di Madrid nel 1991, davano la falsa impressione che l’azione palestinese si stesse finalmente traducendo in risultati concreti. Ma questa speranza è rapidamente svanita quando gli insediamenti illegali hanno continuato ad espandersi mentre i palestinesi hanno continuato a perdere la loro terra e le loro vite a un ritmo senza precedenti.

L’ultimo esempio del completo disprezzo di Israele per i palestinesi è stato il cosiddetto piano di disimpegno portato avanti a Gaza dal defunto Primo Ministro israeliano Ariel Sharon nel 2005. Il governo israeliano credeva che i palestinesi fossero irrilevanti al punto che la dirigenza palestinese è stata esclusa da ogni fase dello schema. I circa 8.500 coloni ebrei illegali di Gaza sono stati semplicemente reinsediati in altre terre palestinesi occupate illegalmente e l’esercito israeliano si è semplicemente ridistribuito dalle aree densamente popolate di Gaza per imporre un blocco ermetico alla Striscia impoverita.

L’apparato d’assedio di Gaza rimane tutt’oggi in vigore. Lo stesso vale per ogni azione israeliana nei Territori Occupati.

A causa della loro comprensione del sionismo e dell’esperienza con il comportamento israeliano, generazione dopo generazione di palestinesi credevano giustamente che l’esito della politica israeliana non avrebbe mai potuto essere favorevole ai diritti e alle aspirazioni politiche dei palestinesi. Gli ultimi anni, tuttavia, hanno cominciato a modificare questa convinzione. Sebbene la politica israeliana non sia cambiata, anzi, si è spostata ulteriormente a destra, i palestinesi, consapevolmente o meno, ne sono diventati attori diretti.

La politica israeliana è stata storicamente fondata sulla necessità di un ulteriore colonialismo, sul rafforzamento dell’identità ebraica dello Stato a spese dei palestinesi e su una costante ricerca della guerra. Eventi recenti suggeriscono che questi fattori non sono più controllati solo da Israele.

La resistenza popolare a Gerusalemme Est e il crescente rapporto tra questa e varie altre forme di resistenza in tutta la Palestina stanno ribaltando il precedente successo di Israele nel frammentare le comunità palestinesi, dividendo così la lotta palestinese tra diverse fazioni, regioni e priorità. Il fatto che Israele sia costretto a considerare seriamente la risposta di Gaza alla sua provocazione annuale a Gerusalemme, nota come la “Marcia della Bandiera”, lo illustra perfettamente.

Come dimostrato più volte, la crescente resistenza in tutta la Palestina sta anche negando ai politici israeliani la possibilità di competere per i voti e lo status politico all’interno di Israele. Ad esempio, la guerra disperata di Netanyahu nel maggio 2021 non ha salvato il suo governo, che è caduto poco dopo. Un anno dopo, Bennett sperava che la sua Marcia della Bandiera avrebbe provocato una risposta palestinese a Gaza che avrebbe fatto guadagnare più tempo alla sua instabile coalizione. La decisione strategica dei gruppi palestinesi di non rispondere alle provocazioni di Israele ha vanificato i piani di Bennett. Anche il suo governo è caduto poco dopo.

Tuttavia, una settimana dopo la disgregazione dell’ultima coalizione israeliana, i gruppi di Gaza hanno pubblicato un video di un soldato israeliano catturato che si presumeva morto, inviando un messaggio a Israele che la resistenza nella Striscia ha ancora più carte a sua disposizione. Il video ha attirato molta attenzione in Israele, costringendo il nuovo Primo Ministro Yair Lapid ad affermare che Israele ha “il sacro obbligo di riportare a casa” i suoi soldati fatti prigionieri.

Tutti questi nuovi elementi hanno un impatto diretto sulla politica, le politiche e sui calcoli israeliani, anche se gli israeliani continuano a negare l’evidente impatto dei palestinesi, la loro resistenza e strategie politiche.

Il motivo per cui Israele rifiuta di riconoscere l’azione politica palestinese è che, così facendo, Tel Aviv non avrebbe altra alternativa che coinvolgere i palestinesi come controparte in un processo politico che potrebbe garantire giustizia, uguaglianza e convivenza pacifica. Fino a quando questa giusta pace non sarà realizzata, i palestinesi continueranno a resistere. Prima Israele riconosce questa realtà inevitabile, meglio è.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Il Dr. Baroud è un ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione di Beniamino Rocchetto -Invictapalestina.org