Usa e Israele: la guerra semantica (Parte 3)

Il blocco occidentale controlla non solo il divulgatore (i canali d’informazione) ma anche il contenuto (il linguaggio) in modo che la libertà di informazione, uno dei fondamenti della democrazia, esista, ma solo per chi ne padroneggia i codici.

Fonte: version française

Di Renè Naba – 20 gennaio 2023

Stati Uniti e Unione Europea, cioè il blocco atlantista, controllano il 90% dell’informazione del pianeta e delle 300 principali agenzie di stampa, 144 hanno sede negli Stati Uniti, 80 in Europa e 49 in Giappone. I Paesi poveri, dove vive il 75% dell’umanità, detengono il 30% dei media mondiali.

Israele rappresenta il 3° Paese in ordine di importanza in termini di copertura mediatica, dietro a Stati Uniti (300 milioni di abitanti) e Cina (1,5 miliardi di abitanti). Nonostante le controverse condizioni della sua nascita, Israele è riuscito ad occupare il fronte della scena mediatica, attirando costantemente l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale, riuscendo nell’impresa di mettere sulla difensiva tutti i suoi oppositori.

Gli europei, ovviamente, ostaggio di un eterno complesso di colpa a causa del Genocidio hitleriano; Gli americani, sfruttando un importante gruppo di pressione filo-israeliano spinto da un desiderio di dominio egemonico sull’area petrolifera del Medio Oriente.

Il Mondo Arabo, infine, per la sua incapacità nel padroneggiare le tecniche di comunicazione della moderna guerra psicologica, unita alla mancanza di un linguaggio comprensibile all’opinione pubblica occidentale.

Tutti i maggiori canali transnazionali arabi sono appoggiati a basi militari atlantiste: Al Jazeera alla base CENTCOM di Doha, l’Arabia Saudita da lungo tempo appoggiata a Dubai, alla base aerea navale francese di Abu Dhabi, infine l’effimero Prince al Walid e il canale di Ben Talal, “Al-Arab”, presso la base navale americana di Manama (Bahrein).

I media “dissidenti” dell’ordine egemonico occidentale: Press Tv (Iran), Russia Today e Al-Mayadeen di Ghassane Ben Jeddo, ex Al Jazeera, hanno poco peso contro questi colossi.

A meno che non ci si inchini ai dettami occidentali, nessun oppositore, per quanto prestigioso possa essere, può essere udibile e ancora meno credibile.

Nella loro battaglia ideologica per la conquista dell’immaginario popolare, garanzia essenziale della durabilità di una nazione, gli Stati Uniti hanno sviluppato un’argomentazione basata su una doppia articolazione:

• Un argomento intellettuale, il principio del libero flusso di informazioni e risorse.

• Un argomento pratico, il fatto che gli Stati Uniti siano l’unica grande democrazia al mondo a non avere né un ministero della cultura né un ministero della comunicazione, prova inconfutabile, secondo loro, di un regime di libertà.

Presentato come l’antidoto assoluto all’autocrazia e al totalitarismo, il principio della libertà di informazione è stato uno dei grandi fondamenti della politica statunitense del dopoguerra, il suo principale tema di propaganda.

Certo non c’è né ministero della cultura né ministero della comunicazione nel governo statunitense, ma in questa battaglia ideologica, gli Stati Uniti hanno praticato, non l’attacco frontale ma l’infiltrazione, un espediente strategico di aggiramento.

Una diplomazia multilaterale che strumentalizza organizzazioni internazionali a vocazione universale o specifica, affiancata da una diplomazia parallela delle sue agenzie specializzate: la CIA e le fondazioni filantropiche per il riciclaggio di denaro.

Che si tratti dell’ONU, dell’UNESCO, del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite o dell’Organizzazione Interamericana, tutti avranno incluso nella loro carta “il principio della libertà di informazione”.

Tutti loro, più o meno, saranno serviti da piattaforme per la diffusione della dottrina americana della libera circolazione dell’informazione.

In due anni, la struttura della diplomazia multilaterale del dopoguerra fu bloccata da questo principio. Gli Stati Uniti sono riusciti a inserirlo nello statuto delle cinque maggiori organizzazioni internazionali: ONU, UNESCO, ECOSOC (Consiglio Economico e Sociale), Organizzazione Interamericana e Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

L’ONU contava all’epoca cinquantacinque membri, un quarto del numero attuale con una maggioranza filo-occidentale automatica composta da Paesi europei e latinoamericani sotto il dominio statunitense. Tutti i principali Stati del Terzo Mondo sono assenti. La Cina continentale viene boicottata a favore di Taiwan; India e Pakistan, le due nuove potenze nucleari dell’Asia, sono sotto il dominio britannico, così come la Nigeria e il Sud Africa, i due giganti dell’Africa, mentre il Maghreb e l’Africa occidentale si trovano sotto il controllo francese.

Connessione globale e predicatori dell’etere

Il sistema mediatico messo in atto per portare avanti la lotta al comunismo, a livello internazionale, e la lotta all’ateismo, a livello arabo-musulmano, ha risposto a un obiettivo che, in terminologia militare, è definito “fuoco di saturazione a tutto campo”, all’interno di una strategia denominata “Connessione Globale”, volta a riunire il pianeta in una rete globale di vettori multimediali con periodicità variabile.

Alle radio laiche dell’era della Guerra Fredda, Radio Free Europe (Radio Europa Libera), sostenuta intellettualmente e materialmente dalla potente Freedom House (Casa della Libertà), e Voice of America (Voce dell’America), si sono aggiunti i nuovi canali creati in occasione della Seconda Guerra contro l’Iraq nel 2005, Radio SAWA (Società degli Amministratori del Benessere degli Animali), il canale televisivo Alhurra, sovrapposto a una ventina di grandi aziende radiofoniche religiose, in particolare Trans World Radio, Adventist World Radio (Radio Avventista Internazionale – un consorzio internazionale di emittenti radiofoniche a vario titolo legate alla Chiesa cristiana avventista del settimo giorno), FEBA Radio (Fronte della Battaglia), IBRA Radio (Associazione Internazionale di Radiodiffusione).

Questi “predicatori dell’etere” hanno avuto accesso a mezzi finanziari e tecnici che non hanno eguali nei due terzi dei Paesi del pianeta, e sono tutti strumenti di sostegno alla diplomazia clandestina americana.

Il linguaggio come marcatore di identità culturale: controllo del divulgatore e del contenuto divulgato

Il blocco occidentale controlla non solo il divulgatore (i canali d’informazione) ma anche il contenuto (il linguaggio) in modo che la libertà di informazione, uno dei fondamenti della democrazia, esista, ma solo per chi ne padroneggia i codici. La battaglia in Siria ne ha fornito quotidianamente la prova.

L’individuo non è un divulgatore. Le parole hanno un significato e non costituiscono una serie di parole verbali. Le parole non sono né neutre né innocenti. Le parole a volte uccidono. Ciò è ancor più vero per gli Stati, specialmente in tempo di guerra.

Tanto guerra psicologica quanto guerra semantica, la guerra mediatica mira a sottoporre l’ascoltatore ricevente alla dialettica propria di chi trasmette, in questo caso il potere inculca, il proprio linguaggio e, oltre a ciò, la propria concezione del mondo.

In questo contesto, la lingua è un marcatore di identità culturale allo stesso modo in cui le impronte digitali, il codice genetico, le misure antropometriche sono marcatori biologici e fisici.

L’accento, l’uso dei termini, il tono, rivelano l’identità culturale dell’essere. Sotto un’apparenza ingannevole: termini generici, vuoti e impersonali, il linguaggio è codificato e pacificato. Diventa quindi un formidabile strumento di selezione e discriminazione.

Un piano industriale rimanda a una realtà immateriale contrariamente al doloroso termine di licenziamento di massa. Così come “esternalizzazione e subappalto” a operatori che operano al di fuori delle norme della legislazione sociale.

La “delocalizzazione” maschera un’operazione volta a ottimizzare le prestazioni sfruttando manodopera a basso costo e sovrasfruttata proveniente da Paesi poveri e spesso autocratici, senza alcuna protezione sociale.

La “Privatizzazione”, è un’operazione che spesso consiste nel trasferire ai capitalisti le società di servizi pubblici spesso salvate con fondi pubblici, cioè con il denaro dei contribuenti.

Anche a livello di discorso politico il linguaggio è sterilizzato al punto che l’ex Primo Ministro socialista francese Pierre Mauroy ha criticato il candidato socialista alle elezioni presidenziali del 2002, Lionel Jospin, per aver cancellato il termine “lavoratori” nel suo discorso.

Nel linguaggio convenuto preferiamo il termine moderato di “persone modeste” a quello più eloquente di “poveri” così come per la combinazione “esclusi e sfruttati”. Oppure “classi” (che suggerisce l’idea di lotta) e ceti sociali.

Il linguaggio è connotato. Seguendo l’esempio del Sillabo Pontificio del 19° secolo, che vietava l’uso di alcuni termini come laicità o separazione tra Stato e Chiesa, l’unico lingua lecita in epoca contemporanea è la LQR “Lingua Quietae Res Publicae”, la lingua in voga sotto la Quinta Repubblica Francese, approvata e autorizzata. Probabilmente per il ruolo di primo piano della Francia nelle “guerre di liberazione” nel Mondo arabo.

Diffidate da chi ricorre a un linguaggio personalizzato, forgiato in un proprio vocabolario. L’uomo rischia l’emarginazione, l’essere messo all’indice, etichettato con termini dispregiativi, inscrollabili come: “perdente” o “incapace”.

Il Linguaggio sostituisce alle parole di emancipazione e sovversione quelle di conformità e sottomissione. Si propugna la flessibilità al posto della precarietà, in un Paese che ha fatto del vitalizio un privilegio per tutta la vita, soprattutto all’interno dell’alta funzione pubblica. I potenti godono di un vitalizio, ma chiunque osi sollevare questa incongruenza è accusato di essere un “populista”.

Lo stesso vale a livello diplomatico: Questione Mediorientale o Questione d’Oriente? Per ogni questione la risposta è unica, la questione apre la strada agli esperti che devono fornire tecnicamente la soluzione. Ma la questione orientale è più sfumata. Una questione suggerisce molteplici risposte, e induce all’assenza di una soluzione immediata. A seconda che si usi un termine o l’altro, si verrà classificati come “competenti” o “incapaci”.

Un esempio, “Le Figaro” del 28 agosto 2004 titolava in prima pagina: “L’ammissione del Presidente Bush”, senza che il giornale precisi in che cosa consisteva questa confessione. Dieci anni fa, qualsiasi altro giornale compiacente avrebbe titolato: “Il Presidente Bush ammette il suo fallimento nelle sue previsioni sull’Iraq”.

Ma se per disgrazia un temerario giornalista avesse titolato la rigorosa verità: “Bush, il grande sconfitto della guerra in Iraq”, sarebbe stato subito accusato di “antiamericanismo spicciolo”.

La “neolingua” risulta dalla presenza sempre più manifesta di decisori, economisti e pubblicitari, nel circuito della comunicazione, assicurando un’agevole infusione del pensiero neoliberista.

Se la radiodiffusione è l’arma meno inquinante dal punto di vista ecologico, è invece la più corrosiva per la mente. Il suo effetto è a lungo termine. Il fenomeno dell’interferenza opera un lento condizionamento fino a sovvertire e plasmare il modo di vivere e l’immaginario creativo della comunità umana presa di mira. Nessuna traccia di danno immediato o collaterale. Non c’è bisogno di un attacco mirato o di un impatto frontale.

Nella guerra dell’etere regna il dominio dell’impercettibile, dell’insidioso, dell’ingannevole e del subliminale. Chi ricorda ancora “Tall Ar-Rabih” (La Collina di Primavera)? Quasi un secolo di trasmissioni successive e ripetitive ha dissipato questo nome melodioso, sinonimo di gioia di vivere, per sostituirlo nella memoria collettiva con una nuova realtà. “Tal AR-Rabih” è ora conosciuta in tutto il mondo, anche tra le nuove generazioni arabe, con la sua nuova designazione ebraica, Tel-Aviv, la grande metropoli israeliana. L’opera di indebolimento è permanente e la lotta impari. Lo stesso vale per le espressioni connotate.

4 – Genocidio e Olocausto

Lo sterminio di una popolazione a causa delle sue origini si chiama “Genocidio”.

Lo stesso vale per il Genocidio armeno in Turchia e per il Genocidio dei Tutsi in Ruanda. Preferirgli l’espressione ebraica del termine biblico “Shoah” (Olocausto) è segno della sua appartenenza al campo filoisraeliano.

Israele non ha mai riconosciuto la caratterizzazione di “Genocidio” nei massacri di armeni in Turchia all’inizio del 20° secolo, senza dubbio per sottolineare il carattere unico delle persecuzioni di cui furono vittime gli ebrei in Europa. Prima in Russia, i “Pogrom” della fine del 19° secolo, poi in Germania e in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945).

Lo stesso vale per i termini antisemitismo e antirazzismo. Arabi ed ebrei sono semiti, ma l’antisemitismo riguarda solo gli ebrei, per distinguersi dagli altri, mentre l’antirazzismo comprende arabi, neri, musulmani, asiatici e tutti gli altri.

Lo stesso Presidente Jacques Chirac, condannando “l’antisemitismo e il razzismo” nel suo discorso d’addio del 27 marzo 2006, ha consacrato subliminalmente il razzismo istituzionale.

Fino ad oggi i Paesi occidentali in generale, e gli Stati Uniti in particolare, hanno esercitato il monopolio della narrazione mediatica, un monopolio notevolmente favorevole alle manipolazioni della mente, che tuttavia è stato infranto clamorosamente due volte con conseguenze nefaste per la politica occidentale:

• La prima volta in Iran, nel 1978-1979, durante la “Rivoluzione delle Audiocassette” dal nome dei nastri registrati dei sermoni dell’Imam Ruhollah Khomeini al tempo del suo esilio in Francia e diffusi dalla Germania per sollevare la popolazione iraniana contro lo Scià dell’Iran.

• La seconda volta in occasione dell’Irangate nel 1986, lo scandalo della vendita di armi americane all’Iran per il finanziamento dell’eversione contro il Nicaragua, venuto alla luce in seguito a una fuga di notizie sul quotidiano di Beirut “As-Shirah”, mettendo seriamente a repentaglio l’amministrazione repubblicana del Presidente Ronald Reagan.

Analfabeti funzionali

A parte questi due casi, gli Stati Uniti hanno costantemente cercato di zittire i loro nemici, se necessario screditandoli con potenti intermediari locali o internazionali, mentre amplificavano la loro offensiva mediatica, seppellendo gli ascoltatori sotto una montagna di informazioni, praticando la disinformazione attraverso un disorientamento dovuto alla sovrainformazione per rendere gli ascoltatori-lettori dei perfetti “analfabeti funzionali”, per usare l’espressione del tedesco Hans Magnus Einsenberger.

Non degli analfabeti, o degli incolti, ma degli esseri etimologicamente in fase di “disorientamento”, psicologicamente condizionati e riorientati nella direzione desiderata.

Puro prodotto dell’era industriale, dell’egemonia culturale del Nord sul Sud, dell’imposizione culturale come presupposto per l’invasione e l’arricchimento dei mercati, “l’analfabeta funzionale” non si lamenta.

La perdita di memoria di cui è afflitto non lo fa soffrire. La sua mancanza di ostinazione gli rende le cose facili.

È in atto un’inversione radicale del modello economico, e la legge della domanda e dell’offerta ora opera in modo radicalmente diverso: l’induzione del desiderio di consumare ora determina l’attività di un’azienda. Non è più il consumatore che controlla il ritmo della produzione, ma il produttore che ora orchestra il desiderio di consumare. Il controllo dell’apparato produttivo ora sembra avere meno importanza del controllo della domanda dei consumatori. Il cittadino attivo lascia così il posto al consumatore passivo, il libero pensatore al teledipendente, il giornalista all’intrattenitore, l’editore al capitalista, portando improvvisamente il giornalismo a spostarsi verso il regno del “infotrattenimento” neologismo derivante dalla congiunzione delle parole informazione e intrattenimento.

La globalizzazione dei flussi informativi consente quindi l’infusione editoriale di un organo di stampa e di conseguenza la sedentarizzazione professionale dell’informazione, stadio ultimo dell’analfabetismo funzionale. Tuttavia, questo stupro del mondo attraverso la pubblicità e la propaganda attraverso la profusione di suoni e immagini, nel paesaggio urbano, sugli schermi, sulla  stampa, anche all’interno delle case, incontra una resistenza disomogenea ma decisa.

Così come il monopolio della conoscenza da parte della tecnocrazia è stato minato, a livello internazionale, dai contropoteri, in particolare da attori parastatali (Greenpeace, Amnesty International, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere, ATTAC), moltiplicando le fonti di informazione non controllata, allo stesso modo l’informatica ha sviluppato sul piano dell’informazione una sfera di autonomia concorrente con l’ordine mondiale americano. Ogni progresso tecnologico è stato accompagnato da un successo.

Alle audiocassette dell’epoca della rivoluzione khomeinista sono seguiti il ​​fax poi i siti internet infine i blog, il giornali digitali online, i tweet, il cui sviluppo ha subito un’accelerazione dalla guerra in Iraq e dall’ultima campagna presidenziale di George Bush figlio (2004), successi che risuonano come il segno di una rivincita dello spirito contestatore e della sfera della libertà individuale, in reazione al clamore propagandistico e alla concentrazione capitalistica dei media.

L’invasione dell’Iraq nel 2003 e il giornalismo embedded

La forma più completa dell’intreccio del giornalismo con il potere politico, “l’embedded” (integrato) è apparsa durante l’invasione americana dell’Iraq nel marzo 2003.

L’embedded è letteralmente colui che condivide l’attività del soggetto del suo servizio giornalistico. Questa tecnica di copertura giornalistica inventata dagli americani è stata progettata per “ragioni di sicurezza ed efficienza”. Consiste nell’affiancare il giornalista al gruppo di combattimento di cui deve ricoprire l’attività per condividere con lui sia la sua missione che i rischi inerenti alle situazioni di guerra.

Tende così a instaurare, conseguentemente, e con il pretesto di una solidarietà di fatto tra il combattente e il giornalista, una censura indotta tra l’osservato e l’osservatore.

Nell’immersione totale con il suo soggetto e nella missione dello stesso, la capacità di valutazione del giornalista è, quindi, inevitabilmente distorta. Questa tecnica è riuscita a ritardare, senza annullarla totalmente, la valutazione obiettiva di una politica, come accadde durante l’invasione americana dell’Iraq nel marzo 2003.

Tuttavia, l’embedded ha preso una piega particolare in Francia, fedele in questo alla famosa “eccezione francese”, rivendicata forte e chiara da tutti i governi, sotto tutti i regimi, sotto tutti i cieli.

La sindrome della vicinanza

Personaggi illustri avevano aperto la strada alla collaborazione tra giornalismo e politica: Georges Clemenceau fu a lungo proprietario di un giornale prima di intraprendere la carriera politica, così come Jean Jaurès fondò nel 1904 il quotidiano l’Humanité prima di dirigere il Partito Socialista, così come Jean Jacques Servan Schreiber e Françoise Giroud sono stati i co-fondatori del settimanale “L’Express” prima di intraprendere una breve carriera ministeriale.

Tra queste due professioni gemelle, il giornalismo e la politica, entra in gioco la sindrome della vicinanza, perché a furia di osservare la politica, i giornalisti finiscono per soccombere alla tentazione di entrare in politica.

Ma l’incrocio di queste attività all’inizio del 21° secolo ha preso una nuova piega, tanto che la sindrome di vicinanza viene declinata secondo un’altra modalità. A forza di seguire da vicino i politici, i giornalisti cominciano a sposare le loro idee e finiscono, a volte, per sostenerle.

7 – Accoppiamento 

La scena mediatica e politica francese contemporanea abbonda di queste famose coppie, le più note delle quali sono Bernard Kouchner, Ministro degli Affari Esteri, e Christine Ockrent (Francia 3), Jean Louis Borloo, Ministro di Stato e Ministro per lo Sviluppo Sostenibile e Béatrice Schönberg (Francia 2), Dominique Strauss-Kahn, ex Ministro delle Finanze ed ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, e Anne Sinclair (RTL-TF1);  François Baroin, ex Ministro degli Esteri e dell’Interno e Marie Drucker (Francia 3); in precedenza, Alain Juppé (all’epoca Ministro degli Affari Esteri) e Isabelle Juppé (La Croix); senza dimenticare gli idilli dei due ex Presidenti della Repubblica: Nicolas Sarkozy durante la fuga newyorkese della moglie Cécilia Sarkozy, con Anne Fulda (Le Figaro) e quello di François Hollande con Valérie Trierweiler (Paris Match).

Il cambio di professione ha lasciato il posto all’accoppiamento. Nel nuovo scenario l’attività non cambia, ma si abbina sia a livello di vita professionale che coniugale con qualcuno che rappresenta l’altro polo del potere, alimentando così il pregiudizievole processo di confusione di genere a danno della democrazia.

Laddove Clemenceau e Jaurès hanno cambiato la forma della loro lotta in fedeltà al loro impegno precedente, la nuova generazione sembra aver intrapreso una strada diversa, privilegiando il piano di carriera al rispetto agli impegni precedenti. Il giornalista cessa di essere un osservatore critico della vita politica per trasformarsi in sostenitore, se non in un divulgatore delle idee del suo interlocutore politico, quantomeno in un fattore di sovraesposizione mediatica del suo compagno di vita.

Infine, ultimo non meno importante, il sovraccarico di informazioni porta alla disinformazione. Il disorientamento porta al pettegolezzo, all’intossicazione e, la mancanza di educazione civica, alla perdita dell’orientamento.

La Guerra in Siria e la Guerra del 5G (Quinta Generazione) nel campo delle comunicazioni

La guerra in Siria ha rappresentato una svolta importante nella guerra mediatica moderna, per la sua ampiezza, durata e intensità, nonché per la proliferazione di strumenti di comunicazione individuali (blog, Facebook, Twitter). Sovrapposta ai media tradizionali, questa variazione mediatica ha portato a una sovraesposizione delle informazioni e ha aggiunto nuovi attori alla scena mediatica, nuovi opinionisti, riciclati attraverso la notorietà del micro blogging (pubblicazione costante di piccoli contenuti in Rete), in tanti amplificatori organici dei sondaggi ufficiali. I droni assassini di ogni pensiero dissenziente.

Islamofobi che agiscono come veri predicatori dei tempi moderni, rompendo con la tradizionale moderazione degli accademici, con anatemi e invettive, per intimidire e criminalizzare i loro oppositori.

Un’evoluzione iniziata negli Stati Uniti dai neoconservatori, nel 2003, durante l’invasione americana dell’Iraq e definitivamente consacrata dagli intellettuali organici francesi, durante la battaglia di Siria, dieci anni dopo.

Il canale transnazionale del Qatar Al Jazeera, nel Mondo Arabo, si è particolarmente distinto in questo campo, per il ruolo guida del Qatar nelle rivolte arabe e di mobilitazione di questo canale nel condizionare l’opinione pubblica.

La Francia, nel Mondo Occidentale, si distinguerà anche per il suo doppio status di ex potenza mandataria, artefice dello smembramento della Siria e promotrice dell’opposizione esterna siriana.

A – Il sistema francese

Per la guerra di Siria, la “madre di tutte le battaglie” degli strateghi francesi, quella che avrebbe consentito sia di garantire la rielezione di Nicolas Sarkozy, sia di ripristinare il prestigio offuscato di Alain Juppé estromesso dal suo ruolo diplomatico in Libia a favore di Bernard Henry Lévy, per compensare il declassamento della Francia nelle partecipazioni nelle economie energetiche arabe (Libia, Siria, Sud Sudan) e per confermare finalmente le qualità di signore della guerra del nuovo Presidente socialista François Hollande, lo stratagemma politico-mediatico francese presentava la seguente configurazione:

Tre franco-siriani in prima linea: Bourhane Ghalioune, primo presidente dell’opposizione estera, la sua portavoce, Basma Kodmani, nonché la sorella di quest’ultimo, Hala, a capo di un’organizzazione di opposizione a Parigi, l’associazione “Sourya Houryia” (Siria Libertà), fondata nel maggio 2011, cioè allo scoppio dei primi disordini, incarico che ha affiancato alle mansioni giornalistiche a Libération.

Questa squadra zoppicante ha subito destato sospetti sulle intenzioni francesi in quanto il profilo di queste tre persone con doppia nazionalità rimandavano al precedente georgiano di Salomé Zourabichvili, con doppia nazionalità franco-georgiana, Ministra degli Esteri della Georgia dopo essere stata Ambasciatrice di Francia.

Questa dualità ne indicava la natura ibrida e giocava a suo sfavore, sollevando la questione della validità della scelta di affidare la guida dell’opposizione siriana a membri della pubblica amministrazione francese, vale a dire a dipendenti dell’ex potenza coloniale.

Altri quattro francesi che attingono al bilancio statale francese hanno completato questa forza d’attacco mediatica: l’accademico François Burgat, in coppia con Ignace Leverrier, il cui vero nome è Wladimir Glasman, bibliotecario, poi archivista presso l’ambasciata francese a Damasco negli anni 2000; Mathieu Guidère, già intermediario del Principe Jouhane del Qatar a Saint Cyr e professore di islamologia a Tolosa; Jean Pierre Filiu, ex diplomatico riciclato nell’insegnamento, blogger del quotidiano online Rue 89; Infine, ultimo e non meno importante, l’accademico Thomas Pierret nel sito online Médiapart, ex discepolo del politologo Gilles Kepel, si è unito all’islamologo François Burgat.

Al vertice, un organo di legittimazione co-diretto da François Burgat, relatore di tesi del dottorando Nabil Ennasri, e da Pascal Boniface, direttore dell’Istituto di Relazioni Internazionali e Strategia (IRIS) e redattore del Qatarologist. Un duo con l’incarico di conferire indubbiamente consistenza al dottorando e di consacrarlo con l’unzione scientifica del proprio magistero morale. Raro caso di fusione intellettuale tra un autore e il suo editore, la loro osmosi editoriale si è concretizzata in un’intervista, che a tratti somigliava a un esercizio di autocelebrazione autopromozionale.

B – Gli islamofobi, un funzionamento reticolare basato su un discorso diffluente e un argomento sotto forma di icone

Per una guerra lampo, che doveva far “cadere Bashar Al Assad nel giro di due mesi”, il piano di battaglia che sembrava perfetto nella strategia dei suoi promotori, si rivelerà disorganizzato e inefficace, persino controproducente a causa dell’arroganza intellettuale.

C – Funzionamento reticolare o sindrome di Ahmad Chalabi

Replica di un copione già usato, il sistema in vigore contro la Siria era identico a quello messo in atto nei confronti dell’Iraq, giustificando ancora una volta l’osservazione di Pierre Bourdieu sulla “libera circolazione dell’informazione’, sia in Qatar, attraverso Al Jazira, sia in Francia, tramite il quotidiano Liberation. Così Ahmad Ibrahim Hilal, responsabile dell’informazione del canale transnazionale del Qatar, ha agito sin dai combattimenti in Siria di tre anni fa, in coppia e in sinergia con il proprio fratello Anas Al Abda, vicino alla corrente islamista siriana e membro dell’Alto Comitato dei Negoziati (HNC), in sintonia con il duo parigino formato da Basma Kodmani, prima portavoce dell’HNC e sua sorella Hala Kodmani.

Questa vicinanza poneva il problema della conformità etica della squadra. Amplificato in Francia a livello arabo da Radio Oriente, la radio del leader dell’opposizione libanese, Saad Hariri, parte in causa nel conflitto siriano, mai visto prima negli annali della comunicazione internazionale, questo dispositivo ha invalidato la narrazione mediatica occidentale allo stesso modo della narrazione ufficiale siriana, in quanto appesantito dalla “sindrome di Ahmad Chalabi”.

Una Sindrome dal nome di questo disertore iracheno che aveva alimentato la stampa americana con false informazioni sull’arsenale iracheno, tramite la nipote giornalista di stanza in uno dei principati del Golfo, facendo implodere la credibilità del datore di lavoro della giornalista di punta del Nuovo York Times, Judith Miller, ricordata come “l’arma di distruzione di massa della credibilità del New York Times nella guerra in Iraq”.

Questo sistema ha creato una fastidiosa confusione di genere tra potere e contropotere. Spiega in parte il disastro diplomatico della Francia in Siria, al di là dei Paesi occidentali, rivelando la vulnerabilità della stampa occidentale, in particolare francese, nei confronti del potere.

Renè Naba è un giornalista-scrittore, ex capo dell’Arab Muslim World (Mondo Arabo Musulmano) al servizio diplomatico dell’AFP, poi consigliere del direttore generale di RMC Middle East, capo redattore, membro del gruppo consultivo dell’Istituto Scandinavo dei Diritti Umani e dell’Associazione di Amicizia Euro-Araba.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org