Un Business che va a gonfie vele.

13 anni dalla produzione di questo documentario sempre più attuale. Da oggi disponibile nel Centro di Documentazione Invictapalestina.

Abbiamo estratto un episodio del documentario in un breve video che mostra la produzione del famoso filo spinato. Per approfondire l’industria della sicurezza leggere l’articolo di Enrico Bartolomei pubblicato da osservatorioiraq.

 

route181

Route 181. Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele offre uno sguardo inedito sugli abitanti di Palestina-Israele: lo sguardo comune, unitario, di un palestinese e di un israeliano. Per più di un anno due cineasti, il palestinese Michel Khleifi e l’israeliano Eyal Sivan, si sono dedicati alla produzione di quello che loro stessi definiscono un atto di fede cinematografico.

Con questo road movie di più di quattro ore, i due registi percorrono insieme il loro paese. Nell’estate del 2002, per due mesi, Khleifi e Sivan hanno viaggiato fianco a fianco dal sud al nord del loro paese d’origine, tracciando il proprio percorso su una mappa e chiamandolo Route 181. Questa linea virtuale segue il confine stabilito dalla risoluzione 181, votata dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947 allo scopo di dividere la Palestina in due differenti stati. Lungo la strada incontrano donne e uomini, israeliani e palestinesi, giovani e vecchi, civili e soldati, riprendendoli nei momenti della vita di tutti i giorni. Ognuno di questi personaggi ha un modo suo proprio di evocare le frontiere che li separano dai loro vicini: concretezza, cinismo, filo spinato, humour, indifferenza, sospetto, aggressività. Quei confini sono stati costruiti sulle colline e nelle pianure, sulle montagne e nelle valli ma, soprattutto, nella mente e nel cuore di questi due popoli, nell’inconsapevolezza collettiva di entrambe le società.
Con Route 181 Michel Khlefi ed Eyal Sivan ci accompagnano in un vertiginoso viaggio attraverso questi minuscoli territori dalle ramificazioni vastissime.

“Siamo i primi a produrlo, ne produciamo in grande quantità. Questo filo spinato è usato per le frontiere e nelle prigioni. Israele ha lanciato un grande progetto, questo filo spinato ha lame affilate che entrano in profondità. Gli eserciti stranieri lo vietano per motivi umanitari. La fabbrica ha rischiato di chiudere durante gli accordi di pace… con i tempi che corrono è un business che va a gonfie vele!”

 

 

 

Approfondimento.

L’industria della sicurezza delle frontiere 

di Enrico Bartolomei 

 

gazaLe crescenti disuguaglianze economiche causate dalle politiche neoliberiste e la destabilizzazione di intere aree in nome della guerra permanente al terrorismo hanno portato a un massiccio incremento delle migrazioni verso le aree più ricche della terra. Di fronte ai flussi migratori crescenti gli Stati a capitalismo avanzato affrontano la questione in termini di emergenza, attraverso la militarizzazione delle frontiere, la criminalizzazione dei migranti e l’istituzione di centri di permanenza e detenzione, spesso mascherati dalla retorica dell’umanitario o fatti passare per un semplice dispositivo di sicurezza o di vigilanza.

Le attuali politiche di controllo delle migrazioni e di restrizione della libertà di circolazione degli individui inducono a loro volta un processo di militarizzazione interna dei territori e delle zone di confine degli Stati. Le aziende europee e nordamericane dominano il settore della cosiddetta “sicurezza di confine”, cioè il controllo e la repressione dei flussi migratori. La crescita delle vendite dei sistemi di sicurezza delle frontiere ha un enorme impatto sulle dinamiche di mobilità e sui diritti umani in tutto il mondo.

Sistemi e meccanismi sempre più sofisticati vengono impiegati dagli Stati per monitorare e controllare la migrazione transfrontaliera, permettendo l’ingresso dei migranti ritenuti desiderabili o utili, e restringendo fortemente la libertà di circolazione e l’accesso dei gruppi più vulnerabili, dalle comunità nomadi alle persone che si spostano in cerca di migliori condizioni di vita o che sono costrette a fuggire da pericoli e conflitti. I meccanismi utilizzati per il controllo e la repressione dei migranti sono diversificati e sempre più sofisticati, e comprendono recinzioni, muri, torri di avvistamento dotate di mitragliatrici a controllo remoto, passaporti biometrici, scansioni dell’iride, macchine fotografiche, radar di terra e di mare, sorveglianza satellitare, droni dotati di dispositivi di sorveglianza e persino robot dotati di armi da fuoco comandate a distanza .

I contratti per installare i vari sistemi di sicurezza delle frontiere nei paesi ricchi o nelle zone di conflitto offrono opportunità di mercato estremamente redditizie per le aziende operanti nel settore.

Israele, modello di paese-fortezza che vanta confini super-militarizzati e impenetrabili e una esperienza di tutto rispetto nel trasferimento e nella segregazione della popolazione indigena palestinese, è un leader mondiale nello sviluppo e nella commercializzazione delle tecnologie di confine usate per limitare la libertà di movimento e per criminalizzare le popolazioni o i gruppi considerati pericolosi per la sicurezza di Stati e regimi repressivi.

La mentalità israeliana da assedio e la volontà di isolarsi dal resto del mondo arabo ha indotto Israele a erigere muri e recinzioni su tutte le sue frontiere. Dopo aver costruito un Muro intorno a Gaza e uno in Cisgiordania, sigillando le frontiere «interne» per evitare le “infiltrazioni” di “terroristi” palestinesi, la Fortezza Israele ha cominciato ad innalzare barriere anche sulle frontiere con Libano, Egitto e Siria. L’esercito israeliano si sta preparando anche a costruire una recinzione lungo il confine orientale con la Giordania . La retorica ufficiale spiega che queste recinzioni servono per impedire le “infiltrazioni illegali” dei migranti africani o dei profughi e gli “attacchi terroristici” delle “forze del jihad globale”.

Quando questi enormi progetti di fortificazione e militarizzazione dei confini saranno terminati, Israele si troverà circondata da barriere acciaio, muri di cemento alti fino a otto metri, filo spinato, trincee, zone cuscinetto, telecamere e sensori elettronici, strumentazione per visione notturna, sistemi di rilevazione termica, strade per il pattugliamento. In altre parole, gli israeliani stessi si sono rinchiusi dentro una grande prigione a cielo aperto.

Durante la costruzione della barriera con l’Egitto, un numero crescente paesi hanno fatto visita in Israele per studiare le ultime tecnologie in materia “sicurezza delle frontiere”. Nel mese di agosto 2015, una delegazione dall’India giungerà in Israele per studiare le diverse tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano per “mettere in sicurezza” i confini con la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e l’Egitto, con l’intenzione di reimpiegarle nella recinzione dei confini col Pakistan e il Bangladesh . Questa rete di recinti e fortificazioni ad alta tecnologia offrono alle aziende israeliane un vero e proprio “vantaggio competitivo” nello sviluppo di sistemi e apparecchiature per la “messa in sicurezza” e il controllo delle frontiere, prima posti al servizio della Fortezza Israele e poi esportati nel resto il mondo per la militarizzazione delle frontiere e la repressione dei fenomeni migratori.

Il caso della società israeliana Elbit Systems, azienda privata con sede in Haifa, è indicativo dell’intreccio tra la domanda politica di sistemi di controllo della libertà di movimento e l’offerta dell’industria della sicurezza dei confini. Come molte altre società israeliane coinvolte nell’oppressione dei palestinesi, Elbit Systems testa armi e tecnologie di sicurezza in Cisgiordania e Striscia di Gaza ed utilizza le competenze acquisite per esportare sistemi e tecnologie che riproducono esclusione, emarginazione e segregazione nel resto del mondo.

Ad esempio, la compagnia fornisce i sistemi elettronici di rilevamento lungo il Muro di separazione in Cisgiordania. Il successo della compagnia nell’individuare i palestinesi lungo il Muro di Separazione ha dato i suoi frutti. A partire dal 2014 Elbit Systems fornirà sistemi di osservazione e sorveglianza elettro-ottici integrati a un sistema di comando e controllo per il programma brasiliano di sicurezza delle frontiere noto come SISFRON .

In aggiunta, Elbit Systems fornirà i sistemi di osservazione e sorveglianza elettro-ottici per il programma di sicurezza delle frontiere brasiliano noto come SISFRON, un sistema di sorveglianza integrato composto da satelliti, veicoli corazzati e droni preposti alla sorveglianza dei confini. I sistemi saranno consegnati da AEL International Ltd., una filiale di AEL Sistemas SA, che a sua volta è la filiale brasiliana di Elbit Systems. Nel marzo 2014 il Dipartimento per la Sicurezza interna degli Stati Uniti ha firmato un contratto di 145 milioni di dollari con l’azienda israeliana per la fornitura di macchinari di sorveglianza da utilizzare al confine con il Messico. Il progetto, chiamato Integrated Fixed Towers, IFT, è costituito da radar e telecamere montate su torri fisse che aiuteranno la polizia di frontiera a rilevare, tracciare e identificare gli “elementi di interesse” lungo il confine tra Arizona e Messico. Elbit produrrà anche tutte le attrezzature di supporto, tra cui i centri di comando e controllo .

La compagnia è anche il principale fornitore di droni e di altri sistemi bellici utilizzati dall’IDF durante le varie offensive contro la Striscia. Dopo averli testati in battaglia, la Elbit Systems ha venduto nel 2004 i droni Hermes 450 alla Polizia di frontiera dell’Arizona per il controllo del confine con il Messico. Questo esempio mostra come i sistemi e le tecniche di restrizione della libertà di movimento, di isolamento e segregazione dei palestinesi siano state esportate per bloccare il traffico di droga e armi, ma anche per il arrestare flusso di centinaia di migliaia di migranti privi di documenti che dal Messico tentano di arrivare negli Stati Uniti, a seguito alla distruzione del settore agricolo messicano causato dall’attuazione delle politiche neoliberiste a partire dagli anni Ottanta e dall’accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico del 1992 .

La fortezza-Israele è arrivata anche in Italia grazie all’esportazione dei radar anti-migranti EL/M-2226 ACSR, Advanced Coastal Surveillance Radar, realizzati da Elta Systems. Si tratta di sensori radar di profondità per la sorveglianza costiera, appositamente progettati per l’individuazione di imbarcazioni veloci di piccole dimensioni, acquistati dalla Guardia di Finanza all’interno di un piano internazionale per l’avvistamento e il respingimento dei migranti che si avvicinano alle coste italiane. La nuova rete di sensori radar, già installata lungo la costa israeliana e integrata alla rete difensiva marittima, sarà integrata al sistema di comando, controllo, comunicazioni, computer ed informazioni, C4I, della Guardia di finanza .

Se il Muro di separazione, i posti di blocco e le altre barriere nei TPO servono per restringere la libertà di movimento dei palestinesi, la militarizzazione del confine tra Israele ed Egitto, inclusa la costruzione di una barriera di acciaio dotata di telecamere, radar e rilevatori di movimento, serve a impedire l’arrivo dei migranti e dei richiedenti asilo dai Paesi africani, in particolare dal Sudan e dall’Eritrea, proteggere la frontiera da possibili incursioni di gruppi insorgenti dalla Penisola del Sinai. Non a caso migranti e richiedenti asilo africani sono chiamati in Israele «infiltrati», vale a dire individui che rappresentano una minaccia per lo Stato.

Non a caso la Legge sulla Prevenzione dell’Infiltrazione approvata dal parlamento israeliano nel gennaio 2012, che definisce migranti e richiedenti asilo come “infiltrati”, cioè colpevoli di un reato che va dalla condanna a tre o più anni di carcere senza processo o alla detenzione in campi in attesa di essere deportati , è un emendamento alla Legge sulla prevenzione dell’infiltrazione del 1954, che aveva come obiettivo di impedire il ritorno degli “infiltrati” palestinesi – le vittime della pulizia etnica del 1947-1949 -alle loro case e alle loro proprietà . In entrambi i casi l’obiettivo è prevenire le «infiltrazioni» per preservare il regime etnocentrico israeliano basato sulla supremazia degli ebrei ashkenaziti di origine europea, la segregazione degli indigeni palestinesi e la discriminazione verso gli ebrei di origine araba e africana.

 

*Enrico Bartolomei è membro della Campagna Palestina Solidarietà Marche e dottore di ricerca in Storia dell’area euromediterranea presso l’Università di Macerata. Dal 2008 ha effettuato periodi di ricerca sul campo in vari paesi del Medio Oriente. Per Osservatorio Iraq ha pubblicato anche l’analisi “1993-2013: venti anni di Oslo”. 

fonte: http://osservatorioiraq.it/cultura-e-dintorni/palestina-gaza-e-lindustria-israeliana-della

 

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