L’opprimente Architettura della Cisgiordania

by Molly Crabapple August 24, 2015

The Oppressive Architecture of the West Bank

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Sayeed mi ha chiesto “Si può vivere come viviamo noi?”

Eravamo in piedi sul tetto della sua casa di famiglia a Hebron, la più grande città della Cisgiordania. La casa, nella città vecchia, racconta la sua storia con le belle pietre, le sue stanze strette che nascondono una scala a chiocciola. Meno pittoresca è la torre di guardia installata dalle Forze di Difesa israeliane in una sezione contigua di tetto.

L’esercito non consente al venticinquenne di chiudere le sue porte, e quando i soldati utilizzano la torre di guardia durante il giorno, bloccano la famiglia di Sayeed nelle sue stanze. La sua casa, come molte altre nella zona, è soggetta a frequenti incursioni notturne in nome della sicurezza, in altre parole, accuse per lanci di pietre o di altre azioni terroristiche. (Gettare un sasso contro veicolo in movimento è ora punibile fino a 20 anni di carcere grazie a una nuova legge che è stata definita dai suoi critici come razzista contro i palestinesi.) Sayeed mi ha detto che è stato arrestato più volte; tira su la gamba dei pantaloni per farmi vedere le cicatrici prodotte durante i  pestaggi per mano delle autorità.
Poi ci sono i coloni, gli ebrei che si sono trasferiti nella terra palestinese della Cisgiordania, terra che Israele occupa illegalmente. Questi coloni sono stati costantemente sostenuti dal governo israeliano, nonostante le condanne di altre nazioni, e nonostante i coloni spesso commettono atti di violenza contro i palestinesi. Alcuni coloni hanno facilitazioni fiscali e godono di sussidi governativi perché vivono al di fuori dei confini di Israele del 1967. Ma altri, come molti di quelli di Hebron, sono convinti   che Dio ha concesso agli ebrei tutta la terra di Israele, un’area geografica che comprende la West Bank.

Gli israeliani che si sono trasferiti nella città vecchia si sono spinti fino a costruire sulle strutture esistenti in modo che l’architettura moderna cancelli il passato.  Nel caso di Sayeed, i coloni hanno costruito una nuova ala che ingloba la sua casa. Sayeed racconta che i coloni passano attraversano il tetto adiacente e talvolta gettano rifiuti nei suoi serbatoi d’acqua. Nel 2007, ha affermato, hanno fatto irruzione in una delle sue camere buttando una bomba Molotov, un evidente tentativo di far andar via la famiglia dalla loro casa. Il fratellino di Sayeed mi ha portato giù nella camera, dove il pavimento e le pareti sono ancora anneriti dallo scoppio.

Mi fermai sul tetto, riflettendo sulla domanda di Sayeed. “No” – risposi onestamente

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Ho visitato Hebron ai primi di giugno (2015), due mesi prima l’ennesimo attacco incendiario da parte dei coloni in cui è morto bruciato vivo bambino di 18 mesi di nome Ali Dawabsheh nel villaggio cisgiordano di Duma. Il giorno dopo è morto il padre di Ali Saad per le ustioni che coprivano l’80 per cento del suo corpo.

In seguito all’assassinio di Ali, politici israeliani, come il primo ministro Benjamin Netenyahu, si sono affrettati per separare la straordinaria violenza commessa dai coloni, dalla violenza quotidiana dell’occupazione. Ma è impossibile fare una distinzione.

I coloni sono una parte intrinseca dell’occupazione israeliana sostenuta dallo stato. Nei loro attacchi, i coloni servono come truppe d’assalto della occupazione. La loro sicurezza serve come alibi.

In nessun luogo questo è più visivamente evidente come nella città vecchia di Hebron.
Gli Accordi di Oslo dividono Hebron in due zone:

La prima H2, gestita dai militari israeliani, e la seconda H1, gestita dall’Autorità Palestinese (PA). La Città Vecchia di Hebron si trova in H2, dove vivono  30.000 palestinesi e circa 500 coloni israeliani.

La Vecchia Hebron è costruita con pietra dai colori tenui con i suoi portoni blu che creano un affascinante labirinto mediterraneo che, in un altro universo, sarebbe pieno di gruppi turistici odiosi. Ma grazie all’occupazione, è sfregiato da cancelli, barriere di cemento, filo spinato, e posti di blocco. Un souk dove una volta si vendeva l’oro ora è vuoto, le porte dei suoi numerosi negozi saldate  dall’esercito israeliano con la sua merce ancora dentro.

A Hebron, l’apartheid è imposta sulla architettura. I palestinesi si spostano in un labirinto di barriere, recinzioni e strade solo per coloni – intrappolati in circuiti sconnessi che possono portarli lontani chilometri dalla strada che intendono percorrere. I soldati, la maggior parte di loro adolescenti mizrahi annoiati, spesso lasciano languire i palestinesi ai checkpoint di Hebron per ore. Le lunghe attese sono l’ultimo dei problemi creati da questa rete di restrizioni, ogni interazione tra il soldato e civile palestinese può portare a un pestaggio, un arresto, o anche una sparatoria per mano dell’esercito.

Naturalmente, nessuna di tali restrizioni alla circolazione si applica ai coloni.

L’ex strada principale, Shuhada Street, è silenzioso come un cadavere. La maggior parte delle famiglie palestinesi sono state cacciate da Shuhada, sia dai coloni che dall’esercito. Graffiti osceni si uniscono  alle stelle di David che i coloni hanno scarabocchiato in tutte le sue vetrine abbandonate.

Punti di controllo alle due estremità avvertono, con un arabo sgrammaticato, che questa strada è solo pedonale – per i palestinesi, che possono camminare solo fino agli ultimi 600 piedi – Gli israeliani sono i benvenuti con le auto.

I coloni si sono trasferiti negli appartamenti che si affacciano sulle vie dei negozi alberati della città vecchia di Hebron. Dalle loro finestre, abitualmente lanciano pietre, vetro, piscio e pannolini sporchi verso i commercianti palestinesi sottostanti. I commercianti hanno le reti appese per bloccare alcuni dei rifiuti, ma i liquidi non si possono trattenere. Un venditore mi ha mostrato i suoi scialli, che sono stati rovinati da uova marce. Gli affari vanno a rilento qui, ma i negozianti resistono, per testardaggine o orgoglio, o semplicemente per il desiderio di avere qualcosa da fare.

Foto di Romana Rubeo scattata in questi giorni a Hebron (22 agosto 2015)
Foto di Romana Rubeo scattata in questi giorni a Hebron (22 agosto 2015)

Molti negozi sono avviati alla chiusura. Altri sono senza porte, pieni di spazzatura, coperti e chiusi dalle barricate. Un parco giochi per i bambini arabi è stato trasformato in un  parcheggio esclusivo per coloni. Secondo un rapporto  del 2013 a cura dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, più di 1.000 case palestinesi adiacenti gli insediamenti sono stati abbandonati, e 512 imprese palestinesi hanno chiuso per ordini militari israeliani. Un ulteriore numero di 1.100 imprese hanno chiuso a causa di un accesso limitato per clienti e fornitori.

Israele giustifica la sua politica di separazione tra palestinesi e coloni come un modo per mantenere la pace tra i due gruppi. Tuttavia, la politica penalizza solo i palestinesi, trasferendoli e limitando la loro libertà di movimento, in nome della sicurezza e del contrasto al “terrorismo”.

Ghassan Jabari, 19 anni, mi ha detto “Non siamo terroristi come ci chiamano. Nessuno di noi vuole uccidere vogliamo solo vivere come chiunque altro”.

Un anno fa Ghassan ha aperto un piccolo negozio di ceramiche di fronte alla moschea di Ibrahim. Nonostante i bus turistici, il commercio è lento. Ghassan, che non appartiene a nessuna fazione politica, mi ha detto che molti tour operator israeliani mettono in guardia i turisti che vorrebbero fare shopping da lui, sostenendo  che il denaro va poi ad Hamas.

Le autorità lo hanno anche tormentano. Un video di YouTube del novembre 2014 fa vedere i soldati che fermano Ghassan a un checkpoint appena fuori dal suo negozio. Aveva dimenticato la carta di identità all’interno del negozio, i soldati lo hanno detenuto, spingendolo e torcendo il braccio dietro la schiena. Un’altra volta, ha detto Ghassan, quattro soldati sono entrati nel suo negozio e hanno iniziato a lanciare la merce in strada. Lo hanno ammanettato e bendato, hanno preso la sua carta di identità, e lo hanno avvertito di dire addio al suo negozio, lo hanno liberarlo solo dopo che la sua famiglia ha pagato 1.500 shekel di multa (quasi $ 400) . Secondo Ghassan, ai soldati non sta bene che egli abbia un negozio in una location così vitale.

Ma questi casi sono stati anche il frutto di manie di potere, la noiosa e umiliante fabbrica della vita sotto occupazione.

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Circa 650.000 israeliani vivono in insediamenti in Cisgiordania, compresi 300.000 che vivono a Gerusalemme Est. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, hanno attaccato i palestinesi e le loro proprietà 399 volte nel 2013. I coloni di Hebron rappresentano una quantità sproporzionata di violenza. In una settimana nel febbraio 2015, i coloni nel Governatorato di Hebron hanno commesso quattro su cinque degli assalti registrati dalle Nazioni Unite, colpendo un bambino di dieci anni con una sbarra di ferro, abbattendo 40 piante di olivo, sradicando 550 alberelli, assaltando un pastore di 55 anni, mentre pascolava le sue pecore.

La violenza è stata teorizzata da un uomo che viveva nell’insediamento di Hebron. Un credente nel diritto divino degli ebrei a governare la “Grande Israele”. Il rabbino Moshe Levinger, sotto mentite spoglie, affittò alcune camere presso un hotel di Hebron nel 1968. Lui ei suoi seguaci poi lo occuparono. L’esercito israeliano successivamente trasferì gli abusivi alla base di Kiryat Arba, affacciata su Hebron, dove fondarono un insediamento. Nel 1979, la moglie di Levinger Miriam occupa illegalmente un altro edificio a Shuhada Street ribattezzandolo Beit Hadassah. Questo edificio oggi è ancora occupato dai seguaci di Levinger e la sua parete reca una targa commemorativa risalente al massacro di 69 ebrei nel 1929 a Hebron da parte degli arabi dei villaggi circostanti. La targa sostiene inoltre, falsamente, che a nessuno ebreo è permesso di entrare nella parte araba di Hebron.

Nel corso degli anni, Levinger è stato accusato più volte di aver commesso violenze contro i vicini palestinesi. Nel 1988, arrabbiato che la sua macchina era stata bersagliata con lanci di pietre, ha sparato a caso in un mercato affollato, uccidendo un negoziante palestinese, un atto per il quale è stato in carcere 92 giorni.

Nel 1994, un colono nato in America Baruch Goldstein ha aperto il fuoco nella Moschea Ibrahimi di Hebron, uccidendo 29 palestinesi prima che i sopravvissuti fossero riusciti a linciarlo. Al Jazeera riferì, che secondo la gente del posto, l’esercito israeliano uccise un ulteriore palestinesi perché protestava fuori della moschea contro il massacro.

I coloni hanno trasformato la tomba di Goldstein in un santuario. Sebbene  le vittime furono tutte palestinesi, l’esercito israeliano rispose con l’emissione di un coprifuoco di 30 giorni (che non si applicava ai coloni), poi si divise la moschea di Ibrahim, e si chiuse Shuhada Street al traffico palestinese. Più tardi, durante la Seconda Intifada, l’esercito ha chiuso le porte di negozi e abitazioni saldandole.

La strada oggi rimane chiusa. Alcune famiglie possono entrare solo nelle loro case  attraversando i tetti. Griglie coprono le finestre, per proteggersi da gas lacrimogeni e pietre.

Sotto l’occupazione, un arabo può essere arrestato se in possesso di un coltello. I coloni israeliani, compresi gli adolescenti, possono andare in giro spavaldi con fucili d’assalto.

Fuori dal negozio di Ghassan, ragazzi locali oziano, scherzano, contrattano e vendono agli stranieri braccialetti con i colori della bandiera palestinese. Un ragazzo di 14 anni, con una faccia sfregiata, mi ha parlato di attacchi congiunti da parte di  soldati dell’IDF e bande di coloni adolescenti, i bambini palestinesi spesso sono stati arrestati con l’accusa di lancio di pietre. I soldati poi minacciano di tenerli rinchiusi per mesi, se non firmano confessioni. Secondo diversi palestinesi, con i quali ho parlato a Hebron, per il rilascio dei loro figli i genitori devono pagare multe di 2.000 shekel (circa $ 500) , anche se i loro figli non sono mai stati portati davanti a un giudice.

I palestinesi in Cisgiordania, secondo l’ONG per i diritti umani B’Tselem, sono di solito processati nei tribunali militari; i coloni, invece, sono processati in tribunali civili all’interno di Israele. Secondo un rapporto di organizzazione per i diritti umani Yesh Din, solo il 7,4 per cento delle denunce penali da palestinesi contro gli israeliani si trasformano in atti d’accusa, e in quasi un quarto di questi casi, l’imputato israeliano non è condannato per alcun crimine, nonostante sia stato giudicato colpevole.

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Ho assistito qualche giorno fa all’effetto prodotto da una sassaiola a Hebron.

Ogni venerdì, i coloni, sotto pesante scorta militare, visitano la moschea di Ibrahim (che gli ebrei chiamano la Grotta dei Patriarchi) per pregare. Quando ho lasciato la città vecchia, ho visto che i coloni si sono riuniti, per prepararsi ad entrare. File di giovani ortodossi in piedi con identici vestiti e dietro i soldati israeliani, con divise antisommossa e fucili d’assalto.

Fuori contemporaneamente, i venditori palestinesi con le loro bancarelle che vendono frutta. Ragazzi corrono avanti e indietro. Volontari provenienti da diverse ONG non violente  tutto intorno, alcuni per scattare foto,  altri a prendere appunti, altri solo disposti come barriere fisiche tra i coloni e palestinesi.

Con il tempo mi sono imbattuto tra la folla, elettrica e tesa. I coloni, dietro la loro guardia militare, con le armi puntate contro i palestinesi, gridando con rabbia in ebraico non riuscivo a capire. Un uomo che indossava una t-shirt con il logo dell’organizzazione  cristiana Peacemaker team mi fece un cenno mostrandomi la sua macchina fotografica. Sul visore, mi ha mostrato una foto di uno dei suoi colleghi che si teneva la testa sanguinante prima di essere caricato in un’ambulanza.

In inglese, l’uomo mi ha detto che la foto era stata presa pochi minuti prima. Per quanto riguarda la ferita, questa era gentile concessione di una pietra lanciata da un colono contro il suo collega.

Sebbene il lancio di pietre è spesso trattato come un reato grave quando fatto dai palestinesi, i coloni non sono stati arrestati. I soldati stanno a guardare fino a quando, spinta la folla da parte, tutti coloni scompaiono nella Città Vecchia.

Questi momenti dimostrano come sia impossibile districare le violenze commesse dai coloni dai meccanismi dello stato: Il colono getta un sasso; l’esercito lo protegge. Le strade chiuse, le case abbandonate, la città divisa in zone, questo è fatto tutto per la sicurezza dei 600 coloni che vivono lì in spregio al diritto internazionale. È così che la casa di Sayeed è stata occupata sia dai coloni che dall’esercito israeliano; è così che il negozio di Ghassan è stato distrutto, è così che Ali Dawabsheh è stato bruciato vivo.

Le manifestazioni più critiche di questo sistema fanno notizia, ma esso permea tutti i momenti dell’esistenza in Cisgiordania.

Verso la fine del mio soggiorno a Hebron, sono dovuto andare nell’ufficio stampa del governo di Gerusalemme in zona Malha, per ottenere l’accreditamento necessario per poter  visitare Gaza. Un amico palestinese si è offerto per accompagnarmi col bus. Abbiamo viaggiato lungo la parte palestinese di una delle strade di Hebron, una corsia in discesa fatta di rocce taglienti  (la parte ebraica, naturalmente, era perfettamente asfaltata). In lontananza brillavano le colline verdi, sormontate dall’ insediamento del rabbino Levinger di di Kiryat Arba.

Abbiamo viaggiato più a valle, sotto Beit Shalom, un centro culturale per i coloni con le bandiere che annunciano la  calda accoglienza della IDF. “Noi la chiamiamo la casa terrorista”, disse sorridendo il mio amico.

L’amico mostra una fermata, è solo per i bus israeliani e si ferma troppo vicino. I soldata presidio di un posto di blocco vicino si avvicinano gridando, gli prendono la carta di identità. Abbiamo aspettato, sudando sotto il sole. Il mio amico lo hanno trattato come un terrorista in attesa dei suoi amici terroristi. Poi chiamano me…

“Cosa stai facendo qui?”mi chiede un soldato.

“Hai preso la carta di identità del mio amico senza nessun motivo. Dalla indietro,” dissi. “Sono un giornalista.”

Appena ha sentito questo, un soldato ha cominciato a giustificare le sue azioni. Sorride, falsamente, dicendomi che trattava tutte le persone allo stesso modo. Che ha salutato il mio amico ogni giorno. Che non è stato mai messo nei guai.  Il suo partner ridacchiò. I coloni ridevano di noi dall’ombra della loro fermata dell’autobus. Ho chiesto di nuovo il documento del mio amico.

Alla fine lo restituisce. L’ho do al mio amico, che mi guardava con rabbia pura e nascondendo una profonda umiliazione.

“Perché l’ha data a voi?” domandò. «Perché l’hai presa?”

“Mi dispiace tanto,” gli dissi, non sapendo in cosa avevo fatto di sbagliato.

Fu solo più tardi, sull’elegante e vuoto autobus solo per israeliani che ho preso per tornare a Gerusalemme, che ho capito il motivo della sua vergogna e rabbia. Ero stato a Hebron per due giorni, ma come giornalista americano, ho potuto ottenere il suo ID indietro in cinque minuti. In questo modo avevo sottolineato involontariamente come lui era impotente nella città dove era nato.

trad. Invictapalestina

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