I palestinesi che si mobilitano a livello internazionale per la loro liberazione hanno costantemente le loro voci e richieste controllate da altri, scrive Mjriam Abu Samra.
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di Mjriam Abu Samra, 15 novembre 2024 Immagine di copertina: Giovani nella città italiana di Udine prendono parte a una manifestazione per la Palestina. [GETTY]
L’anno scorso abbiamo assistito a un’ondata senza precedenti di mobilitazione globale per la Palestina contro il genocidio che Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, porta avanti a Gaza e che ha finora devastato l’area e ucciso oltre 200.000 palestinesi (cifra destinata ad aumentare considerando i tanti ancora sotto le macerie). Nonostante questo crescente sostegno popolare alla liberazione palestinese dai 76 anni di colonialismo di insediamento di Israele, le stesse narrazioni orientaliste, razziste e paternalistiche che sono state utilizzate per decenni per minare la resistenza palestinese, rimangono dominanti. Questo e’ ancora un tentativo di delegittimare la richiesta globale di giustizia e di piena liberazione della Palestina.
Mentre tutto il mondo si mobilita a livello popolare per condannare 13 mesi di genocidio che prosegue trasmesso in live-stream, molte di queste manifestazioni e proteste vengono arbitrariamente vietate o demonizzate dai governi occidentali. I palestinesi e i loro sostenitori sono stati etichettati da leader politici e giornalisti come violenti, antisemiti e persino simpatizzanti del terrorismo.
Le proteste popolari organizzate e guidate dalle nuove generazioni di palestinesi della diaspora in occidente, sono state aspramente contestate ed in alcuni contesti le forti critiche hanno caratterizzato anche l’analisi delle voci “di sinistra” e “liberali”, come è stato il caso dell’Italia, per esempio.
I politici e i media mainstream si sono affrettati a criticare gli organizzatori delle manifestazioni per la Palestina per le loro visioni politiche e per le rivendicazioni del diritto al ritorno di tutti i rifugiati palestinesi e della piena liberazione della Palestina, definite come “troppo radicali” .
Chi definisce la decolonizzazione?
È fondamentale tener presente che la maggioranza del Palestinesi nella diaspora rifiuta categoricamente qualsiasi narrativa che non riconosca il diritto a resistere l’oppressione israeliana. I giovani della diaspora adottano un’analisi anticoloniale che pone il sionismo al centro del progetto imperialista occidentale che trova la sua più brutale attuazione contemporanea nel genocidio dei palestinesi. Il tentativo di stigmatizzare il loro discorso e le loro proteste come “troppo radicali” è una distorsione intenzionale di un movimento che sta lottando per la giustizia e che sta tracciando un nuovo percorso verso la liberazione.
In questo contesto, la demonizzazione delle loro analisi politiche, solleva alcune importanti questioni su chi detiene l’autorità sulla definizione del linguaggio e le azioni “appropriate” che un movimento per la liberazione dovrebbe usare. Chi ha l’autorità di dettare e definire cose e’ la decolonizzazione e come il processo decoloniale dovrebbe articolarsi?
Imporre ai colonizzati un quadro analitico e una comprensione ben delimitata della decolonizzazione riproduce le stesse dinamiche di potere che la decolonizzazione cerca di smantellare. Questo atto di prescrivere il linguaggio “corretto” priva i colonizzati della loro capacità di agire. Le narrative e le ambizioni politiche dai palestinesi riflettono la loro esperienza diretta di cancellazione del popolo indigeno, non sono semplice teoria.
I giovani e i gruppi di palestinesi della diaspora che chiedono un cambiamento politico radicale e si mobilitano contro la complicità occidentale sono parte integrante della nazione palestinese che affronta lo sterminio in tutte le sue diverse forme. Hanno il diritto di definire il proprio percorso verso la liberazione. Inoltre, questi giovani, ispirati da una lunga storia di lotte anticoloniali, hanno imparato, come ha affermato Franz Fanon, che la decolonizzazione spesso richiede misure radicali e persino violente per liberarsi dalle catene dell’oppressione.
Controllo della liberazione palestinese
Troppo spesso, molti di questi gruppi vengono etichettati come “estremisti”, uno dei termini preferiti nei discorsi orientalisti occidentali. Le voci e le azioni dei giovani palestinesi della diaspora, che sono parte integrante della lotta nazionale, emergono dall’esperienza condivisa di minaccia esistenziale, esilio e frammentazione. Etichettare la loro mobilitazione come estrema svilizza e sminuisce la serieta’ ed impellenza della loro situazione e li condanna al silenzio.
Ci si aspetta costantemente che i palestinesi moderino il loro tono, il loro linguaggio e le loro richieste politiche per costruire e raggiungere un “consenso” tra l’opinione pubblica. Tuttavia, raggiungere il consenso non dovrebbe significare accontentare e avallare le narrative dell’oppressore o di coloro che sono complici nel mantenimento dello status quo coloniale. Le rivendicazioni su cui costruire consenso dovrebbero piuttosto fondarsi sulla giustizia e sul pieno riconoscimento dei diritti di coloro che hanno subito un torto. Ciò implica affrontare e denunciare la violenza strutturale che caratterizza non solo il progetto coloniale sionista, ma anche l’approccio internazionale alla causa palestinese.
Inoltre, aspettarsi che i palestinesi cambino costantemente la loro immagine per adattarsi agli standard occidentali, al fine di non essere percepiti come violenti o intolleranti, è di per sé un’aspettativa coloniale. Richiede che i colonizzati concentrino la loro resistenza su come l’Occidente li vede, piuttosto che su ciò che devono fare per ottenere la propria liberazione.
Non è dovere dei palestinesi cambiare il modo in cui vengono percepiti; è responsabilità dell’Occidente affrontare i propripregiudizi e stereotipi radicati in un razzismo e una arroganza suprematista secolari.
Gli strumenti principali
Ai palestinesi viene spesso chiesto di fare riferimento al diritto internazionale come quadro di impostazione principale per le loro rivendicazioni. Tuttavia, l’impianto legislativo e le istituzioni internazionali sono parte integrante (e costituente) dello stesso sistema internazionale che ha riconosciuto la colonizzazione sionista della Palestina, l’ha legittimata e, più in generale, ha sostenuto il dominio coloniale (e neocoloniale) in tutto il mondo. Insistere sul fatto che i palestinesi limitino le loro richieste entro tali confini significa rinnegare l’eredità storica di oppressione e dinamiche di potere di stampo coloniale che ancora sono alla base del sistema internazionale.
Il diritto internazionale è spesso invocato per giustificare e preservare le strutture di potere globali radicate nel colonialismo. I giovani palestinesi sono stati in grado di articolare un’analisi olistica che identifica e denuncia gli approcci neocoloniali. Sono fortemente consapevoli che gli “strumenti del padrone”, del colonizzatore, non potranno mai smantellare l’ordine coloniale.
Inoltre, insinuare dubbi su quanto i giovani palestinesi della diaspora e le loro rivendicazioni di piena liberazione siano effettivamente collegati alla realtà nella Palestina colonizzata, riflette una illazione di fondo sulla loro legittimità. Riflette una percezione orientalista dei palestinesi, che rafforza la retorica della divisione e che rifiuta di vederli come un collettivo. Soprattutto tra i liberali occidentali, la diaspora viene spesso liquidata con un riferimento alla “frammentazione palestinese”, al fine di giustificare la riluttanza a considerare i giovani palestinesi degli interlocutori legittimi. Paradossalmente, cosi’, i colonizzati vengono incolpati per le loro complessità, come se questa fosse la ragione per cui gli “alleati” occidentali non riescono a dare spazio alle loro voci. In questa dinamica, i “liberali” occidentali continuano ad arrogarsi il diritto di scegliere e selezionare gli interlocutori che loro ritengono e definiscono piu’ o meno legittimi o rappresentativi.
Questa generazione di palestinesi, sebbene giovane, rifiuta, con convinta consapevolezza politica, l’illusione della retorica di “costruzione dello Stato” e “soluzioni pragmatiche”. Ciò include il rifiuto di approcci internazionali che garantiscono a Israele la copertura per una maggiore appropriazione di terre, l’espansione degli insediamenti, la cancellazione e l’eliminazione del popolo indigeno e il continuo sterminio dei palestinesi, così come la conservazione di un sistema regionale ineguale che perpetua le dinamiche coloniali.
Mentre il discorso mainstream vorrebbe farci credere che questi giovani palestinesi siano ingenui, il loro rifiuto non è un segno di estremismo, ma di chiarezza nella loro visione anticoloniale e impegno per la giustizia. Chiedono lo smantellamento di un sistema che ha sostenuto l’oppressione coloniale, piuttosto che riforme che ne armeggino solo ai margini. Rifiutano i quadri analitici imposti dagli attori internazionali, e affermano il loro diritto a determinare il loro futuro alle loro condizioni.
Respingere il loro approccio come estremo, o metterne in discussione la legittimità perché non in linea con le aspettative occidentali, riflette un atteggiamento paternalistico che la decolonizzazione cerca di riorientare. Dobbiamo definire questa violenza coloniale per quello che è, e denunciarla nei termini e nel linguaggio giusto e necessario al fine dello smantellamento del suo ruolo brutale. Perché i palestinesi dovrebbero chiedere meno di cio’?
Mjriam Abu Samra è una Marie Curie Post-Doc Fellow presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali dell’Università di Venezia Ca’ Foscari e presso il Dipartimento di Antropologia dell’UC Davis, USA. È stata Coordinatrice e Senior Researcher presso il Renaissance Strategic Center di Amman, in Giordania. È stata attivamente coinvolta nell’organizzazione transnazionale dei giovani palestinesi.
Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org