L’ombra costante della morte non sconfiggerà i palestinesi

Mentre il genocidio di Israele continua, Huda Skaik scrive le sue riflessioni personali da Gaza sul rapporto che i palestinesi hanno avuto con la morte fin dalla Nakba.

di Huda Skaik, 25 novembre 2024

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FOTO: Blocchi di cemento contrassegnano le tombe improvvisate delle persone uccise negli attacchi israeliani del giorno prima a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, il 30 ottobre 2024. [GETTY]

La narrazione delle vite dei palestinesi è spesso associata a morte, sofferenza e perdita. Ciò avviene indipendentemente dal modo in cui i media descrivono i crimini di Israele. Questo rapporto, irto di complessità storiche e contemporanee, solleva interrogativi critici e profondi sull’identità, la resilienza e la ricerca della pace in una terra segnata dalla violenza.

E perché non dovrebbe essere così, visto che per i palestinesi la vita è certamente costellata dalla costante presenza della morte, che va dalla perdita di persone care alla distruzione di case, terre e sogni. Decenni di conflitto, sfollamento e occupazione ci hanno consegnato solo questo.

In effetti, dalla Nakba del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono sfollati con la forza, si è impresso un segno indelebile nella coscienza collettiva. Oggi, nelle città palestinesi e nei campi profughi, l’esperienza quotidiana è segnata da posti di blocco, incursioni militari e dalla minaccia sempre incombente di attacchi.

La morte diventa il nostro pensiero quotidiano e il trauma reiterato della perdita di familiari, amici e vicini ha reso molti insensibili ad essa, non più in pratica qualcosa di astratto; modella la nostra visione del mondo, le strategie di sopravvivenza e persino il nostro senso di identità.

Per i gazawi, la morte comporta anche la continua perdita della vita normale – di case, scuole e infrastrutture – che aggrava il loro dolore e la loro incertezza.

Soprattutto in questi giorni in cui i bisogni primari come cibo, acqua e forniture mediche scarseggiano e la prospettiva di una pace duratura rimane sfuggente, la morte sembra quasi inevitabile. La gente ha imparato a vivere con l’acuta consapevolezza che potrebbe colpire in qualsiasi momento, che sia un missile, un edificio crollato, uno stritolamento da parte di un carro armato o la mancanza di bisogni primari.

Martiri

Il rapporto dei palestinesi con la morte, tuttavia, non è legato esclusivamente alla nostra storia violenta, ma è anche un riflesso della nostra lotta per l’esistenza. Nella cultura palestinese, l’atto di ricordare i morti – attraverso rituali, poesie o racconti – serve a preservare l’identità e la resistenza contro la cancellazione.

La parola martire ha un peso significativo, in quanto onora coloro che sono stati uccisi dall’occupazione israeliana nella lotta per la liberazione. A Gaza ci sono molti martiri ogni giorno. Per loro si tengono preghiere funebri, vengono avvolti e sepolti.

Sono state scavate molte fosse comuni per gruppi di martiri, a volte anche non identificati.

Non a tutti i martiri sono stati concessi i riti tradizionali, ad alcuni non sono stati lasciati nemmeno i corpi interi.

Alcuni martiri non sono stati recuperati da sotto le macerie dal primo giorno del genocidio israeliano.

Ci sono martiri che sono stati sepolti nelle loro case perché i loro cari non potevano rischiare di andare nei cimiteri tra le invasioni, gli attacchi e l’assedio.

Ci sono molti martiri che sono stati messi in sacchi invece che in sudari semplicemente perché non ce n’erano abbastanza per il numero di uccisi.

Sì, siamo stati testimoni di ogni forma di morte. Ogni giorno, ogni ora, fino a questo momento, ne siamo circondati.

Onnipresente

Come studentessa di letteratura inglese, mi ritrovo a fare affidamento sui classici come riferimento per comprendere tutto ciò che mi circonda. Non posso fare a meno di notare come tanta parte di questa realtà si rifletta, ad esempio, nell’Amleto di Shakespeare e in The Waste Land di T.S. Eliot. Dai temi della morte e della perdita, al modo in cui entrambi esaminano la mortalità e la ricerca di un significato in mezzo al caos.

Nell’Amleto, sia attraverso il fantasma del padre del protagonista, sia attraverso le tragiche morti che si susseguono nel corso dell’opera, il tema è una costante. La preoccupazione di Amleto per la mortalità è anche un parallelo per me con l’esperienza palestinese. Proprio come la lotta di Amleto per la giustizia e la verità in un mondo corrotto, i palestinesi lottano per il riconoscimento e la liberazione di fronte all’occupazione.

The Waste Land cattura vividamente il senso di frammentazione e disperazione all’indomani della Prima guerra mondiale. Le città, un tempo centri di vita e vitalità, sono diventate simboli di disillusione. Allo stesso modo, città palestinesi come Gaza e Gerusalemme, sebbene storicamente ricche e vivaci, sono diventate campi di battaglia segnati da divisione, distruzione e occupazione.

Per i palestinesi la morte è onnipresente, è troppo familiare. Eppure, nonostante questo, siamo ancora forti e combattivi. Nonostante gli innumerevoli anni di perdite e violenze, ci rifiutiamo di essere sconfitti dalla morte. Il nostro spirito è fiero e siamo risoluti, non solo a sopravvivere, ma ad affermare la nostra intenzione di superare la morte stessa.

Ci rifiutiamo di rinunciare alla nostra terra, alla nostra identità e alla nostra volontà di vivere come popolo libero.

Come ha scritto con forza il poeta palestinese Tamim Al-Barghouti:

Morte, stai attenta!
E non rassicurarti perché
ci hai contati,
noi, morte, siamo di più.
Ti abbiamo conosciuto,
morte, tanto da stancarti.
Morte, la nostra intenzione è dichiarata,
ti supereremo,
e anche se ci uccideranno tutti qui,
morte, stai attenta,
noi siamo qui, non abbiamo più paura.

Huda Skaik è una studentessa di letteratura inglese, scrittrice e videomaker. È membro di We Are Not Numbers e collabora anche con Electronic Intifada e WRMEA. Sogna un futuro come professoressa, poetessa professionista e scrittrice.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org