L’Autorità Nazionale Palestinese e Israele sono alleati nel mettere a tacere la verità

Ho assistito in prima persona alla brutalità dell’Autorità Nazionale Palestinese contro i giornalisti a Gaza.
Un suo possibile ritorno non promette nulla di buono per noi.

Fonte: English Version

Eman Mohammed, fotogiornalista palestinese-americana, 1 febbraio 2025

Immagine di copertina: Un gruppo di giornalisti palestinesi protesta davanti alla sede del Consiglio legislativo palestinese contro la decisione dell’Autorità Nazionale Palestinese di chiudere il canale televisivo privato Al-Roah con sede a Betlemme, nella città di Gaza, 17 ottobre 1999 [Archivio: Mohammad Saber/AFP]

Il 28 dicembre, la ventunenne studentessa di giornalismo Shatha Al-Sabbagh è stata assassinata vicino a casa sua a Jenin. La sua famiglia ha accusato i cecchini dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) schierati nel campo di averle sparato alla testa. Al-Sabbagh era stata attiva sui social media, documentando le sofferenze dei residenti di Jenin durante i raid di Israele e dell’ANP.

Solo pochi giorni dopo l’assassinio di Al-Sabbagh, le autorità di Ramallah hanno vietato ad Al Jazeera di fare reportage nella Cisgiordania occupata. Tre settimane dopo, le forze dell’ANP hanno arrestato il corrispondente di Al Jazeera Mohamad Atrash.

Questi sviluppi giungono mentre l’occupazione israeliana ha ucciso più di 200 operatori dei media a Gaza e ne ha arrestati decine nei territori palestinesi occupati. Ha anche messo al bando Al Jazeera e rifiutato di consentire ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza. Il fatto che le azioni dell’AP rispecchino quelle di Israele rivela un programma condiviso per sopprimere il giornalismo indipendente e controllare l’opinione pubblica.

Per i giornalisti palestinesi, questa non è una novità. L’AP non è mai stata la nostra protettrice. È sempre stata una complice della nostra brutalizzazione. Ciò è vero in Cisgiordania ed era vero a Gaza quando l’AP era al potere lì. Ne sono stata testimone in prima persona.

Crescendo a Gaza, ho visto come il mio popolo veniva oppresso dalle forze israeliane e dall’AP. Nel 1994, l’occupazione israeliana ha formalmente consegnato la Striscia all’AP per amministrarla in base alle disposizioni degli Accordi di Oslo. L’AP è rimasta al potere fino al 2007. Durante questi 13 anni, abbiamo assistito a più collaborazioni con l’occupazione israeliana che a qualsiasi tentativo significativo di liberazione. Per i giornalisti, la presenza dell’AP non era solo oppressiva, era pericolosa per la vita, poiché le sue forze soffocavano attivamente le voci per poter mantenere la fragile presa sul potere.

Da studentessa di giornalismo a Gaza, ho sperimentato questa repressione in prima persona. Camminavo per le strade e assistevo al saccheggio dei negozi da parte degli agenti di sicurezza dell’Autorità palestinese, la cui arroganza era ben visibile nell’atto sfrontato del furto. Un giorno, mentre cercavo di documentare tutto ciò, un ufficiale palestinese mi ha afferrato violentemente, mi ha strappato la macchina fotografica dalle mani e l’ha fatta cadere a terra. Non si è trattato solo di un’aggressione, ma di un attacco al mio diritto di testimoniare. L’aggressione dell’agente è cessata solo quando un gruppo di donne è intervenuto, costringendolo a ritirarsi in un raro momento di controllo.

Conoscevo i rischi dell’attività di giornalista a Gaza e, come altri operatori dei media, ho imparato a gestirli. Ma la paura che ho provato negli agguati delle forze dell’AP è stata diversa da qualsiasi altra cosa. Questo perché non c’era mai una logica nelle loro azioni aggressive e non c’era modo di prevedere quando avrebbero potuto rivoltarsi contro di te.

Camminare vicino alle forze dell’AP era come entrare in un campo minato. Un momento, c’era l’illusione di sicurezza, e quello dopo, ti trovavi di fronte alla brutalità di coloro che presumibilmente erano lì per proteggerti. Questa incertezza e tensione rendevano la loro presenza più terrificante che trovarsi su un campo di battaglia.

Anni dopo, avrei seguito le sessioni di addestramento delle Brigate Qassam sotto il ronzio costante dei droni israeliani e la minaccia incombente di attacchi aerei. Era pericoloso ma prevedibile, molto più delle azioni dell’AP.

Sotto l’AP, abbiamo imparato a parlare in codice. I giornalisti si autocensuravano per paura di ritorsioni. L’AP veniva spesso definita “cugina dell’occupazione israeliana”, un triste riconoscimento della sua complicità.

Mentre l’Autorità palestinese lottava per rimanere al potere a Gaza dopo aver perso le elezioni del 2006 a favore di Hamas, la sua brutalità si è inasprì. Nel maggio 2007, uomini armati in uniforme da guardia presidenziale uccisero il giornalista Suleiman Abdul-Rahim al-Ashi e l’operatore dei media Mohammad Matar Abdo. Si trattò di un’esecuzione destinata a inviare un chiaro messaggio a coloro che vi avevano assistito.

Quando Hamas ha preso il potere, anche il suo governo ha imposto restrizioni alla libertà di stampa, ma la sua censura era incoerente. Una volta, mentre documentavo la nuova divisione femminile della polizia, mi fu ordinato di mostrare le mie foto a un ufficiale di Hamas, in modo che potesse censurare qualsiasi immagine ritenuta non appropriata. Spesso sono riuscita ad aggirare queste restrizioni scambiando preventivamente le mie schede di memoria.

Gli ufficiali non vedevano di buon occhio chi si sottraeva ai loro ordini, ma invece di punire apertamente, ricorrevano a piccoli giochi di potere: indagini, revoca dell’accesso o inutili provocazioni. A differenza dell’AP, Hamas non operava all’interno di un sistema di coordinamento con le forze israeliane per reprimere il giornalismo, ma le restrizioni che i giornalisti dovevano affrontare creavano comunque un ambiente di incertezza e autocensura. Qualsiasi violazione da parte loro, tuttavia, è stata subito accolta da una rapida condanna internazionale, cosa che l’Autorità palestinese ha affrontato solo raramente, nonostante la sua repressione molto più sistematica.

Dopo aver perso il controllo di Gaza, l’Autorità palestinese ha spostato la sua attenzione sulla Cisgiordania, intensificando la campagna di repressione dei media. Detenzioni, misure violente e la messa a tacere delle voci critiche sono diventate la normalità. La loro collaborazione con Israele non era passiva, ma attiva. Dalla sorveglianza alle campagne di violenza, svolgono un ruolo cruciale nel mantenimento dello status quo, soffocando qualsiasi dissenso che metta in discussione il loro potere e l’occupazione.

Nel 2016, la collusione dell’Autorità palestinese è diventata ancora più evidente quando si è coordinata con le autorità israeliane nell’arresto di Omar Nazzal, giornalista di spicco e sostenitore della libertà di stampa, che aveva criticato Ramallah per il modo in cui aveva gestito il sospetto omicidio del cittadino palestinese Omar al-Naif presso la sua ambasciata in Bulgaria.

Nel 2017, l’Autorità Nazionale Palestinese ha lanciato una campagna di intimidazione, arrestando cinque giornalisti di diverse testate.

Nel 2019, l’Autorità Palestinese ha bloccato il sito web di Quds News Network, un media guidato dai giovani che ha guadagnato un’enorme popolarità. Ciò faceva parte di un divieto più ampio imposto dal tribunale di Ramallah che ha bloccato l’accesso ad altri 24 siti web di notizie e pagine di social media.

Nel 2021, dopo che la morte violenta dell’attivista Nizar Banat sotto la custodia dell’Autorità Nazionale Palestinese aveva scatenato proteste, le sue forze hanno cercato di reprimere i giornalisti e le testate che li coprivano.

In questo contesto, la prospettiva del ritorno dell’AP a Gaza dopo l’accordo di cessate il fuoco solleva serie preoccupazioni per i giornalisti che hanno già sopportato gli orrori del genocidio. Per coloro che sono sopravvissuti, ciò potrebbe significare un nuovo capitolo di repressione che riflette la storia di censura, arresti e soffocamento della libertà di stampa dell’AP.

Nonostante le gravi minacce che devono affrontare da parte di Israele e di coloro che fingono di rappresentare il popolo palestinese, i giornalisti palestinesi perseverano. Il loro lavoro oltrepassa i confini, riflettendo una lotta condivisa contro la tirannia. La loro resilienza parla non solo della causa palestinese, ma anche della lotta più ampia per la liberazione, la giustizia e la dignità.

Eman Mohammed è una pluripremiata fotoreporter palestinese-americana e Senior TED Fellow, attualmente residente a Washington, DC.

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org