Una delle caratteristiche più scioccanti della campagna di violenza di Israele durata 15 mesi contro la popolazione di Gaza è stato il rifiuto della classe politica statunitense, anche di fronte a prove crescenti, di definire Genocidio ciò che stava accadendo.
Fonte: English version
Di Jake Sonnenberg – 31 gennaio 2025
Immagine di copertina: Una vista aerea della distruzione dopo l’entrata in vigore dell’accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza il 21 gennaio 2025. (Mahmoud Sleem / Anadolu tramite Getty Images)
A fine novembre, poco dopo che gli Stati Uniti avevano iniziato a condannare la Corte Penale Internazionale per aver accusato alti dirigenti israeliani di Crimini di Guerra e Crimini contro l’Umanità per aver supervisionato il Genocidio dei palestinesi a Gaza, un giornalista ha posto al portavoce uscente del Dipartimento di Stato Matthew Miller una domanda illuminante: “Chi può giudicare Israele? Quale organizzazione al mondo può ritenere Israele responsabile di qualsiasi accusa?” Miller, il cui volto sorridente rappresenta per molti la sfacciataggine del sostegno dell’amministrazione Biden alle atrocità israeliane, ha deviato dal dare un giudizio: “Ognuno è in grado di trarre le proprie conclusioni”.
Nel sollevare e resistere alla possibilità di giudizio, lo scambio ha centrato nettamente una tendenza essenziale che ha permesso la prolungata e deliberata devastazione di Gaza da parte di Israele negli ultimi quindici mesi: il rifiuto quasi totale della classe politica americana di giudicare le questioni più basilari di giusto e sbagliato. L’incerto e atteso cessate il fuoco che sta entrando in vigore potrebbe finalmente porre fine all’incessante spettacolo di brutalità israeliane a Gaza commesse apertamente di fronte al mondo.
Per più di un anno, il rifiuto del giudizio è apparso come una posizione retorica sorprendentemente coerente tra i molti leader statunitensi che hanno chiesto a gran voce di armare, finanziare e fornire copertura diplomatica alle atrocità di massa ampiamente segnalate di Israele a Gaza. Già nel dicembre del 2023, dopo che due mesi di attacchi israeliani avevano già ucciso più di 14.000 palestinesi a un tasso di Massacri più alto che in qualsiasi altro conflitto recente nel mondo, un momento in cui il Presidente israeliano sosteneva che “questa retorica di civili inconsapevoli e non coinvolti non è vera” e gli studiosi di tutto il mondo mettevano in guardia dall’imminente rischio di Genocidio, Miller dichiarò, dal podio della Casa Bianca, che era “troppo presto per trarre una conclusione definitiva” sul fatto che Israele stesse proteggendo i civili.
A giugno, dopo che un attacco israeliano a una scuola nel campo profughi di Nuseirat aveva ucciso più di tre dozzine di persone, tra cui quattordici bambini, Miller fu ugualmente evasivo: “Non voglio dare giudizi prematuri”. A ottobre, lo stesso mese in cui un gruppo militare israeliano dichiarò apertamente che “il nostro compito è radere al suolo Gaza”, ebbe poco da dire sul perché gli Stati Uniti non avessero ancora nuove informazioni o commenti riguardo all’uccisione da parte di Israele, probabilmente con un’arma fornita dagli USA, della bambina di sei anni Hind Rijab, della sua famiglia e dei paramedici che cercavano di salvarla dopo nove mesi di indagini farsa. Miller rispose solo dicendo che “non siamo nella posizione di giudicare in via definitiva”.
Quasi nessuno al governo, nemmeno Miller, è stato disposto a trarre conclusioni su una campagna militare attivamente sostenuta da quasi 20 miliardi di dollari (19,3 miliardi di euro) di armi e altri aiuti statunitensi dal 7 ottobre 2023. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan, ha chiesto alla CNN all’inizio dell’invasione se Israele stesse usando la generosità americana in conformità con il Diritto Umanitario Internazionale: “Non starò qui seduto a fare il giudice o la giuria”. John Kirby, l’ex Portavoce della Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, ha affermato il mese successivo: “Non giudicheremo in termini di giudice e giuria”. In un rapporto di maggio al Congresso, apparentemente per determinare se gli usi israeliani di armi americane fossero conformi alla legge statunitense vigente, l’amministrazione Biden si è dichiarata libera di continuare a trasferire armi perché “non era in grado di raggiungere conclusioni definitive”. Lo scorso settembre, è stato rivelato che il Segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, si era assolto dall’obbligo di rispondere alla determinazione di più agenzie statunitensi secondo cui la continua fornitura di armi a Israele violava la legge statunitense, sostenendo che se Israele stesse interferendo con la consegna di aiuti umanitari ai palestinesi era qualcosa che i decisori del Dipartimento di Stato “attualmente non valutano”. Pur non trovando prove di violazione della legge, Blinken non ha nemmeno dichiarato di rispettarla. Questa non conclusione, ci ha rassicurato in seguito, è “in realtà piuttosto tipica”. Lì, almeno, non si sbagliava.
Nella forma passiva che è arrivata a caratterizzare le narrazioni liberali sulle atrocità israeliane, anche i legislatori hanno tergiversato con preoccupazione mentre inviavano denaro e armi ad Israele. Prendiamo come esempio il mio ex capo, il Senatore Michael Bennet. Poche settimane dopo aver votato personalmente per inviare altri 14,1 miliardi di dollari (13,6 miliardi di euro) al Regime di Netanyahu, per sospendere in modo permanente i fondi all’agenzia principale incaricata di fornire aiuti umanitari ai palestinesi deliberatamente affamati di Gaza e per bloccare un’indagine non vincolante per stabilire se l’uso da parte di Israele di armi fornite dagli Stati Uniti contro quei civili espropriati fosse conforme alle leggi statunitensi esistenti, Bennet è andato in televisione per sostenere un altro ciclo di trasferimenti di armi a Israele.
Sulla questione se il governo di Benjamin Netanyahu avrebbe distribuito quelle armi in linea anche con le norme più basilari sui diritti umani, Bennet non ha voluto dire nulla, offrendo la sua formulazione del rifiuto di giudicare: “Non mi è chiaro”. Lo stesso mese, May Golan, la Ministra per l’Uguaglianza Sociale e l’Avanzamento delle Donne israeliana, ha detto al mondo di essere “personalmente orgogliosa delle rovine di Gaza”. Nonostante le varie proteste, Bennet, insieme a quasi tutti i suoi colleghi, aveva abbastanza certezza da votare più e più volte contro la volontà del popolo americano di fornire armamenti a uno Stato di Apartheid che mesi fa era quasi universalmente noto per aver usato quelle stesse armi per perpetrare un Genocidio.
La serie di evasive elusioni e vaghe tergiversazioni riguardo alla violenza israeliana sostenuta dagli Stati Uniti, evidentemente spregevole, equivale a un’abdicazione di responsabilità molto più pesante dell’ipocrisia. Per ben oltre un anno, il rifiuto di giudicare ha rinviato indefinitamente la possibilità di trarre conclusioni indesiderate da prove scomode e, attraverso quella preclusione di alternative, ha costituito un ingrediente essenziale nella perpetuazione di un Genocidio, la cui portata orribile diventerà solo più chiara quando i palestinesi sfollati torneranno alle loro case distrutte in tutta Gaza.
Permesso di Narrare
Quarant’anni fa, la questione del giudizio in Palestina fu sollevata in modo diverso da Edward Said nel suo saggio “Permesso di Narrare”, pubblicato all’indomani dell’invasione del Libano del 1982, intrisa di atrocità da parte di Israele. Meditando notoriamente su come “i fatti non parlino affatto da soli”, l’interesse di Said, nel recensire diverse opere pubblicate sull’offensiva, era in parte quello di sollevare la questione di come ampie prove di atrocità possano così completamente fallire nell’influenzare le interpretazioni dominanti. “Cosa rende possibile”, si chiedeva riguardo alla Palestina, “per noi esseri umani affrontare i fatti, crearne di nuovi o ignorarne alcuni e concentrarci su altri?”.
Said trovò una risposta nel rifiuto pervasivo in Occidente di narrare “dal punto di vista di un palestinese”. Spiegò questo come una riluttanza a situare i fatti all’interno di una comprensione di come i palestinesi incontrano il Sionismo. Per rappresentare gli eventi in questo modo ora sarebbe necessario tenere conto sia del contesto storico del Dominio Coloniale, della Pulizia Etnica e del Genocidio, sia del livello di esperienza individuale, la semplice umanità raramente rappresentata nei media o nella politica occidentali. La sua argomentazione, come ha spiegato Mary Turfah l’anno scorso in un articolo per la rivista Protean, “era che i palestinesi dovrebbero essere inquadrati come combattenti”.
Nei corridoi di Washington e nelle cronache dei media occidentali, i fatti hanno ancora una volta fallito nel parlare da soli, deliberatamente oscurati da qualche parte tra l’accadimento e la comprensione, mentre il divario tra la realtà e la narrazione ufficiale si è ampliato sempre di più. Questa disconnessione è stata aiutata da così tanti giudizi non dichiarati che si rifiutano di concedere ai palestinesi un semplice intervento umanitario: la tacita valutazione che i Massacri denunciati da coloro che si trovano a Gaza non possono essere ciò che sembrano, la cauta valutazione che le richieste di sicurezza devono essere minacce per gli israeliani, la conclusione sospetta che gli arabi che denunciano la propria persecuzione potrebbero non dire la verità. In combinazione con l’impaziente volontà di ripetere anche la propaganda israeliana ampiamente screditata, il rifiuto pervasivo di giudicare le atrocità in corso è un netto ripudio delle stesse persone sottoposte a una brutalità spaventosa.
Vista in questa luce, la distanza tra giudizio e narrazione inizia a crollare, contribuendo a chiarire la funzione cruciale svolta dal rifiuto di così tante persone di giudicare i propri contributi alle atrocità israeliane sostenute dagli Stati Uniti. Le profonde bugie politiche, come la finzione che non sia chiaro cosa abbia fatto Israele con il sostegno americano a Gaza, spesso richiedono ciò che Hannah Arendt, riflettendo su questioni simili a quelle di Said, una volta chiamò “la creazione di un’altra realtà” per accoglierle. Oltre all’autoconservazione, questo è il progetto in cui coloro che così ostinatamente si riservano il giudizio sono stati impegnati per così tanti mesi. Il punto non è mai stato quello di sollevare questioni a cui in seguito verrà data risposta, ma piuttosto di mantenere l’artificio necessario per continuare a fare ciò che era già stato deciso. Naturalmente, l’assurda costruzione è una finzione, ma è anche la sua stessa forma di narrazione.
In tempo reale
Uno dei grandi orrori del Genocidio a Gaza è da tempo la sua narrazione in tempo reale da parte dei palestinesi che affrontano la nuda brutalità dell’Imperialismo Occidentale. “È come se stessimo guardando Auschwitz su TikTok”, ha osservato a ottobre il medico e sopravvissuto all’Olocausto Gabor Maté. Uno dei narratori palestinesi più coerenti di questo terrore nei mesi precedenti al recente cessate il fuoco è stato un altro medico, Hussam Abu Safiya, i cui dispacci da Gaza forniscono un chiaro esempio dell’Umanità palestinese negata attraverso il rifiuto di giudicare e agire contro l’atrocità.
Pediatra di formazione, il dottor Abu Safiya è il direttore dell’Ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia. Insieme a tutti gli altri ospedali nelle vicinanze, Kamal Adwan è stato ripetutamente bombardato e invaso dalle forze israeliane sostenute dagli Stati Uniti che perseguivano una Campagna di Carestia e Pulizia Etnica dichiarata pubblicamente per far posto alla costruzione pianificata di insediamenti israeliani nel Nord di Gaza, un “Genocidio nel Genocidio” nelle parole dell’inviato palestinese delle Nazioni Unite. Sebbene proibito dai termini dell’accordo di cessate il fuoco, i leader israeliani continuano a dichiarare apertamente la loro intenzione di mantenere il controllo di gran parte di quest’area.
Rispetto a una popolazione originaria di diverse centinaia di migliaia di persone, a un certo punto si stimava che nell’enclave decimata vivessero meno di 50.000 palestinesi. Per mesi, Israele ha bloccato l’ingresso di quasi tutto il cibo, il carburante, l’acqua e le medicine nell’area e ha ridotto in macerie vasti quartieri. Un residente di Beit Lahia, Said Kilani, ha riassunto chiaramente la situazione: “Tutto è stato distrutto per costringere la gente ad andarsene”.
A partire da ottobre, il dottor Abu Safiya ha iniziato a pubblicare video quasi quotidiani sulla situazione all’Ospedale Kamal Adwan, offrendo un’illustrazione contemporanea di come il rifiuto occidentale di giudicare le atrocità di massa funzionasse come un rifiuto diretto delle narrazioni palestinesi. Le conseguenze materiali di tale rifiuto erano in primo piano nei dispacci senza risposta del dottor Abu Safiya dal suo ospedale assediato.
“Abbiamo fatto appelli di soccorso a tutte le organizzazioni internazionali, alla comunità internazionale, alle organizzazioni per i diritti umani e alla Croce Rossa”, ha riferito all’inizio di novembre, indossando camici da ospedale e un camice bianco da medico a più di un mese dall’inizio dell’assedio israeliano. “Purtroppo, fino a questo momento, non abbiamo assistito a nessuna svolta”. Dopo un flusso costante di richieste senza risposta di protezione e di consegna di cibo, acqua e forniture mediche, ha riferito più o meno la stessa cosa in un dispaccio della vigilia di Natale, in cui le esplosioni scuotono l’ospedale mentre parla: “Veniamo uccisi ogni giorno. Ci stiamo avvicinando agli ottanta giorni di assedio e continuiamo a fare appello al mondo, ma sta cadendo nel vuoto”.
Tre giorni dopo, mentre gli americani celebravano le festività, le forze israeliane fornite dagli Stati Uniti hanno preso d’assalto l’ospedale per la terza volta, perquisendo e picchiando pazienti e operatori sanitari. Decine di persone sono state rapite, tra cui il dottor Abu Safiya, che è stato portato in un campo di prigionia israeliano noto per Torture e Violenze Sessuali. Kamal Adwan è stato dato alle fiamme dalle Forze di Difesa Israeliane; nel frattempo, Israele ha rassicurato il mondo che i pazienti instabili potevano essere evacuati in un altro ospedale nelle vicinanze. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la struttura a cui Israele indirizzava i pazienti era già “distrutta e non funzionante”.
Più di un anno fa, un gruppo di medici ha parlato al mondo dal parcheggio dell’Ospedale Arabo Al-Ahli a Gaza, avvertendo che il rifiuto dell’Occidente di giudicare le atrocità israeliane si sarebbe rivelato un meccanismo chiave che avrebbe consentito il loro ripetersi. Parlando in inglese da dietro un podio circondato dai corpi dei morti, il dottor Ghassan Abu-Sittah, un chirurgo palestinese britannico che faceva volontariato presso l’ospedale con Medici Senza Frontiere, ha spiegato direttamente la connessione tra il giudizio pubblico, il mantenimento della narrazione e l’abilitazione dell’atrocità: “Israele ha avvertito il mondo intero che avrebbe attaccato gli ospedali palestinesi, e ha fatto esattamente questo. Se gli israeliani la faranno franca di nuovo, allora verranno commessi altri Crimini di Guerra e verranno presi di mira altri ospedali”.
Da quella conferenza stampa, la distruzione sistematica del sistema medico di Gaza da parte di Israele è diventata una caratteristica distintiva e strumentale del Genocidio e un esempio paradigmatico di come il rifiuto di giudicare funzioni non come neutralità ma come approvazione. Per oltre un anno, gli operatori sanitari di Gaza, Libano e Cisgiordania che si prendevano cura dei malati e dei feriti sotto i continui bombardamenti israeliani hanno condiviso le loro esperienze devastanti senza risparmio. I loro resoconti sono stati compilati, esaminati, interrogati, avvalorati e presentati al mondo più e più volte: fosse comuni nei cortili degli ospedali; corpi trovati “con cateteri e cannule ancora attaccati”; attacchi di cecchini a infermieri, bambini, dottori e pazienti; ambulanze bombardate; operatori umanitari assassinati; pazienti e personale medico rastrellati in arresti di massa.
Israele ha ucciso più di mille operatori sanitari palestinesi, molti in assassinii mirati. Diversi medici sono stati torturati e uccisi nei campi di prigionia israeliani e molti sono ancora detenuti. A ottobre, uno studente di ingegneria diciannovenne, Shaban al-Dalou, è stato bruciato vivo nel suo letto d’ospedale mentre era ancora attaccato alla flebo, mentre si stava riprendendo dalle ferite riportate in un precedente bombardamento. In una sola settimana all’inizio del nuovo anno, almeno sei bambini affamati e sfollati nella parte settentrionale e centrale di Gaza sono morti assiderati al freddo.
Leggere queste testimonianze, esaminare questo panorama di distruzione e rifiutarsi di accettarne la realtà non è neutralità. È semplice negazione. “La negazione è probabilmente l’opposto del riconoscimento”, ha affermato la scrittrice Isabella Hammad in una conferenza sulla narrativa e la Palestina pochi giorni prima degli attacchi del 7 ottobre. “Ma anche la negazione si basa su una sorta di conoscenza. Un’intenzionale svolta da una conoscenza devastante…” Quel rifiuto è una forma di narrazione e di azione in sé, una tendenza abbastanza comune nella Storia del Genocidio da essere una componente riconosciuta del Crimine con un nome tutto suo: Negazione dell’Atrocità.
I colpevoli si rivelano
Il fatto che la costruzione della narrazione, l’elevazione di alcune storie e non di altre, la ripetizione di alcuni fatti o bugie e l’ignoranza deliberata di altre, implichi un grado non trascurabile di giudizio, pone un problema per quegli americani che hanno subito il Genocidio a Gaza: la realtà che si è palesata davanti al mondo chiaramente non si conforma alla loro narrazione preferita. Una delle persone più direttamente implicate nella fornitura di armi americane a Israele, l’ex Segretario di Stato Antony Blinken, è stato vicino ad ammetterlo in un’intervista di fine mandato con il New York Times a gennaio, appena prima che venisse annunciato il recente cessate il fuoco.
Alla domanda se fosse preoccupato di aver presieduto a quello che il mondo presto considererà un Genocidio, ha tratto una conclusione rara: “No, non lo è”, sebbene non abbia offerto alcuna spiegazione per questa dichiarazione, che contraddice la valutazione della società civile palestinese, di Amnesty International, del Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani, di Human Rights Watch, dell’Istituto per la Prevenzione del Genocidio e la Sicurezza Umana, di numerosi esperti delle Nazioni Unite e di molte decine di studiosi del Genocidio. Per quanto riguarda il giudizio del resto del mondo, Blinken ha ammesso: “Non posso rispondere completamente. Ognuno deve guardare i fatti e trarre le proprie conclusioni da quei fatti”. In una lezione tenutasi quasi sessant’anni fa, Hanna Arendt ha avvertito che “dietro la riluttanza a giudicare si nasconde il dubbio che qualcuno sia responsabile o che ci si possa aspettare che debba rispondere per ciò che ha fatto”. Accanto all’indifferenza, ha individuato la modalità più pericolosa di disimpegno morale nella “tendenza diffusa a rifiutarsi di giudicare del tutto”, un difetto che ha identificato tra coloro che hanno perpetrato i Grandi Crimini del ventesimo secolo:
Dalla riluttanza o incapacità di scegliere i propri esempi e il proprio gruppo, e di relazionarsi con gli altri attraverso il giudizio, sorgono i veri skandala, i veri ostacoli che i poteri umani non possono rimuovere perché non sono stati causati da motivazioni umane e umanamente comprensibili. In ciò risiede l’Orrore e, allo stesso tempo, la Banalità del Male.
La famosa costruzione di Arendt della “Banalità del Male” è spesso recitata come un avvertimento che le persone comuni possono commettere Grandi Crimini, ma era anche un monito che l’atrocità di massa è possibile solo quando l’incapacità di pensare e giudicare diventa comune. Di conseguenza, è stata in grado di identificare il grande male lontano dai luoghi della violenza fisica, in atti commessi da “malfattori che si rifiutano di pensare da soli a ciò che stanno facendo e che si rifiutano anche a posteriori di pensarci”. È stato nella resistenza a trarre conclusioni e ad agire di conseguenza che ha trovato un crollo nella vita etica e politica che non poteva essere perdonato.
Le circostanze odierne sono diverse, ma in coloro che hanno fornito supporto materiale al Genocidio dei palestinesi da parte di Israele, rifiutandosi di giudicare ciò che le loro azioni hanno provocato, c’è più di un’eco dei grandi criminali della vita di Arendt. Rinunciando alla responsabilità di giudicare il bene e il male, i nostri politici e i supplicanti che li sostengono possono sperare, come gli assassini sconsiderati dei secoli passati, di far sembrare che quando la febbre finalmente si placa “non ci sia più nessuno da punire o perdonare”. Allora come oggi, però, nei loro disperati sforzi di oscurare la relazione tra le proprie azioni e l’atrocità di massa, i colpevoli rivelano solo se stessi.
Jake Sonnenberg è un medico residente in California.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org