L’Occidente, sia come “cattivi” che come “buoni”, insiste nel vedere i palestinesi come estranei, da espellere del tutto da Gaza o da trattare come persone senza alcun contributo rilevante, nessuna esperienza degna e nessuna capacità di azione.
Fonte: English version
Di Ramzy Baroud – 25 febbraio 2025Immagine di copertina: I palestinesi sono fuori dalla loro casa, colpita da un attacco aereo israeliano, Beit Lahiya, Gaza, 21 febbraio 2025. (AP Photo)
Abbiamo sostenuto a lungo che la guerra e il Genocidio israeliani a Gaza devono catalizzare un cambiamento nel dibattito politico generale su Israele e Palestina, in particolare per quanto riguarda la necessità di liberare la Palestina dai confini della vittimizzazione. Questo cambiamento è necessario per creare uno spazio in cui il popolo palestinese sia visto come centrale nella propria lotta.
È un peccato che mettere al centro una nazione in un dialogo sulla propria libertà dal Colonialismo e dall’Occupazione Militare richieda anni di sensibilizzazione. Ma questa è la realtà che i palestinesi affrontano, spesso a causa di circostanze ben al di fuori del loro controllo.
Per quanto scandalosi fossero i commenti del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulla presa di Gaza, erano un’interpretazione grossolana di una cultura esistente che vede i palestinesi come attori marginali nella loro stessa storia. Mentre le precedenti amministrazioni statunitensi e i loro alleati occidentali non hanno usato un linguaggio così sfacciato come Trump, hanno trattato i palestinesi come irrilevanti per il modo in cui l’Occidente percepiva la “soluzione” al “conflitto”, un linguaggio che raramente rispettava le leggi internazionali e umanitarie.
Per molti intellettuali palestinesi, la lotta per la giustizia è stata combattuta su due fronti: uno per sfidare le idee sbagliate globali sulla Palestina e il popolo palestinese, e l’altro per rivendicare la narrazione nel suo insieme.
Di recente, ho sostenuto che rivendicare la narrazione concentrandosi sulle voci palestinesi non è sufficiente. Molti di questi palestinesi presumibilmente “autentici” non rappresentano le aspirazioni collettive del popolo palestinese.
Questa argomentazione risponde all’esposizione occidentale di certi tipi di palestinesi le cui narrazioni non sfidano direttamente la complicità occidentale nell’Occupazione e nella guerra israeliane. Queste voci spesso si concentrano sull’evidenziazione della componente di vittimizzazione del “conflitto”, spesso indicando che “entrambe le parti” dovrebbero essere supportate allo stesso modo, o biasimate.
Ecco perché è stato rincuorante parlare con l’iconico medico norvegese di medicina d’urgenza Mads Gilbert, che sta lottando per decolonizzare il concetto di solidarietà in medicina e, per estensione, la solidarietà occidentale nel suo complesso. Gilbert ha trascorso gran parte della sua carriera lavorando a Gaza, così come tra i medici e le comunità palestinesi in Cisgiordania e in Libano. Dall’inizio dell’ultima guerra, è rimasto una delle voci più instancabili nell’esporre il Genocidio israeliano nella Striscia.
La nostra conversazione ha toccato molti argomenti, tra cui un termine da lui coniato: “solidarietà basata sulle prove”. Questo concetto applica la pratica basata sulle prove in medicina a tutti gli aspetti della solidarietà, sia all’interno che all’esterno della Palestina. Ciò significa che la solidarietà diventa più significativa quando è supportata dal tipo di informazione che garantisce che il supporto faccia più bene che male.
Un buon esempio è stata la sua spiegazione dell’ospedale da campo come strategia per far fronte alle crisi provocate dall’uomo, come il Genocidio a Gaza. La nostra discussione ha elaborato un articolo scritto da Gilbert e dai suoi colleghi, pubblicato questo mese sulla rivista medica BioMed Central, intitolato; “Realizzare la Giustizia Sanitaria in Palestina: Oltre le Voci Umanitarie”.
L’articolo era una risposta critica a un altro pezzo, pubblicato lo scorso maggio da Karl Blanchet e altri, intitolato: “Ricostruire il Settore Sanitario a Gaza: Voci Umanitarie Alternative”. Gilbert ha trovato l’articolo originale riduttivo perché non riconosceva che la crisi a Gaza era “interamente creata” e trascurava la centralità delle “prospettive palestinesi”.
Questa conversazione può sembrare retorica finché non viene inserita nel suo contesto pratico. Secondo Gilbert, gli ospedali da campo, che potrebbero essere visti come l’atto di solidarietà per eccellenza, spesso esauriscono le risorse locali e aggravano le sfide che l’assistenza sanitaria palestinese deve affrontare.
Ha sottolineato come l’istituzione di queste strutture temporanee gestite da stranieri possa contribuire a una “fuga di cervelli”, e contemporaneamente esaurire il sistema sanitario locale creando strutture parallele che, nonostante siano ben finanziate, non si integrano con il sistema locale.
Secondo Gilbert, questi sforzi distolgono risorse critiche dall’urgente compito di ricostruire e ripristinare gli ospedali palestinesi e di fornire salari equi per gli operatori sanitari dedicati (dottori, infermieri, paramedici e ostetriche) che sono parte integrante dell’infrastruttura medica locale.
Deve essere frustrante per i medici palestinesi, centinaia dei quali sono stati uccisi nel Genocidio israeliano a Gaza, vedere altri discutere di come aiutare Gaza senza riconoscere il ruolo fondamentale del Ministero della Sanità palestinese e degli ospedali e delle cliniche locali. Non riescono a riconoscere l’esperienza senza pari, per non parlare della Resilienza, della comunità medica di Gaza, che ha dimostrato di essere una delle più tenaci e intraprendenti al mondo.
Questa è la manifestazione di un problema molto più ampio: l’Occidente, sia come “cattivi” che come “buoni”, insiste nel vedere i palestinesi come estranei, da espellere del tutto da Gaza o da trattare come persone senza alcun contributo rilevante, nessuna esperienza degna e nessuna capacità di azione.
Molti spesso pensano questo, mentre presumono di aiutare i palestinesi.
Ma questo Genocidio dovrebbe servire da punto di svolta affinché queste conversazioni escano dall’ambito accademico ed entrino nella sfera pubblica, dove la centralità dell’esperienza palestinese veramente rappresentativa diventa l’elemento base per qualsiasi proposta, piano, soluzione o persino solidarietà esterna. Per quanto riguarda quest’ultima, decolonizzare la solidarietà è ora un compito urgente. Non c’è tempo da perdere quando è in gioco l’esistenza stessa dei palestinesi nella loro terra storica.
Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
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