Tutti gli stati nazionali hanno bisogno di una mitologia fondante e legittimante: una narrazione storica egemonica, per sostenerli
Fonte: English version
Di Roger Markwick – 23 marzo 2025
Immagine di copertina: La Knesset è l’assemblea legislativa nazionale unicamerale di Israele. In quanto ramo legislativo del governo israeliano, la Knesset approva tutte le leggi, elegge il Presidente e il Primo Ministro. Contributor: World History Archive / Alamy Stock Photo ID immagine: 2YRYD43
C’è una crudele ironia storica nella guerra genocida di Israele contro i palestinesi assediati a Gaza e in Cisgiordania: la brutale repressione del ghetto di Varsavia da parte dei nazisti nel 1943 fu uno degli episodi più tragici del genocidio perpetrato contro gli ebrei europei durante la seconda guerra mondiale.
Eppure lo stato ebraico invoca l’Olocausto, il tropo moralmente più potente dei tempi moderni, per legittimare la sua formazione come stato coloniale europeo e quindi la sua violenta espropriazione del popolo palestinese nel 1947-1949, “pulizia etnica” (Ilan Pappe) che ha accelerato dal 7 ottobre 2023. L’invocazione dell’Olocausto da parte di Israele impedisce la critica della sua implacabile espropriazione degli abitanti indigeni della Palestina storica. La questione, ovviamente, non è il fatto dell’Olocausto, ma la sua rappresentazione e manipolazione.
Narrazione nazionale
Tutti gli stati nazionali hanno bisogno di una mitologia fondante e legittimante: una narrazione storica egemonica, per sostenerli. Come ha osservato il defunto Edward Said, la memoria nazionale, spesso, è stata “inventata”. Nel caso di Israele, le circostanze della sua nascita, sulla scia del catastrofico “giudeocidio” (Arno Mayer), e la natura carica di tensione dell’impresa statale coloniale-coloniale sionista, hanno innescato la più esplosiva collisione di esperienze e memoria pubblica: una egemonica, l’altra subalterna: l'”Olocausto” ebraico contro la “Nakba” (catastrofe) palestinese.
Come tutti gli stati colonialisti, la conquista di terre da parte di Israele per definizione lo ha messo su una rotta di collisione “eliminazionista” (Patrick Wolfe) con gli abitanti indigeni palestinesi. La narrazione dell’Olocausto è diventata così potente e sacralizzata che, fino al 7 ottobre 2023, pochi avrebbero criticato anche le più palesi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale da parte di Israele, dal massacro di Deir Yassin del 1947 alla decimazione di Gaza, per paura di essere accusati di “antisemitismo”. L’autocensura è un’arma potente.
Da “Shoah” a “Olocausto”
Sorprendentemente, nonostante i sopravvissuti all’Olocausto abbiano avuto un ruolo di primo piano nella fondazione di Israele, la “Shoah” (Catastrofe) è stata raramente invocata dai sionisti come giustificazione per la divisione della Palestina e la proclamazione di Israele. Il primo primo ministro di Israele, il “sionista combattente” David Ben Gurion, ha preferito dimenticare l’Olocausto.
Eppure fu Ben Gurion a resuscitare la memoria dell’Olocausto orchestrando il rapimento e il processo di Adolf Eichmann nel 1960 come “simbolo della sovranità e del potere rivendicati da Israele”, diretti in prima istanza contro l’emergente nazionalismo nasseriano dell’Egitto. Per Ben Gurion, il presidente Gamal Nasser suonava “come Hitler”; un’equazione con il nazismo che turbò la filosofa politica Hannah Arendt. “Mai più!” divenne la parola d’ordine della coscienza ebraica e il termine “Olocausto” iniziò a sostituire l’ebraico “Shoah” (Jon Petrie).
Sette anni dopo, il potere della memoria dell’Olocausto risorta fu mobilitato nella guerra dei sei giorni del giugno 1967; una vittoria militare redentrice che stimolò la strumentalizzazione politica dell'”Olocausto” come arma retorica, brandita con particolare forza contro Yasser Arafat e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, mentre due milioni di palestinesi finirono sotto il diretto dominio militare israeliano. Durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, il primo ministro Menachem Begin paragonò Arafat a Hitler e il Patto nazionale palestinese (1968) al Mein Kampf . Gli anni del governo del Likud (1977-1992) costruirono l’Olocausto come un “pilastro fondamentale dell’identità israeliana” (Robert Wistrich). Si dice che la ragione per cui un estremista sionista abbia voluto evitare un altro annientamento degli ebrei e il tradimento di Eretz Israel sia stata quella di assassinare il primo ministro laburista Yitzhak Rabin dopo aver firmato gli accordi di Oslo del 1993 con l’OLP.
Ma l’Olocausto, in quanto memoria collettiva, non si è solo radicato nella coscienza politica israeliana; è penetrato sempre di più nella coscienza politica internazionale, anzi ha assunto un posto centrale nella vita politica degli alleati di Israele, in particolare degli Stati Uniti. La Guerra dei sei giorni e ancor di più la Guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973 sono stati punti di svolta nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele, poiché quest’ultimo si è sempre più alleato con la proiezione di potenza di Washington in Medio Oriente. Questa partnership si è riflessa discorsivamente nell’adozione del termine “Olocausto” a livello internazionale come riferimento esclusivo al giudeocidio.
Gli anni 1978-1979, sotto l’amministrazione Carter, hanno sancito il predominio terminologico di “The Holocaust” nella vita politica americana, con la proiezione nel 1978 dell’omonima miniserie, immediatamente seguita dall’ordine esecutivo di Carter del 1979 che autorizzava la costruzione dello United States Holocaust Memorial Museum, che il presidente Clinton aprì nel 1993. Nello stesso anno vide l’uscita del fenomenale film di Stephen Spielberg Schindler’s List , che servì a cementare la “coscienza dell’Olocausto” nel discorso politico americano e, in ultima analisi, occidentale. Questo straordinario fenomeno, per cui un genocidio perpetrato nell’Europa nazista potrebbe diventare non solo l’asse dell’identità israeliana, ma anche centrale nella vita politica americana, ha funzionato come un potente sostegno ideologico per lo stato israeliano nel cuore del suo principale finanziatore e armaiolo.
Fascismo israeliano?
È chiaro che l’Olocausto è arrivato a occupare un posto centrale nella ragion d’essere dello stato israeliano. Ma quello stato ha anche raggiunto una crisi nella sua sottomissione dei palestinesi. La pulizia etnica su cui è stato fondato Israele è stata al centro di Israele come stato coloniale-colonialista: intrinsecamente militarista e inesorabilmente espansionista, il suo assalto genocida al ghetto di Gaza assediato è solo l’ultima incarnazione del suo incessante e violento esproprio degli abitanti aborigeni della Palestina, messi da parte da insediamenti illegali “fatti sul campo”, per creare uno stato ebraico etnicamente puro, protetto da un “muro di ferro”.
In Cisgiordania e nella striscia di Gaza, Israele ha esercitato quella che è stata ritenuta la “forma più compiuta” di “occupazione coloniale tardo-moderna”: una “concatenazione di molteplici poteri: disciplinare, biopolitico e necropolitico” che assicurano il “dominio assoluto” di Israele sui palestinesi (Achille Mbembe). Riconosciuto nel luglio 2024 come “responsabile dell’apartheid” dalla Corte internazionale di giustizia, Israele minaccia di trasformarsi in qualcosa di ancora più sinistro. Il defunto attivista per la pace israeliano Uri Avnery ha considerato con trepidazione: “la possibilità che un ‘partito nazista ebraico salga al potere in Israele”. La prospettiva del fascismo potrebbe sembrare impossibile data la centralità della narrazione dell’Olocausto per lo stato israeliano, ma il razzismo sterminazionista del regime di Netanyahu suggerisce il contrario (Alberto Toscano).
Il dott. Roger Markwick è professore onorario di storia europea moderna presso l’Università di Newcastle, Australia. Questo articolo è una versione condensata e aggiornata di un documento presentato alla seconda conferenza “BDS – Driving Global Justice for Palestine”, presso l’Università di Sydney, luglio 2020.
Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org