Furto a mano armata: la politica dell’esercito israeliano in Cisgiordania

Il ben noto video del soldato israeliano che strangola un ragazzo di 12 anni mostra solo uno dei modi in cui l’esercito terrorizza i residenti dei villaggi palestinesi per rubare la loro terra.

 

Palestinians fight to free a Palestinian boy held by an Israeli soldier during clashes on August 28, 2015 in the West Bank village of Nabi Saleh.AFP
Palestinians fight to free a Palestinian boy held by an Israeli soldier during clashes on August 28, 2015 in the West Bank village of Nabi Saleh.AFP

Di Amira Hass, 2 settembre 2015-09-05

Il soldato che la settimana scorsa ha preso per il collo il dodicenne Mohammad Tamimi fa parte dell’organizzazione che attua e garantisce il continuo furto di terra a Nabi Saleh, utilizzando diversi metodi per terrorizzare i residenti. Non è il primo e non è l’ultimo; il furto a mano armata non è perpetrato solamente sulle terre di questo villaggio, e la sorgente d’acqua a Nabi Saleh non è la sola in Cisgiordania ad essere stata sottratta dai coloni ebrei.

Gli elogi che il soldato ha ricevuto da suo padre e dai media per la “moderazione” che ha dimostrato, ci insegna qualcosa su ciò che è accaduto alla società israeliana. Agli occhi della società israeliana, il comportamento coraggioso di un civile di fronte ad un soldato armato è ribellione. Per la società israeliana un’uniforme ed una carta di identità militare sono una giustificazione a priori per sparare, insultare ed uccidere civili, compresi i bambini. L’eccezione degna di nota (sia in termini positivi che negativi) è colui che “mostra moderazione”.

Per il bene del soldato e della sua famiglia dobbiamo sperare che sia stata una decisione di essersi trattenuto dallo schiacciare il grilletto del suo fucile sia stata dettata dalla coscienza e che non siano state le tante macchine fotografiche intorno a lui che lo hanno indotto a ciò. Nariman Tamimi, che, come qualunque altra madre normale ha lottato con lui usando le proprie mani per liberare suo figlio, ha visto anche nel soldato un ragazzo, ed ha provato pena per lui. Il padre, Bassem Tamimi, che ha visto il soldato afferrare suo figlio e strangolarlo, riguardo alla teoria della moderazione ha detto che è “la prova che chiunque rimane inorridito dalla disumanità.” Perciò (il padre del soldato) cerca di presentare il comportamento del figlio come l’opposto di ciò che è – violenza.”

E’ stato Tamimi a chiamare l’ufficiale perché venisse a liberare il soldato, e lo tirasse fuori dal pantano in cui la politica del furto a mano armata lo aveva cacciato. Il padre palestinese era preoccupato per la vita di suo figlio e nello stesso tempo si preoccupava della salvezza del soldato. Non voleva che qualcuno dei giovani arrabbiati del villaggio cercasse di colpire il soldato che era, in quel momento, il punto più debole di quella stessa organizzazione armata.

E’ stato evidentemente il colore biondo dei capelli della famiglia a risvegliare la memoria dei media israeliani, che hanno ricordato che la sorella, la quattordicenne Ahed, aveva già in precedenza “fronteggiato” i soldati. Allora essi avevano arrestato il suo fratello maggiore e le sue grida e le sue urla non avevano potuto farlo liberare. Gli israeliani vedono una serialità (un sinonimo di criminalità) nelle azioni della famiglia. Gli israeliani hanno gli occhi, ma non riescono a vedere la vera serialità criminale nel furto della sorgente d’acqua e della terra a beneficio della colonia “Halamish”, e nel divieto che impedisce al villaggio di costruire su gran parte dei suoi terreni.

I media israeliani si sono stati ampiamente a disquisire sul fatto che il ragazzo abbia lanciato o meno delle pietre. “Non capisco”, ha detto Ahed, che è abituata ai giornalisti che non smettono di guardare i suoi riccioli biondi. “Una pietra è violenza e un fucile non lo è?”

Se non ci fossero furti di terra né coloni-padroni, non ci sarebbe bisogno di un fucile per permettere alle colonie di nascere ed espandersi, mentre l’Amministrazione Civile dell’esercito israeliano sparge a piene mani ordini di demolizione e di interruzione lavori di costruzione per le case nel villaggio palestinese sul cui terreno le colonie sono costruite. E se non ci fossero fucili e soldati che impediscono l’accesso alla sorgente, non ci sarebbero pietre. Davvero semplice, proprio come sembra.

Il vero problema non sono le pietre, ma il fatto che il peso di fare manifestazioni, lo stesso semplice e determinato memento settimanale che il furto a mano armata continua, stia sulle spalle di così poche persone. Gli assalti alle loro case, gli arresti, i gas lacrimogeni, la paura di essere feriti ed uccisi hanno il loro prezzo, ha detto Nariman, che circa quattro anni fa ha perso suo fratello (un poliziotto palestinese, che tra l’altro non aveva tirato pietre né sparato): un soldato israeliano lo ha colpito alla schiena uccidendolo.

Durante la manifestazione in sua memoria, un soldato le ha sparato con un proiettile vero ferendola gravemente ad una gamba, mentre stava filmando. Lei ammette che la lotta individuale è faticosa. “Non abbiamo scelto questa pubblicità o questa condizione. E’ chiaro che se più persone si unissero a noi, la lotta sarebbe più incisiva e avrebbe più forza.”

(traduzione di Cristiana Cavagna)

fonte: http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.674150?date=1441746281863

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