I meccanismi del dominio sionista sulla Palestina

di Vera Pegna

Intervento all’incontro dell’11 dicembre 2015 all’Università di Roma La Sapienza per la presentazione di Gaza e l’industria israeliana della violenza

La città futura, 26 dicembre 2015

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“Gaza e l’industria israeliana della violenza”, il libro di Alfredo Tradardi, Diana Carminati e Enrico Bartolomei, edito da Derive Approdi, spiega approfonditamente le strategie e le menzogne della politica internazionale contemporanea (non solo israeliana) su quanto accade ai palestinesi: dal progetto originario di Theodor Herzl al disegno di frantumazione degli stati arabi mediorientali.

La Palestina è avvolta, dilaniata, sconvolta dalle nebbie oscure delle strategie della menzogna della politica contemporanea, sempre più raffinate e scientifiche. P.142

Questa frase riassume i temi principali del libro: lo stato attuale della Palestina, le nebbie oscure che ci impediscono di capire cosa vi succede e perché, le strategie della menzogna messe in atto da Israele e dalla politica contemporanea; strategie sempre più raffinate e scientifiche perché oggetto di continuo studio e evoluzione da parte di centinaia (o forse più) cervelli di uomini e donne in vari paesi che dedicano la loro vita a perfezionare dei sistemi di dominio tali da configurare persino crimini contro l’umanità. Ma non solo, lavorano anche per meglio ingannare la gente, per meglio ingannarci. È la fabbrica del falso che lavora a ciclo continuo.

Nel caso specifico della Palestina, che cos’è che rende necessario per la politica contemporanea (quindi non solo per quella israeliana) l’uso della menzogna e che cosa si vuole coprire? L’efferatezza dei crimini commessi dai governi israeliani? Le violazioni del diritto internazionale? Certo anche questi ma ciò che rende prioritariamente indispensabile la menzogna è l’obiettivo ultimo, è il progetto sionista in quanto tale, un progetto “a vocazione genocidaria” come ha detto Tradardi: ovvero non uno stato ebraico in Palestina (del resto Israele è già riconosciuto come stato ebraico – lo leggiamo e lo sentiamo sui media ogni giorno -), ma una Palestina tutta ebraica, ebraica quanto l’Inghilterra è inglese, disse Theodor Herzl, il fondatore del progetto sionista.

È vero che il libro ce lo fa capire, in un certo senso ce lo documenta pure, però vorrei rilevare che parlare delle strategie della menzogna e del sionismo (che come tutti gli ismi, essendo un’astrazione, si presta a interpretazioni diverse) non basta. Bisogna additare il progetto sionista, bollarlo con marchio d’infamia poiché, lungi dall’essere un’astrazione, è una road map precisa, enunciato esplicitamente e ripetutamente dai massimi leaders sionisti fino e anche dopo la proclamazione dello stato d’Israele e poi prudentemente messo in sordina perché inaccettabile – per lo meno pubblicamente anche dagli alleati più stretti di Israele: il fine del progetto sionista dunque non è uno stato ebraico in quanta parte della Palestina si riesce a conquistare, ma la terra d’Israele, la grande Israele, egemone dal Nilo all’Eufrate, con ciò che necessariamente ne consegue: guerre, pulizia etnica, violazioni dei diritti e del diritto internazionale e atrocità di ogni genere.

Inoltre, il progetto sionista prevede la frammentazione degli stati vicini, indispensabile affinché Israele possa esercitare la propria egemonia sull’intera regione mediorientale. E infatti, già nell’introduzione viene citato un documento del 1982, intitolato ”Una strategia per Israele negli anni ottanta” del giornalista e stratega israeliano Oder Yinon’s che spiega con dovizia di particolari come dividere il Medio Oriente  in tanti staterelli. Tale frammentazione, coincidente ormai con gli interessi geopolitici degli USA, e in una certa misura anche dell’Europa, è attualmente in corso di realizzazione in Irak, Siria e Libia. Di questo ci parla il capitolo 10: Gaza e il piano di destabilizzazione e di frammentazione del Medio Oriente è da leggere con attenzione per l’analisi complessiva che viene fatta degli interessi, delle alleanze, dei progetti per il futuro del Medio Oriente (e ritroviamo punto per punto il piano Yinon’s).

Uno degli aspetti più apprezzabili di questo libro è il grande respiro con cui gli autori presentano l’intero scacchiere mediorientale (e non solo, con riferimenti anche all’Ucraina, per esempio), i protagonisti, le logiche che vengono seguite e lo spregevole doppio gioco dell’Occidente che va fino alla sponsorizzazione del terrorismo. Ci ricordano quanto una guerra infinita rappresenti un successo per il complesso militare-industriale-securitario occidentale. Nel caso della guerra di lunga durata, prevedibile per frammentare gli stati mediorientali, ci fanno notare anche le conseguenze che spese militari di questa entità avranno sul bilancio dello stato con le inevitabili ricadute sociali (welfare) nei paesi coinvolti. Un elemento che spesso viene sottovalutato. Come sottovalutiamo o diamo un’accezione troppo limitata al concetto di complicità che invece qui viene sviscerato a fondo.

Spesso quando parliamo di complicità dell’Europa con le politiche aggressive dei governi israeliani dimentichiamo sia gli accordi commerciali (è di questi giorni la questione dell’etichettatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani in Cisgiordania), sia le centinaia di collaborazioni sul piano culturale fra le università israeliane e quelle europee, non ultima quella di Torino; ma è anche complicità partecipare alle nebbie oscure di cui sopra, offuscando o negando la realtà di Gaza.

Cito: Complicità nell’ignorare e nel non denunciare le violazioni e i crimini di guerra che Israele commette continuamente, e nell’offrire sostegno al diritto di Israele a difendersi mentre compie programmaticamente, come è stato dimostrato, genocidi. Programmaticamente, dunque in filigrana c’è sempre il progetto sionista. Altri spunti di riflessione sull’indifferenza generale, di una opinione pubblica impassibile, Assuefazione alla violenza e alla sua spettacolarizzazione. Confusione organizzata ad arte con la complicità dei referenti politici. Il senso di impotenza per chi conserva ancora uno spirito critico nelle nostre società che sempre meno sono società di cittadini con diritti e sempre più società di individui che non contano più, dove ha vinto un senso comune neoliberista e, come scrive uno studioso canadese, l’interesse personale è l’unico principio dell’agire, il consumo l’unico obbligo per essere cittadini.

E non si può non essere d’accordo con Edward Said che insiste sulla necessità di sviluppare la capacità critica e il senso di responsabilità personale. Ai quali, però, vorrei aggiungere l’intransigenza. Il capitolo sulla violenza della menzogna e il doppio linguaggio usato da Israele (repressione=sicurezza, resistenza=terrorismo e Palestina=Israele) mi sembra uno dei capitoli più illuminanti perché collega le menzogne alle strategie messe in atto per realizzare il progetto sionista.

Leggo: Per arrivare alla realtà storica è necessario rompere la gabbia mentale del linguaggio sionista egemone. Un esempio ce lo ha dato a varie riprese Giorgio Napolitano quando era presidente affermando che: l’antisionismo è una forma di antisemitismo. Ecco che torna in mente il concetto di complicità. Ma questa riflessione sull’uso acritico del linguaggio sionista ha una valenza generale. Il libro ci ricorda il linguaggio adoperato da politici, giornalisti, ecc. ai talk show dopo l’attentato a Charlie Hebdo.

Un altro esempio di uso acritico o deliberato del linguaggio egemone riguarda il canale di Suez. Nasser non nazionalizzò il canale, il quale non smise mai di essere egiziano, ma la Compagnie du Canal de Suez composta essenzialmente da europei la quale faceva profitti mostruosi investiti direttamente all’estero; far credere che Nasser nazionalizzò il canale, il corso d’acqua, serviva ad alimentare i sospetti verso il nuovo regime degli ufficiali liberi che avevano cacciato re Faruk.

Ottima la scelta di riferire i metodi e le strategie usati dai governi israeliani ai miti fondanti dello stato d’Israele. Nel suo elenco, Ilan Pappe dedica il primo posto allo slogan Un popolo senza terra per una terra senza popolo. E a proposito di questo slogan, ci tengo a portarvi una mia testimonianza personale. Avevo 14 anni quando fu proclamato lo stato d’Israele e vivevamo ad Alessandria d’Egitto. Mio nonno mi spiegò che Theodor Herzl – l’ideatore del progetto sionista – era un miscredente come lui e che il popolo ebraico nel cui nome diceva di parlare non esisteva: si trattava di un sotterfugio inventato per potere accampare il diritto di creare uno Stato.

Dopo lunghe ricerche era giunto alla conclusione che l’espressione ‘popolo ebraico’ si trovava soltanto nell’Antico Testamento e che nessuno l’aveva mai usata, se non in senso biblico, fino alla nascita del progetto sionista alla fine dell’800. L’inganno di Herzl stava dunque nell’avere contrabbandato un mito biblico per una realtà vivente. Per noi che vivevamo in Egitto, era chiaro che lo slogan fondante del sionismo: Un popolo senza terra per una terra senza popolo non era altro che una doppia impostura. Il popolo senza terra, gli ebrei, non erano un popolo in senso politico e la terra senza popolo, la Palestina, lo aveva sì un popolo, altrimenti chi produceva le arance di Giaffa e l’olio d’oliva  di Nablus che il nonno ci portava al ritorno dei suoi viaggi di affari in Palestina?

Nonostante la nebbia fitta che ha avvolto il termine di popolo ebraico sia stata squarciata da numerosi studiosi alla metà del secolo scorso, questo è uno dei miti più duri a morire, grazie alla diffusa complicità di cui gode Israele. Il libro s’intitola Gaza e l’industria israeliana della violenza e 8 degli 11 capitoli sono infatti dedicati ad altrettanti aspetti della violenza la quale, assurta a sistema, colpisce le persone in primo luogo ma anche l’economia, il territorio, lo stesso processo di pace; una violenza che diventa genocida, viene esportata, si globalizza entrando in simbiosi con le peggiori forze di repressione presenti nei cinque continenti. E ciò ci fa capire meglio sia il militarismo totale che contraddistingue la società israeliana sia il senso imperituro del progetto sionista e quindi della frammentazione degli stati mediorientali in atto.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite su Gaza, riportato dall’Afp lo scorso 3 settembre, se le condizioni economiche e demografiche non cambieranno il territorio diventerà “inabitabile” entro cinque anni. Colpa di otto anni di embargo economico e di tre interventi militari di Israele negli ultimi sei anni, che non permettono ai palestinesi di rialzarsi. Eppure. Eppure, la storia ci insegna che i colonizzatori sottovalutano sempre il coraggio e la determinazione di cui sono capaci i colonizzati per conquistare la libertà. Infatti, i gazawi rimangono in piedi, resistono, consapevoli che sumud richiede intransigenza; intransigenza che per loro significa, cito: Liberazione è l’antitesi di Oslo, è l’antitesi della soluzione razzista dei due stati.

Ogni alternativa rivoluzionaria offerta dalla resistenza sul terreno deve separarsi nettamente da ogni accordo precedente. Intanto, come tutti i popoli oppressi i palestinesi e in particolare i gazawi si sono inventati le loro forme di resistenza. I loro tunnel mi ricordano quelli che scavavano i vietnamiti sotto le bombe americane negli anni 60. Allora stavo a Milano e la mia sezione del Pci cercava di far conoscere le parole d’ordine dei vietnamiti. Yankee go home e rivoluzione fino alla vittoria. Il Pci ci chiese di evitare di diffondere questa seconda parola d’ordine. Non è anche questa una forma di connivenza se non di complicità con l’aggressore?

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