Mar 21, 2017, Chen Misgav – Aggiormnamento ore 14,20 con articolo di Amira Hass
Gli israeliani devono essere coraggiosi, non per paura di essere boicottati all’estero, ma perché è immorale rimanere rintanati in una torre d’avorio se la libertà accademica non è garantita a tutti.
FOTO – Il capo di stato maggiore delle forze militari israeliane (IDF), Gadi Eisenkot (al centro), tra le truppe in una manovra militare – 22 giugno 2016.
Lunedì 20 marzo 2017
L’esercito israeliano (IDF) ha avvertito Beirut che la prossima guerra con Hezbollah avrà luogo all’interno del territorio libanese.
Il capo di Stato Maggiore dell’IDF, Gadi Eisenkot, domenica ha avvertito che il governo libanese pagherà un prezzo elevato per il fatto di consentire al Movimento di Resistenza Islamico in Libano (Hezbollah) di agire all’interno dei suoi confini.
In una conferenza tenutasi in una base militare nei territori occupati palestinesi del nord, Eisenkot ha aggiunto che la futura guerra sarà contro lo Stato libanese e Hezbollah, che considera una minaccia per questo regime usurpatore.
L’ufficiale militare israeliano ha anche avvertito che i combattenti Hezbollah stanno rafforzando le loro capacità militari e stanno operando a sud del fiume Litani, in prossimità dei confini di Israele.
Israele si prepara ad una possibile guerra contro Hezbollah sui confini marittimi con il Libano. “In Libano Hezbollah continua ad armarsi e rafforzarsi (…) Siamo determinati a continuare a contrastare questi tentativi e ad impedire il trasferimento di armi sofisticate a Hezbollah”, ha detto Eisenkot, citato da The Times di Israele.
Di fronte a questa minaccia, le forze dell’IDF hanno effettuato domenica due esercitazioni nella stessa giornata “due manovre militari a sorpresa” nel deserto del Negev, a sud dei territori palestinesi occupati.
Funzionari dei servizi segreti israeliani hanno ripetutamente avvertito che Hezbollah potrebbe sorprendere Israele con un massiccio attacco di rappresaglia per i crimini commessi da questo regime contro i popoli della Palestina e del Libano.
Secondo i giornali israeliani, le forze israeliane hanno già iniziato le manovre di un “massiccio attacco” in un possibile conflitto militare con Hezbollah e il movimento di resistenza islamica palestinese (Hamas).
È nata intorno al 1999: alcuni ricercatori della Sapienza, giovani entusiasti, hanno pensato di fare qualcosa per i popoli oppressi. Alla fine degli anni ’90 c’è stato un inizio, anche drammatico, dell’immigrazione – in quel momento albanese -, ma era tutta la società che in generale stava cambiando. L’idea era nata per studiare tali cambiamenti. Quei giovani partivano dall’idea che fosse necessario divulgare la conoscenza del resto del mondo. L’Europa stava accogliendo, e lo sta facendo tuttora, popolazioni di altri contesti culturali che solo gli specialisti conoscono, almeno in parte. I politici non ne sanno niente, continuano a non saperne niente; i giornalisti ne sanno meno, continuano a saperne sempre di meno, e così via. L’idea era quindi quella di far conoscere, attraverso la letteratura e la cultura, altre popolazioni, a cominciare da quelle più vicine, quelle del mondo arabo: i vicini di casa nel Mediterraneo.
Nota sui social per essere sostenuta da molti attivisti pro palestinesi, oltre che dai familiari, la piccola reporter di dieci anni, Janna Ayyad, che vive a Nabi Saleh (Cisgiordania) e da tre usa le microcamere dei cellulari per riprendere scene di quotidiana violenza subìte dalla sua comunità, ha ultimamente accresciuto la sua fama. E’ stata premiata nientemeno che dal presidente turco Erdoğan per la determinazione, la precisione, il coraggio con cui lancia l’occhio rivelatore della cinepresa su scene da cui dovrebbe stare lontana.
La madre sostiene che non le va a cercare perché le condizioni d’oppressione e dolore circondano le vite loro e di tanti concittadini. Purtroppo sin da bambina Janna ha dovuto conoscere la morte di un compagno di giochi, di un cugino, di uno zio, tutte scaturite dalla violenza dell’occupazione israeliana. Per volere anche dei genitori, l’occhio tecnologico di Janna si posa su brutti episodi, che lei vuole comunque mostrare. Finora ha scampato sequestro dell’iPhone e carcere perché è una bambina, se dovesse continuare (e lei e i familiari lo vogliono) probabilmente nasceranno problemi con la polizia, nonostante la giovanissima età. Per quest’audacia, per la conseguente denuncia politica Erdoğan le ha donato un trofeo che ne premia doppiamente la giovane età e l’impegno nell’informazione.
Però fra i tanti sostenitori della causa palestinese e di altre etnìe oppresse parecchi non hanno potuto tacere lo sdegno verso lo statista che applica pesi e misure differenti a seconda degli interessi di bottega.
Se quella giovinetta fosse stata kurda quali attenzioni avrebbe ricevuto dalle autorità turche? Basta chiederlo alle popolazioni del sud-est del Paese, sottoposte da un biennio a una repressione tornata ferocissima come negli anni Ottanta e Novanta, quando il conflitto strisciante fra esercito di Ankara e la copiosa minoranza etnica della fascia orientale anatolica segnò la morte di oltre 40.000 kurdi.
L’attuale presidente e prim’ancora premier turco utilizza cronaca e vicende a piacimento sfruttando, a vantaggio della sua politica, qualsivoglia avvenimento per guadagnarne in popolarità e consensi. La causa palestinese è per antonomasia la pietra dello scandalo della realtà mediorientale soprattutto per come è stata manipolata e per come viene usata da Israele e dagli alleati occidentali. Così il repressore della libertà di stampa e anche d’opinione in Turchia ha interpretato l’ennesima pantomima di grande difensore degli oppressi, mentre in patria si comporta da soffocatore della democrazia e carceriere degli oppositori. Se Janna fosse di nazionalità kurda Erdoğan non le permetterebbe nulla di quanto le consente da palestinese. Una real-politik soffocante, opportunista, degenere.
Recentemente Rosario Citriniti, fondatore di Invictapalestina – Centro di informazione politica, storica e letteraria sulla Palestina – diventata negli anni un collettivo di informazione, ha chiesto la mia disponibilità ad occuparmi della biblioteca del centro e dei suoi circa 500 volumi. Non sono molti anni che ho scoperto la letteratura palestinese e devo tanto a Wasim Dahmash per avermela fatta avvicinare.
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