L’“Animal-washing” israeliano: da Tel Aviv, città più “dog-friendly” del mondo, allo specismo sionista.

Oltre a contribuire ad oscurare l’occupazione coloniale contro i palestinesi, l’ “animal-washing” israeliano sulla “Tel Aviv capitale più dog-friendly al mondo” viene contraddetto a livello fattuale nei suoi principi, in quanto non è proprio il Paradiso in cui tutti gli animali vorrebbero vivere.

di Lorenzo Poli – 29 dicembre 2020

Immagine di copertina: Un dog sitter sul Rothschild Boulevard a Tel Aviv. Foto di Dror Garti / FLASH90

Tel Aviv, la capitale di Israele riconosciuta dal diritto internazionale, è ormai una città riconosciuta nel mondo per essere “gay-friendly”, “vegan-friendly”, ma anche “dog-friendly”.

Tra i brand che vengono riproposti saltuariamente negli anni, quest’ultimo è quello meno noto, ma che merita tuttavia di essere analizzato.

Secondo le stime, a Tel Aviv abitano ufficialmente circa 25.000 cani, insieme a più di 400.000 persone. Nel 2016 la città ha organizzato il “Festival del Cane”, chiamato Kelaviv[1], e in tale occasione si è auto-dichiarata la città più “dog-friendly” del mondo”, con il più alto numero di cani pro-capite.

Quest’ultima espressione ci fa capire quanto il marketing per “vendere” la città al meglio sia volutamente ben studiato, con il fine di oscurarne tutto il resto. Tel Aviv sarebbe la città più “dog-friendly” in quanto i cani affollano le sue strade, sono ammessi nella maggior parte dei bar, dei negozi e dei ristoranti di lusso (sic!), sugli autobus, sui treni e sui taxi.

Bar in Tel Aviv   (credit Kfir Bolotin)

Tel Aviv vanta 70 parchi e 4 spiagge per cani, e anche i parchi e le spiagge in cui i cani non sono ammessi hanno comunque la loro quota di visitatori canini, molti anche senza guinzaglio, a prescindere dalla normativa.

Dal 1996 ad oggi, il numero di cani a Tel Aviv è più che triplicato e, fino a qualche anno fa, in Israele si contavano circa 400.000 cani.

Come si può leggere in molte presentazioni turistiche, “Per gli abitanti di Tel Aviv è importante l’ospitalità che la città può offrire ai loro cani, e negozi, uffici, bar e ristoranti sanno che negare l’ingresso ai cani significherebbe perdere affari”. Una sorta di ricatto quindi, che viene coperto dalla retorica della “Tel Aviv città informale, in un Paese informale”, in cui,  sempre secondo la presentazione, “ci si sente liberi”,  perché T-shirt e sandali sono un abbigliamento appropriato nella maggior parte dei ristoranti e anche nelle occasioni più importanti, come i matrimoni. Questo giustificherebbe il fatto che i cani possono trovarsi ovunque, facendo passare il messaggio che l’abbigliamento sia a tutti gli effetti una forma di libertà e non una forma di espressione del proprio essere (differenza sottile, ma non ingenua).

“A Tel Aviv porti il tuo cane dappertutto, ed è parte della tua comunità” – questo è quello che dicono giovani manager che vengono intervistati per sostenere quello che è un vero e proprio marchio.

In realtà questo è soltanto frutto di un’operazione di animal-washing, ovvero di un lavaggio della coscienza dell’immagine, per la quale chi sfrutta o ha sfruttato animali cerca in tutti i modi di mostrarsi come l’esempio “dell’animalista perfetto” perpetrando continuamente sfruttamento e violenza sugli animali, ma con un’immagine tranquillizzante.

Oltre a contribuire ad oscurare l’occupazione coloniale contro i palestinesi, che spesso vengono considerati inferiori agli animali, sia umani che non-umani, l’animal-washing israeliano sulla “Tel Aviv capitale più dog-friendly al mondo” viene contraddetto a livello fattuale nei suoi principi, in quanto non è proprio il Paradiso in cui tutti gli animali vorrebbero vivere.

Sebbene non si abbiano notizie precise rispetto alle normative in vigore e agli approcci in uso in ciascuno dei paesi del Continente Asiatico, sappiamo che le nazioni che ad oggi hanno proibito l’utilizzo di animali selvatici nei circhi sono India, Iran, Israele, Singapore, Taiwan (divieto di importare ed esportare specie protette destinate ai circhi) e in Medio Oriente il Libano (che ha sancito il divieto di utilizzare alcune specie nei circhi).

Secondo una ricerca di OIPA, in Israele vige il divieto nazionale dell’utilizzo di tutti gli animali selvatici, ma il divieto di tutti gli animali nei circhi vige solo in 3 distretti[2]. Quindi i circhi con animali continuano ad esistere. Non solo! Per quanto alcune associazioni animaliste-sioniste israeliane prendano di mira la disumanità dello Zoo di Rafah a Gaza, non sembrano mettere strutturalmente in discussione l’esistenza degli zoo israeliani come il “Tisch Family Zoological Gardens”, meglio conosciuto come lo “zoo biblico” di Gerusalemme, che si trova vicino al Mall Malha, nella parte meridionale della città, e rinchiude moltissimi animali esotici come scimmie, leoni, elefanti e uccelli. O il “Gan Garoo- Australian Park” nel kibbutz di Nir David, un piccolo zoo che presenta animali australiani come canguri, uccelli, koala, serpenti e cigni ad uso e consumo di famiglie e bambini occidentali. O ancora il “Safari Park” a Ramat Gan, “l’Israel Aquarium” a Gerusalemme, l’”Educational Zoo” ad Haifa (città in cui la presenza ebraica iniziò dal 1947 con la Risoluzione ONU e si rinforzò dopo il Massacro di palestinesi ad Haifa il 28 dicembre 1948), la “Foresta delle Scimmie” nel moshav shitufi di Yodfat, l’”Antelope Ranch” nella Valle di Arava a Mahane Zofar, l’”Hay Park” di Kiryat Motzkin, il “Nahariya Botanic Garden and Zoo” e il “Negev Zoo” di Beersheba.

Ci si dovrebbe interrogare sulla liceità del rinchiudere animali, che potrebbero vivere liberi nei loro habitat naturali, in zone pensate ad esclusivo uso e consumo umano. Nessuno zoo, che sia igienicamente mantenuto o non, dovrebbe essere ritenuto giusto, tantomeno da un paese che in questi anni ha costruito parte della sua immagine sul “veganismo israeliano” e sulla “sensibilità verso gli animali”.

Questa oppressione di specie, oltre all’oppressione coloniale che Israele conduce nei Territori Occupati Palestinesi, è il bug del sionismo

Lo scorso giugno c’è stato uno scandalo che ha coinvolto le Forze di Difesa Israeliane (IDF), quelle che vengono definite “l’esercito più etico del mondo” in quanto vi sono presenti circa 50.000 “soldati vegani” (una contraddizione in termini). L’IDF ha condotto esperimenti su circa 1.000 animali, causando spesso gravi danni ai soggetti, secondo quanto riferito dall’ONG “Let the Animals Live”. La ONG ha ottenuto i dati dal Ministero della Difesa attraverso il Freedom of Information Act, scoprendo che tra il 2017 e il 2018 i laboratori IDF hanno condotto esperimenti su 154 maiali, 40 cani, 25 capre, 10 pecore, 25 cavie, 160 roditori di taglia media, 10 topi e 186 ratti. L’ONG ha inoltre ha affermato di non essere riuscita ad ottenere dati più recenti e completi, quindi immaginiamoci tutti gli altri possibili progetti di vivisezione e sperimentazione animale  che sono stati praticati. I militari “etici” hanno risposto affermando che “utilizzano esperimenti su animali solo per ricerche mediche e sotto la supervisione di veterinari qualificati e che tutti gli esperimenti sono supervisionati e condotti con l’approvazione del “Council for Experiments on Animal Affairs” presso il Ministero della Difesa”, senza fornire ulteriori commenti.

Parlando invece di consumo di carne a livello internazionale, negli anni passati Israele si era attestato tra i maggiori consumatori di carne pro-capite. Secondo il Rapporto di Agrarbericht 2020[3], nel 2019, nei Paesi membri dell’OCSE il consumo pro-capite di carne si è attestato in media a 14,5 chilogrammi per la carne di manzo e di vitello, a 23 chilogrammi per la carne di suino, a 31,3 chilogrammi per quella di pollame e a 1,3 chilogrammi per la carne di pecora, per un totale per queste categorie di carne di 70,1 chilogrammi. La quota maggiore del consumo pro-capite si è registrato in Argentina per la carne bovina, con 38 chilogrammi, in Corea per la carne di suino, con 31,2 chilogrammi, in Israele per la carne di pollame, con 64 chilogrammi, e in Kazakistan per la carne di pecora, con 8,2 chilogrammi. Israele è quindi di fatto tra i più grandi consumatori di carne di pollame che, per la maggior parte, importa pur possedendo pochi allevamenti intensivi.

Questa oppressione di specie, oltre all’oppressione coloniale che Israele conduce nei Territori Occupati Palestinesi, è il bug del sionismo, che da un lato nasconde e dall’altro perpetra; da un lato agisce e dall’altro strumentalizza contro gli stessi palestinesi; da un lato consente di sfruttare gli animali e dall’altro usa come pretesto per “animalizzare” e inferiorizzare gli stessi palestinesi nello stesso discorso in cui li si accusa di essere “barbari mangiatori di animali”.

Non sarà una città per cani, un festival per cani o l’essere la città più vegana ad abbattere le oppressioni strutturali, culturali e politiche, che affliggono Israele. Non sarà la volontà di oscurarle, ipocritamente, ad azzerarle. Per questo lo specismo sionista è una questione politica e coloniale, non solo morale, che bisogna analizzare per mettere a fuoco le contraddizioni che annebbiano persino le narrazioni tossiche che il sionismo produce.

Note:

[1] composto da kelev, il termine ebraico per “cane”, e Tel Aviv

[1] https://www.appelliperglianimali.it/campagne/circhi/cosasuccede.html

https://www.agrarbericht.ch/it/mercato/prodotti-di-origine-animale/carne-e-uova#:~:text=La%20quota%20maggiore%20del%20consumo,%2C2%20chilogrammi%2C%20in%20Kazakhistan.

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