Titolo: Cultura e imperialismo
Sottotitolo: Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente
Autore: Edward W. Said
  
Casa editrice: Gamberetti Editrice
Genere: Saggistica
Lingua: Italiano
Donato da: Famigliari di Stefano Chiarini
  
Disponibilità: si
Formato: cartaceo
Posizione Libro: Centro
Settore: Palestina

[Rif. 319] Stampato anno: 1998 - Num. pagine: 421 - Costo: Euro

L'esame dei molteplici rapporti tra cultura e imperialismo è svolto da E. Said a partire dalla considerazione che, sebbene il colonialismo "diretto" possa ritenersi in gran parte finito, così non è per quel fenomeno di più vasta portata che l'autore chiama "imperialismo". Con questo termine si intende «la pratica, la teoria e gli atteggiamenti di un centro metropolitano dominante che governa un territorio lontano, mentre per "colonialismo", che è quasi sempre una conseguenza dell'imperialismo, si intende lo stabilire insediamenti su un territorio lontano» (p. 35). Tuttavia il progetto imperiale dimostra di essere sostenuto da «alcune formazioni ideologiche che racchiudono l'idea che certi territori e certi popoli necessitino e richiedano di essere dominati». Così Said cerca di intraprendere una genealogia di queste forme culturali legate al dominio, tentando di spingersi aldilà dell'ambito problematico e della cornice metodologica della sua opera più nota, Orientalismo.

Da un lato, l'esame dei modelli culturali tramati dal progetto imperiale viene ora a includere tutti quei territori d'oltremare che sono entrati in rapporti imperiali di dominazione con il moderno Occidente metropolitano; dall'altro lato, per comprendere le dinamiche legate all'espansione dell'idea imperiale, assume un'importanza fondamentale l'esperienza della resistenza attiva dei popoli sottomessi al dominio coloniale. Tale resistenza deve essere intesa sia come "resistenza armata", in riferimento alla conquista dell'indipendenza nazionale e ai movimenti generali di decolonizzazione, sia come "resistenza ideologica" in grado di costruire una comunità immaginata, una narrazione (che riesca a sfuggire all'etnocentrismo nativista) che rimetta insieme i frantumi e sani le lacerazioni prodotte dal sistema coloniale.

Mosso dall'idea che nessun intellettuale possa permettersi di trascurare la "lotta per la geografia", Said, nel primo capitolo del suo libro, spiega che questa lotta «non riguarda solo soldati e cannoni ma anche idee, forme, rappresentazioni e meccanismi dell'immaginario». Soltanto partendo da questo complesso rapporto che lega potere, spazio e forme della rappresentazione ci si può interrogare sul perché l'idea di avere un impero possa esser durata così a lungo e abbia avuto un così ampio e acritico consenso persino da parte di artisti e intellettuali le cui opere vengono di consueto interpretate non tenendo in considerazione il contesto imperiale in cui sono nate. Per Said un approccio di tal genere è ideologicamente orientato all'occultamento di relazioni di potere che sono essenziali per capire la genesi di un fenomeno estetico da un lato e di una dimensione culturale e politica dall'altro lato: «la cultura viene vista come immune da qualunque intreccio con il potere, le rappresentazioni sono considerate solo immagini apolitiche da analizzare sintatticamente e costruire come tante grammatiche di scambio, e il divorzio del presente dal passato viene dato come compiuto. Eppure, lungi dall'essere una scelta casuale o neutrale, tale separazione si configura come un atto di complicità: è la scelta da parte dello studioso di un modello testuale falsificato, spoglio, sistematicamente purgato, invece di uno più militante, le cui principali caratteristiche si cristallizzerebbero inevitabilmente attorno al conflitto in corso sul problema dell'impero» (p. 82).

Lo sforzo teorico di Said consisterà infatti nel tentativo di rileggere e reinterpretare l'"archivio" della cultura occidentale non più in modo univoco, dalla prospettiva di dominio imperiale, bensì in modo contrappuntistico «con la percezione simultanea sia della storia metropolitana che viene narrata sia da quelle altre storie contro cui (e con cui) il discorso dominante agisce» (p. 76). L'idea dello studioso palestinese è che la produzione culturale europea risenta in larghissima parte di quel netto sistema di suddivisione geografica imperiale molto di rado messo in discussione, come di una cornice di solito non esplicitata ma che condiziona l'intero impianto strutturale di romanzi, poesie, melodrammi, rappresentazioni teatrali, racconti di viaggio. Gran parte della letteratura cosiddetta della resistenza comincia a problematizzare proprio queste linee di confine e di esclusione che hanno disegnato un dominio culturale non ancora concluso.

La proposta metodologica di Said cerca dunque di sciogliere i concetti reificati e monolitici delle varie "alterità" - come l'"Islam", l'"Oriente", l'"Africa" ecc. - che hanno assicurato il più vasto consenso alla missione civilizzatrice dell'uomo bianco, borghese ed europeo, una «convinzione auto-giustificatrice dell'esistenza di un'idea o di una missione al di sopra del tempo, e in una struttura che ci avvolge completamente e che guardiamo con soggezione anche se, per ironia, siamo noi stessi ad averla costruita; una struttura che diamo ormai per scontata e alla quale, quindi non prestiamo più attenzione» (p. 94); a tal fine l'a. utilizza il concetto di struttura di atteggiamento e di riferimento (ricavate dalle "strutture del sentire" di R. Williams) riferendosi proprio «al modo in cui le strutture di ubicazione e i riferimenti geografici emergono nei linguaggi culturali della letteratura, della storia o dell'etnografia, a volte in modo allusivo, in altre in maniera accuratamente voluta, attraverso varie opere individuali che non sono connesse in altro modo l'una all'altra o a un'ideologia ufficiale "dell'impero"» (p. 77).

Gran parte degli storici della cultura hanno trascurato, per il Nostro, la connotazione geografica, il processo di rivelazione e di mappatura teorica del territorio sotteso alla narrativa occidentale, agli scritti storici e ai discorsi filosofici del tempo. Questo processo era fondato innanzitutto sull'autorità dell'osservatore europeo - viaggiatore, mercante, studioso, storico, romanziere. Veniva così a disegnarsi una gerarchia di spazi attraverso la quale il centro metropolitano, e gradualmente la sua economia, vengono visti come dipendenti da un sistema d'oltremare di controllo territoriale, di sfruttamento economico e di proiezione socioculturale; senza queste la stabilità e la prosperità "a casa" - dove "casa" è una parola dalle forti risonanze - non sarebbero possibili.

Tali questioni emergono nell'interessante lettura di un romanzo come Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui le dislocazioni nel linguaggio del narratore (Marlow) finiscono per accentuare la discrepanza tra l'"idea" ufficiale dell'impero e la sconcertante realtà dell'Africa. Questa sfasatura scuote, secondo Said, la percezione che il lettore ha non solo dell'idea dell'impero, ma anche della realtà stessa. La verbosa eloquenza di Marlow, le cose incredibili e iperbolicamente inverosimili che racconta rinviano, dall'interno della struttura narrativa, ad una meta-affermazione che cerca di rivelare tutta l'artificiosità di ogni rappresentazione, il suo essere vincolata ad una prospettiva narrativa calata nel contesto geografico e culturale del dominio imperiale.

Il rapporto tra romanzo e spazio sociale viene approfondito nel secondo capitolo attraverso la lettura di Mansfield Park di Jean Austen, di Kim di Rudyard Kipling, di alcuni dei romanzi e dei racconti di Albert Camus e di alcuni scritti di Carlyle e di Ruskin. Non da ultimo questo rapporto viene ad ampliarsi - includendo così anche il melodramma - grazie alla documentata e attenta analisi della genesi dell'Aida di Verdi.

Quest'opera «in quanto forma altamente specializzata della memoria estetica [...] incarna - come del resto era nell'intenzione del suo autore - la versione ufficiale che, in quel particolare momento dell'Ottocento, l'Europa dava dell'Egitto» (p. 150). In un'opera scritta per un luogo che non ha nessun rapporto con lui Verdi si avvale «dell'autorevolezza accademica e della concezione storica dell'egittologia», ma quest'ultima, ci ricorda Said, non è l'Egitto. Tale produzione di sapere ha a fondamento i volumi archeologici della Description de l'Egypte, redatti dagli uomini di Napoleone in modo tale da far apparire una linea di continuità tra la maestosità dell'Antico Egitto e lo splendore dell'Impero napoleonico. Il primo viene rappresentato come un luogo grandioso ma essenzialmente vuoto, pronto ad essere riempito da gesta e da eroi del secondo che sono invece all'altezza dei fasti del passato.

Spettacoli come l'Aida avevano il compito di distrarre e impressionare un pubblico quasi esclusivamente europeo, la sua funzione era di anestetizzare le coscienze metropolitane per occultare quanto di sgradevole era presente in quella missione civilizzatrice che doveva al contrario essere giustificata. L'Aida, nel tentativo di rappresentare un'identità egiziana, diviene strumento di quella che Said chiama (seguendo Janet Abu-Lughod) "estetica della separazione". Un'estetica che si incarna nel progetto di modernizzazione e occidentalizzazione del Cairo e di Alessandria che prevede una parte coloniale nettamente separata da quella dei nativi arabi, una separazione che occultava delle contraddizioni sociali ed economiche e quella volontà di dominio che aveva portato, attraverso lo sfruttamento della popolazione locale, alla costruzione del Canale di Suez, inaugurato nel 1869. La parte coloniale del Cairo era la sola a dover guadagnare visibilità divenendo in tal modo lo sfondo più adatto per gli investimenti dei capitali europei così come le faraoniche scenografie e i sontuosi costumi dell'Aida dovevano costituire quell'immaginario sfondo esotico all'interno del quale i sogni e le speranze di dominio imperiale venivano al contempo alimentati e legittimati.

Nel terzo capitolo vengono direttamente affrontati i temi della cultura della resistenza e dell'opposizione alle pratiche di potere imperiale. La base culturale di questa cultura «viene individuata nella riscoperta e nella riappropriazione nazionale di ciò che del passato indigeno era stato soppresso dai meccanismi dell'imperialismo» (p. 236). Per raggiungere questo obiettivo bisogna cercare di «occupare lo spazio che nelle forme culturali imperiali viene riservato alla subordinazione [...] quello stesso territorio prima governato da una coscienza che dava per scontato la subordinazione dell'Altro, designato come inferiore. Da qui, una reiscrizione» (ibid.).

Come esempio peculiare di questa battaglia sulle immagini e le proiezioni ideologiche Said sceglie il tema della ricerca e del viaggio. Allo stesso modo di Stephen Dedalus nell'Ulisse di Joyce, i protagonisti delle opere di Ngugi wa Thiong'o, di Aimé Cesaire, di Tagore, di Salman Rushdie percorrono al contrario le traiettorie coloniali dei personaggi conradiani, proponendo dei rovesciamenti mimetici per cui personaggi da sempre muti nelle rappresentazioni imperiali possono parlare e agire dall'interno di quello stesso territorio di cui rivendicano la restituzione. La consapevolezza legata a queste pratiche culturali di decolonizzazione prende le mosse dal tentativo di scoprire le basi di un'identità diversa da quella un tempo dipendente e derivata da altri. In tal senso Said segue le proposte ricostruttive e decostruttive di autori come F. Fanon, C.L.R. James, R. Guha.

Tuttavia in questa fuga dall'assoggettamento sono impliciti dei rischi di riabilitare in altro modo quello stesso dualismo e quelle stesse pratiche di esclusione e marginalizzazione del potere coloniale. Il nativismo e il suo passato primigenio fuori da ogni storia, spesso strumento delle borghesie nazionali o di élite particolaristiche, è fondato sull'attacco indiscriminato alla cultura bianca e occidentale e rappresenta questa impasse. La resistenza proposta da Said, «lungi dall'essere una mera reazione all'imperialismo, rappresenta un modo alternativo di concepire la storia dell'uomo [...] e si basa sull'abbattimento delle barriere tra le culture» (p. 242).

Per l'a. il "viaggio all'interno" è il tentativo di scardinare le narrazioni europee penetrando all'interno del loro discorso culturale per contaminarlo, turbarlo, irriderlo giocosamente e con ironia metterlo in discussione finché possano trovare spazio tutte quelle storie emarginate, soppresse o dimenticate.

Nel quarto e ultimo capitolo Said si sofferma sulle formazioni ideologiche e sui procedimenti retorici che garantiscono attualmente agli Stati Uniti il controllo non solo del mondo occidentale ma anche di culture marginali e deboli. La diffusione dei media e la loro capacità di veicolare stereotipi che generano ostilità e desiderio di dominio facilita la cementificazione di un "noi" fondato sulla presunta eccezionalità della posizione degli Usa nel mondo. Se è vero che l'imperialismo, specie quello culturale, non è finito, sono proprio gli Usa che facendosi da soli i primi garanti del nuovo ordine mondiale rispolverano quell'arsenale concettuale e retorico esaminato nei capitoli precedenti. Tuttavia grazie alla diffusione e al controllo dei mezzi di informazione la creazione del consenso si è intensificata e ha mobilitato anche nuovi e più elastici meccanismi di incorporazione e dipendenza in grado di soggiogare l'opinione pubblica nella sua pur grande varietà. Said, come esempio, prende in esame la retorica bellicistica che ha permesso il dispiegarsi della macchina da guerra americana nella Crisi del Golfo del 1991: «si tratta di immagini che incutono terrore, prive di contenuti specifici o di alcuna definizione analitica, che garantiscono a chi le usa, autorevolezza morale e consenso, mentre servono a criminalizzare e a mettere sulla difensiva coloro contro cui sono utilizzate» (p. 340). Nonostante ciò negli interstizi di questo nuovo ordine mondiale «si manifestano rilevanti "deformazioni". Di questo gruppo fanno parte voci eterogenee, lingue diverse e forme ibride che conferiscono alla scrittura anglofona la sua identità peculiare e tuttavia problematica» (p. 336). I tropi rappresentativi della retorica statunitense sono così poco permeati dalla critica che Said conclude chiedendosi se il "popolo" abbia effettivamente accesso al potere o se invece le rappresentazioni di quel potere siano così organizzate e culturalmente elaborate da farlo credere soltanto.

Orazio Irrera