Per i palestinesi tutte le opzioni in campo sono egualmente terribili

La grande maggioranza dei palestinesi non partecipa agli scontri e nemmeno cerca di fermarli; desidera un cambiamento, ma ne ha anche paura.

di Amira Hass, Haaretz 9 ottobre 2015

Palestinian protester is seen during clashes with Israeli troops near the Jewish settlement of Bet El, near the West Bank city of Ramallah October 8, 2015. Reuters
Palestinian protester is seen during clashes with Israeli troops near the Jewish settlement of Bet El, near the West Bank city of Ramallah October 8, 2015. Reuters

Colonne di fumo di pneumatici bruciati, uomini mascherati nascosti dietro cassonetti rovesciati, ambulanze in attesa, rumori di spari lontani e decine di persone che stanno a guardare nelle vicinanze. Non ci sono donne. E’ la strada verso il checkpoint di Beit El all’entrata est di Ramallah e El Bireh. Gli astanti non possono vedere i soldati perché due case nel campo davanti al posto di blocco impediscono la visuale.

Da domenica notte il checkpoint è stato chiuso a causa delle continue manifestazioni e scontri. Mercoledì sono stati gli studenti dell’università di Birzeit ad esprimere la loro opinione tirando sassi e bruciando copertoni a poche centinaia di metri dai soldati. Loro ed altri hanno continuato a manifestare anche dopo che tre dei loro compagni sono stati arrestati da soldati infiltrati, in un’operazione che i media palestinesi hanno definito un sequestro.

Uno dei tre pare abbia riportato una grave ferita di proiettile alla testa. Almeno altri otto sono stati feriti dal fuoco dell’esercito israeliano e trasportati in ospedale.

Fin dalla seconda intifada, per garantire che centinaia di coloni di Beit El potessero viaggiare comodamente, questo checkpoint è stato chiuso per decine di migliaia di palestinesi, tranne per le persone importanti, i principali funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese, gli alti dirigenti delle ONG, i diplomatici e i giornalisti stranieri. Recentemente queste restrizioni sono state leggermente attenuate: tutti potevano entrare a Ramallah attraverso il checkpoint, ma restavano in vigore le restrizioni all’uscita. Ma da lunedì è stato chiuso anche per i suddetti casi particolari, a causa delle incessanti dimostrazioni e degli scontri.

Nei precedenti periodi di tensione, per esempio durante la guerra a Gaza dell’anno scorso, il checkpoint non è stato chiuso, perché i servizi di sicurezza dell’ANP impedivano ai dimostranti di avvicinarsi. Ma ora non c’è il personale della sicurezza dell’ANP. E’ dislocato poco lontano, intorno alla casa del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e alla vicina strada che porta all’Amministrazione Civile della Cisgiordania (il vero governo, come dicono i palestinesi). Là i dimostranti non possono arrivare.

Tra tutte le enclave comprese nell’area A, la parte della Cisgiordania sotto completo controllo dell’ANP, quella di Ramallah è stata la più isolata dagli scontri: Ramallah, la capitale non ufficiale, la città che non si ferma mai, il luogo che viene mostrato ai diplomatici dei paesi donatori in modo che possano apprezzare i risultati raggiunti dall’ANP. Dimostrazioni e scontri avvengono spesso presso tutti i varchi che portano ad est all’area C (sotto completo controllo israeliano) e a Gerusalemme: Qalandia, Beit El, il campo profughi di Jalazun e Atara. Perciò chi viaggia deve fare delle deviazioni per entrare o uscire di là. Altrimenti non si esce.

I checkpoint israeliani e le basi militari alle uscite dall’area A attirano i dimostranti perché sono il simbolo sia dell’espansione degli insediamenti che stanno rinchiudendo i palestinesi in enclave, sia delle restrizioni alla loro libertà di movimento. Ma il checkpoint di Beit El è un simbolo triplo: degli insediamenti, delle restrizioni e anche dell’ANP, i cui alti dirigenti, amici e sostenitori diplomatici possono passare dal blocco e si sono abituati ai privilegi particolari che Israele concede loro.

Gli scontri, sia qui che altrove, non coinvolgono gli insediamenti; inaspriscono solo le restrizioni israeliane sulla libertà di movimento dei palestinesi. Se hanno un effetto, è sulla già indebolita ANP e sul movimento frantumato e schizofrenico che la guida: Fatah.

I dimostranti che rischiano la vita sono un gruppo di giovani autorevole, ma piccolo e disorganizzato. Invece all’inizio della seconda intifada i dimostranti erano di ogni età e di entrambi i sessi.

Alcuni dimostranti sono indubbiamente spronati da Hamas e dalla Jihad islamica. Non sorprende che l’ANP e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, anch’essa diretta da Abbas, adesso vogliano riaprire i colloqui con Hamas a Gaza su una posizione comune. Ma Hamas non correrà in soccorso del prestigio dell’OLP.

L’OLP sta anche parlando nuovamente di convocare il suo parlamento, il Consiglio Nazionale Palestinese, la cui riunione era stata inizialmente rinviata, in quanto Fatah e le altre organizzazioni costitutive dell’OLP si sono opposte alla convocazione da parte di Abbas. Finché ciò non avviene, se mai avverrà, Abbas non può impedire ai giovani di andare ai checkpoint a scontrarsi coi soldati.

Ogni palestinese ferito dal fuoco dell’esercito israeliano ed ogni voce, vera o falsa, di vittime, infiamma ulteriormente il territorio. Ma Fatah, il movimento di popolo, è assente. Sicuramente lo si ricorderà a suo discapito.

I dimostranti che rischiano la vita sono studenti che sanno che difficilmente troveranno lavoro, o persone disoccupate, abitanti dei villaggi e residenti dei campi profughi, furiosi per le macroscopiche differenze di classe, soprattutto a Ramallah. Ma sono Gerusalemme e la Moschea di Al Aqsa che danno significato agli scontri. Gerusalemme, in cui la maggior parte dei residenti della Cisgiordania non può entrare, che l’ANP ha ceduto de facto (anche se non ufficialmente) e dove la situazione socioeconomica e psicologica è peggiore che in ogni altra zona della Palestina, si è dimostrata essere un fattore decisivo.

In grande maggioranza i palestinesi, insieme all’OLP e all’ANP, si stanno comportando come delle comparse: non partecipano agli scontri né cercano di fermarli. La gente vuole che la situazione cambi, ma ha anche paura del cambiamento, perché non dispone di una leadership per avere un punto di riferimento e prendere decisioni.

I palestinesi dipendono dall’ANP, ma vogliono che sia smantellata; vogliono che sia smantellata, ma temono il caos che si creerebbe senza una forza di polizia. Dal loro punto di vista, tutte le opzioni in questo momento sono terribili.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

fonte: http://www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/.premium-1.679537

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