Il luogo segreto per un incontro sull’arte palestinese al Guggenheim

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Mariam C Said on September 27, 2016

Ci sono dieci giorni a disposizione per vedere al Museo Guggenheim una mostra di arte contemporanea del Medio Oriente e Nord Africa dal titolo: “Ma una tempesta spira dal Paradiso.” Mariam C. Said ha visto la mostra durante l’estate e ha partecipato ad un particolare incontro sull’arte. Ci ha inviato le seguenti considerazioni. [mondoweiss].


Sono andata con un’amica alla mostra del Guggenheim sull’arte del Medio Oriente e del Nord Africa e vi ho trovato qualcosa di affascinante e inquietante.
Il titolo della mostra è: “Ma una tempesta spira dal Paradiso” commento di Walter Benjamin a un’opera di Paul Klee, “Angelus Novus”, ora nel Museo Nazionale di Israele.

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Angelus Novus, by Klee, Israel Museum

Dal punto di vista di Benjamin “l’angelo della storia” guarda indietro verso il passato.
“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal Paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle.”
Alla mostra del Guggenheim è stato dato l’annuncio di un incontro faccia a faccia sull’arte palestinese prima del 1948. Questo incontro faccia a faccia sembra essere un progetto del Public Movement, fondato da Alhena Katsof, una curatrice di New York, e Dana Yahalomi, un’israeliana, di Artport a Tel Aviv. [Una fotografia del team di Public Movement appare nella parte superiore di questo post.]
Gli “agenti” dell’incontro sono: Hagar Ophir, Amir Farjoun, Ruth Patir.
Mi chiedo: Perché il museo ha messo insieme questa squadra così pesantemente israeliana per condurre un incontro sull’arte palestinese pre-1948?
La mia amica ed io abbiamo deciso di partecipare a questo costoso incontro, 25 dollari per mezz’ora. La mia amica ha iscritto entrambe all’evento – ti iscrivi on line – ottenendo, a iscrizione avvenuta, la risposta qui di seguito:

Caro — —,
La performance si svolge in un luogo segreto all’interno del museo. Per assicurare l’ingresso in tempo utile, si consiglia di arrivare almeno 5 minuti prima dell’orario stabilito per la performance. Se il giorno della sessione doveste ritardare, siete pregati di chiamare il Membership desk al 212 360 4358.
All’arrivo al museo è necessario fare il check-in presso il Membership desk e attendere ulteriori istruzioni da parte del personale del museo. Non è consentito alcun tipo di ripresa durante la performance.

Sono arrivata con cinque minuti di anticipo, ho aspettato che una guardia della sicurezza venisse a prendermi per condurmi nel luogo segreto del museo. La prima cosa che ha fatto è stato chiedermi di spegnere il mio telefono per motivi di sicurezza. Abbiamo camminato dietro alle aree espositive zigzagando, finché non siamo arrivati a un ascensore. In ascensore e poi in una sala conferenze dove un giovane, dall’accento chiaramente un israeliano, mi ha accolta. Non si è presentato né mi ha chiesto di presentarmi. Il mio “agente”, ho ipotizzato, doveva essere Amir Farjoun, perché gli altri due sono femmine. Ho immaginato che conoscesse il mio nome perché al botteghino me lo hanno chiesto. Ho sentito che era un po’ nervoso, o magari era solo la mia immaginazione.
Per mezz’ora questo giovane ha sparato sciocchezze sull’arte in Palestina prima del 1948. Questa è la mia opinione. E’ saltato da un argomento all’altro, dopo avermi informato che il museo di Tel Aviv prima del 1948 aveva incoraggiato gli artisti palestinesi. Ha menzionato la normalizzazione, il Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni, e ha continuato a tirar fuori nomi di palestinesi coinvolti nel mondo dell’arte come Kamal Boullata, che ha scritto un libro sulla storia dell’arte palestinese e Gannit Ankori, un’israeliana che ha scritto un altro libro sull’argomento basandosi sul lavoro di Boullata. Si conoscevano e alla fine hanno avuto un litigio e lei ha fatto causa a Boullata. Quest’ultimo particolare però non l’ha menzionato, ma ne parlo con voi tanto per darvi un’idea del contesto. Ha semplicemente buttato là i loro nomi (Boullata e Ankori) e il nome di Ariella Azoulay che sta lavorando sulla fotografia ante-1948 per mettere in evidenza l’aspetto convivenza prima del 1948.
Ha anche accennato a Samia Halaby, la prima artista palestinese che ha esposto al Guggenheim (per inciso il suo lavoro è stato donato da un ebreo) e pareva contestare il fatto che fosse la prima volta per il Guggenheim. Ha parlato di un progetto del Museo di Tel Aviv fondato all’inizio del progetto sionista, quando l’arte doveva essere utilizzata per scopi politici. Ha accennato al fatto che Peggy Guggenheim aveva sostenuto quel museo. Ho la sensazione che quello che stava cercando di dire è che tutti gli artisti palestinesi presenti allora in quel museo facessero parte della missione che all’epoca il museo si era dato. Che genere di racconto cercasse di rifilarmi, non potrei dire. Sono rimasta in silenzio.
Ha poi insinuato che le opere d’arte palestinesi di prima del 1948 sono state trafugate e ha pure insinuato che Daoud Zalatimo ha portato via illegalmente la sua opera a Gerusalemme est. Ha parlato dell’artista e scrittore Jabra Ibrahim Jabra e poi mi ha mostrato tre dipinti sul suo cellulare, tra cui un autoritratto di Sophie Halaby e un dipinto di Jabra fatto prima di 1948. Ha anche parlato del suo museo, quello a Tel Aviv – Tel Aviv Museum- che ha cercato di localizzare le opere d’arte trafugate. Come se il lavoro degli artisti palestinesi che studiarono arte all’epoca in quel museo a Tel Aviv appartenesse al museo e non a loro personalmente. Come a voler lasciare intendere che gli artisti palestinesi avevano trafugato opere d’arte che appartenevano agli ebrei che possedevano il museo. In altre parole, si fossero comportati come i tedeschi che avevano trafugato le opere degli ebrei europei.
Ho pensato, questo sì che è interessante: gli artisti arabi hanno trafugato i loro lavori perché prima del 1948 ogni cosa apparteneva al progetto sionista!
Ha aggiunto che vi è stato saccheggio di libri e manoscritti. Non sapeva che io sapevo che erano stati i sionisti a prendere quei libri. Poi ha aggiunto qualcosa su collezioni private. Mentre parlava buttava giù un soggetto – musei, storia dell’arte, ecc- cercando di dare l’impressione che il suo racconto fosse storicamente vero e logico. Ha anche ricordato di essere andato a Darat al Founoun ad Amman e avere visto un’opera del 1948 in cui palestinesi alzano una bandiera bianca durante la loro ritirata da Lydda (che ricordo) intitolata Speranza e ha aggiunto che il titolo dovrebbe essere Vergogna.
Alla fine ho detto: “Questo è tutto quello che hai.”, e lui ha detto “Sì”.
Ho chiesto: “Ma dov’è il lavoro degli artisti palestinesi di prima del 1948?” Non un video o diapositive o una qualsiasi opera d’arte visiva che mi sia stata mostrata, a parte i tre pezzi sul suo cellulare.
Ho avuto la sensazione di essere stata presa in giro. Da quel momento ho cominciato io a chiedere che significasse tutto ciò.
Ho cominciato a pensare che questo è un nuovo colpo per portare Israele sulla scena artistica del Medio Oriente dopo che gli israeliani sono stati emarginati dalla comparsa di un’arte del mondo arabo tanto interessante. O forse si tratta di uno sforzo della direzione del Guggenheim per soddisfare Consiglio e donatori che non sono in combutta con Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni e che hanno un componente israeliano rappresentato in questa mostra. Questo è quello che ha attraversato la mia mente. In un primo momento ho pensato di scrivere una lettera al Consiglio del Guggenheim, ma poi ho deciso che sarebbe stato meglio fare in modo che la gente sapesse.
Ecco ulteriori informazioni sulla mostra.
All’interno della mostra c’è una sola opera israeliana. Si tratta di un lavoro di Ori Gersht, nato a Tel Aviv e che ora vive a Berlino, intitolata Fuggitivi. E’ installata su due schermi video e le uniche parole pronunciate sono l’intero commento di Walter Benjamin al dipinto di Klee. Su uno schermo si vedono il viso e le spalle di un uomo come in un continuo camminare controvento. Nell’altro schermo lo si vede di spalle, in stagioni differenti, camminare su di un difficile terreno di montagna. Questo per 15 minuti. Si tratta di ebrei che cercavano di fuggire dalla Francia di Vichy in Spagna attraverso i Pirenei; quello che fece Walter Benjamin prima di suicidarsi perché trattenuto, assieme ad altri rifugiati, dalle autorità spagnole con la minaccia di essere rimandati in Francia.
Un’opera che vale la pena guardare con attenzione è “Plan for Greater Baghdad” di Ala Yunis. Questo è il titolo del progetto di Frank Lloyd Wright per la costruzione di uno stadio a Baghdad. Ma il suo stadio non è mai stato costruito. L’opera è composta da una parete di fotografie incorniciate, documenti, mappe, progetti architettonici, francobolli, ecc. dall’assassinio di re Faisal fino ad oggi… tutto quanto riferito alla costruzione dello stadio. Sotto, in piccoli caratteri, scorre il racconto delle difficoltà e delle vicissitudini sopportate dai tanti architetti e i loro piani per questo stadio – partire, fermarsi e cambiare secondo l’ascesa e caduta dei vari leader dell’Iraq. E’ uno sguardo arguto sulla storia che ti fa a tratti anche ridere di gusto per quanto è divertente e bizzarro.
Altre opere del mondo arabo, una dall’Iran e una dalla Turchia, sono piuttosto buone. Non ci sono artisti palestinesi in questa mostra. Da un lato, questo potrebbe indicare che i palestinesi non hanno accettato di esporre in ragione del BDS, ma dubito che questo sia vero.

Il Guggenheim è un’istituzione americana; nessun artista direbbe di no ad una richiesta di esporre in uno spazio così importante. L’artista israeliano vive in esilio.
Ma perché un incontro segreto con israeliani sul lavoro palestinese non stia all’interno della mostra, questo rimane un mistero.
Ho scritto a Samia Halaby e Emilie Jacir, due note artiste palestinesi i cui lavori sono presenti al Guggenheim. Emilie ha vinto il premio Hugo Boss e ha fatto lì una mostra strepitosa.

Samia ha fornito informazioni interessanti che voglio condividere con voi.

“E’ chiaro che il successo internazionale dell’arte e degli artisti palestinesi è diventata per loro una minaccia. Il mio saggio di una cinquantina di pagine sull’arte palestinese a Gerusalemme durante la prima metà del 20° secolo, inserito nel volume di Lena Jayyusi dal titolo “Jerusalem Interrupted”, ha attirato la loro attenzione e li disturba. Questo mi rende felice. Una vibrante scena culturale in Palestina nel 1948 mentre gli inglesi stavano armando e preparando i sionisti ad occuparne dei pezzi è una verità che Israele ha bisogno di nascondere. Inoltre, che sentisse la necessità di contestare il fatto che io sia stata la prima artista palestinese ad entrare a far parte della collezione Guggenheim, per me è un complimento. Si consideri che il primo dipinto di un palestinese andato al Guggenheim, il mio dipinto, è stato dato da un ebreo. Questo potrebbe essere un dettaglio di cui hanno preso nota. Tutto molto inquietante per loro.”

I lettori che hanno bisogno di informazioni più dettagliate sull’arte palestinese dovrebbero leggere il saggio di Halaby.

A proposito di Mariam C. Said
Mariam C. Said è nata e cresciuta a Beirut, Libano, ed attualmente risiede a New York. Rappresenta una grande forza dietro alla West-Eastern Divan Orchestra, co-fondata nel 1999 dal suo defunto marito, il critico letterario e intellettuale pubblico Edward W. Said, e dal pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim. Nel 2009, la signora Said ha pubblicato l’acclamato libro di memorie “Un mondo che ho amato: La storia di una donna araba,” di sua madre Wadad Makdisi Cortas.

 

Trad. Simonetta  Lambertini

Fonte: http://mondoweiss.net/2016/09/debriefing-palestinian-guggenheim/

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