Tornare alle origini: intersezionalità e veganismo in Palestina.

“Come popolo oppresso, noi Palestinesi possiamo giungere a una maggiore comprensione di questa filosofia  attraverso il ritorno alle nostre radici e all’esame del nostro patrimonio culturale arabo. In varie epoche della storia, la nostra società è stata certamente più progressista di altri Paesi in termini di diritti umani e diritti degli animali”.

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Ahlam Tarayra – Maggio 2019

Immagine di copertina: foto di Palestinian Animal League – Ramallah 2018

I concetti di intersezionalità e di veganismo, ovvero vedere l’interconnessione tra tutte le forme di oppressione e il modo in cui il ciclo della violenza raggiunge gli animali, non sono in larga parte riconosciuti in Palestina o in molti altri Paesi del mondo, inclusa l’Europa. Tuttavia in Palestina la violenza gerarchica tra gli umani o contro gli animali è molto presente. In effetti, l’eredità coloniale e la prolungata occupazione israeliana hanno giocato un ruolo significativo nell’ostacolare l’evoluzione di una società progressiva intersezionale nella Palestina occupata,  che al contrario ha fatto notevoli passi indietro sui diritti delle donne, i diritti LGBT e i diritti degli animali. Pertanto, tornare alle origini è un passo avanti per individuare quando e dove le cose  hanno cominciato ad andare male e a come tornare sulla giusta via per creare una società migliore sia per gli umani che per gli animali.

Il tradizionale qalayyet bandoora, spezzatino di pomodoro vegano, al quale molti oggi aggiungono carne. Foto per gentile concessione dell’autrice.

In Palestina, il cibo vegano è più comunemente conosciuto come “siyami”, il termine arabo per indicare il cibo che rientra nei dettami del digiuno cristiano, ed è il termine che uso spesso quando chiedo gli ingredienti dei piatti nei buffet all’aperto o nei negozi di dolci in città come Ramallah e Betlemme. Tuttavia, la cucina tradizionale palestinese è stata principalmente vegetariana, anche vegana in larga misura, ma non è mai stata etichettata come tale. In passato in Palestina il consumo di carne era basso, come in molti altri Paesi nel mondo. Si ritiene che il notevole aumento del consumo di carne possa essere collegato a una serie di fattori, tra cui l’economia capitalistica globale dominante. Sotto l’impatto del dominio ottomano sulla cultura araba, la carne è stata introdotta come cibo d’élite, in quanto si presumeva che chiunque avesse più denaro dovesse automaticamente consumare più carne. E infine, il popolo palestinese è diventato sempre più disconnesso dalla propria terra a causa dei continui spostamenti forzati e degli alti costi richiesti dalla coltivazione della terra, dato che le risorse naturali dell’Area C (l’oltre 60% della Cisgiordania in cui la maggior parte  di aree agricole sono situate,unitamente alle risorse idriche) sono nelle mani dell’occupazione israeliana. Vale la pena sottolineare che, sulla scia della Nakba, la catastrofe del 1948, i Palestinesi iniziarono a fare affidamento su prodotti acquistati piuttosto che coltivati o prodotti in casa . L’esodo forzato di centinaia di migliaia di Palestinesi ,diventati rifugiati sparsi in tutta la Palestina e nei Paesi limitrofi, ha spinto molti a contare sugli aiuti forniti dalle Nazioni Unite (ONU) , compresi quelli alimentari. Si ritiene infatti  che la carne in scatola e le sarde siano state introdotte dopo la Nakba come cibo “di supporto”.

Abu Zayd si congeda da Al-Harith prima del suo ritorno alla Mecca. Un disegno presente nel libro Al-Makamat (The Meetings), c. 1200. Foto per gentile concessione di Scroll.in. *

Considerando che la Palestina è un paese relativamente povero, oggigiorno il consumo di carne e latticini è necessariamente connesso al potere d’acquisto e non il risultato di una scelta consapevole. Secondo il Central Bureau of Statistics (PCBS) palestinese, l’attuale consumo mensile di carne e di pollame pro capite è di 3,7 kg. Le statistiche PCBS affermano inoltre che i latticini e le uova si classificano come il quarto alimento più consumato, con 2,3 kg pro capite al mese. Inoltre, l’Unione degli Agricoltori Palestinesi ha annunciato nell’agosto 2017 che vengono consumati ogni anno 204 milioni di litri di latte vaccino nei Territori Palestinesi occupati. Considerati i fattori sopra citati, il consumo di carne, latticini e uova aumenterebbe se la società diventasse più ricca. Questo viene effettivamente promosso e incoraggiato attraverso i programmi di aiuto internazionale, compresi quelli gestiti dalle agenzie delle Nazioni Unite.

Pertanto, la maggior parte dei Palestinesi considera la carne, specialmente la carne rossa, un alimento di lusso. È obbligatorio servire carne agli ospiti a casa o al ristorante poiché è percepito come un modo per mostrare rispetto e generosità. Ai matrimoni, specialmente nella Cisgiordania del sud, servire agnello e manzo in grandi quantità è un must. Il matrimonio più piccolo prevede almeno l’uccisione di dieci agnelli. Nello stesso contesto, sacrificare animali (principalmente agnelli e mucche) è ancora un rituale religioso eseguito durante la festa di Al-Adha, quando molte famiglie musulmane uccidono uno o più animali  come sacrificio a Dio e per sfamare i poveri. Poiché la macellazione degli animali viene spesso effettuata in pubblico, nelle strade o nei cortili delle case di famiglia, soprattutto nelle zone rurali, i bambini imparano esattamente da dove proviene la carne e come viene ottenuta. Nello stesso contesto, è raro trovare opzioni vegane come piatti principali nei menu dei ristoranti in Palestina, ed è molto raro trovare opzioni vegane di insalate e dolci etichettati come vegani. Di conseguenza, l’ambiente culturale e religioso in Palestina, combinato con l’impatto negativo dell’occupazione israeliana sulla vita palestinese, mantiene il veganismo in basso nella lista delle priorità rispetto ad altre questioni o cause come la liberazione della terra e i diritti umani.

Da una prospettiva intersezionale, tuttavia, evidenziare il danno ambientale causato dalla produzione di carne, il suo impatto negativo sulla salute e il fatto che aumenti la povertà in tutto il mondo, potrebbe contribuire a promuovere il veganismo in Palestina e nel mondo arabo come una nobile causa di grande priorità. Le persone religiose, ad esempio, dovrebbero essere consapevoli dell’impatto negativo degli allevamenti di animali sull’ambiente e del modo in cui il consumo di prodotti animali aumenta e aggrava la povertà globale, oltre a provocare problemi di salute che possono causare malattie cardiache e morte precoce . Considerando che le suddette argomentazioni potrebbero essere ritenute meno importanti da molte più persone in Palestina che in altri Paesi, l’introduzione del veganismo dal punto di vista degli oppressi potrebbe fornire un’angolazione diversa. Come popolo oppresso, noi Palestinesi possiamo giungere a una maggiore comprensione di questa filosofia  attraverso il ritorno alle nostre radici e all’esame del nostro patrimonio culturale arabo. In varie epoche della storia, la nostra società è stata certamente più progressista di altri Paesi in termini di diritti umani e diritti degli animali.

Sostenere una società palestinese intersezionale significa raggiungere un punto in cui non si considera il veganismo solo una dieta limitata al consumo di vegetali, ma piuttosto uno stile di vita che aiuta la persona palestinese vegana a combattere tutti gli atti di crudeltà e di sfruttamento e tutte le forme di oppressione (dal momento che la sperimentiamo  noi stessi come persone oppresse), dove le femministe palestinesi comprenderebbero  che consumare prodotti animali è un’espressione di quello stesso  potere al servizio del sistema gerarchico che vogliono distruggere.

Tenendo presente il punto di vista palestinese, è anche importante non presentare  il veganismo come un’altra “idea occidentale” a noi imposta. In primo luogo, semplicemente perché non lo è. In secondo luogo, perché questo livello di consapevolezza è stato vissuto da altre persone nel corso della storia. Anche se ci possono essere stati molti personaggi che hanno vissuto adottando uno stile di vita vegano, conosciamo solo figure storiche ben note come Epicuro, Socrate e Buddha.

Molto interessante è un personaggio storico arabo che era vegano e che  avrebbe potuto avere un impatto maggiore sulla società. E sì, abbiamo Al-Ma’arri, un filosofo arabo che nacque nel 973 e che scrisse un  eccezionale poema, ormai vecchio di mille anni,  intitolato “Non rubo più dalla Natura”, in cui esprimeva una straordinaria compassione verso gli animali e  in cui rifiutava fortemente lo sfruttamento della relazione madre-figlio:

“Non mangiare ingiustamente il pesce che l’acqua ha abbandonato,

E non desiderare come cibo la carne degli animali macellati,

O il latte bianco delle madri che destinano la loro pura poppata

alle loro giovani, non nobili figlie.

E non rattristare gli ignari uccelli rubando le loro uova;

perché l’ingiustizia è il peggiore dei crimini.

E risparmia il miele che le api ottengono industriosamente

dai fiori delle fragranti piante;

Non l’hanno immagazzinato perché venga preso da altri

Né lo hanno raccolto come dono o ricompensa.

Mi sono lavato le mani da tutto questo;

e vorrei aver percepito questa mia strada prima che i miei capelli fossero diventati grigi!

Ricordo anche una storia che mi è stata raccontata durante gli anni della mia infanzia . Una volta, il cieco Al-Ma’arri era gravemente malato e le persone che lo accudivano gli portarono da mangiare un pollo, anche se sapevano che era vegano. Giustificarono la loro azione dicendo che il medico aveva prescritto il pollo per favorire una pronta guarigione. Con il cuore spezzato, Al-Ma’arri toccò il pollo cotto e, parlando all’uccello morto,  pronunciò la sua famosa frase: “Ti hanno prescritto solo perché sei debole. Avrebbero mai prescritto un cucciolo di leone? ”

Un cartello all’esterno del Landscape Ecomuseum di Battir (vicino a Betlemme) ricorda ai visitatori di trattare gli animali con rispetto. Foto per gentile concessione dell’autrice.

In realtà, non dobbiamo ricominciare da zero, fintantoché abbiamo la bellissima opera d’arte sul muro esterno  del Landscape Ecomuseum di Battir, vicino a Betlemme, creato in ricordo di una lucertola uccisa da una persona che stava visitando il villaggio.

 

In questa ricetta vegan della tahini di patate, le polpette sono state sostituite da crocchette preparate con funghi, cipolle e soia. Foto per gentile concessione dell’autrice.

Per utilizzare l’intersezionalità del veganismo con la situazione politica come lavoro di advocacy in Palestina,  occorre affermare chiaramente che l’essere vegani è in linea con la morale presente nella nostra letteratura, incluso nel Corano, che afferma che tutti gli animali e gli uccelli sono nazioni a sé stanti, comunità proprie, esattamente come gli umani (6:38). Quindi, è importante affermare che il veganismo e l’intersezionalità sono in realtà un elemento significativo nella lotta contro il sistema che cerca di sopprimere questi valori. Occorre anche mostrare in che modo il colonialismo ha promosso la subordinazione delle donne agli uomini e l’omofobia e come ciò si sia fino ad ora manifestato nelle norme culturali e nelle credenze religiose. Un semplice esempio sta nel fatto che le donne arabe storicamente non cambiavano i loro cognomi dopo il matrimonio, mentre è chiaramente documentato che iniziarono ad acquisire i cognomi dei loro mariti durante l’era coloniale, una pratica che si è mantenuta da allora. Inoltre, esiste una letteratura significativa sull’omosessualità come normale orientamento sessuale nelle società arabe durante l’era islamica. E’ vero, si potrebbe sostenere che anche allora gli omosessuali erano considerati “non-uomini” (a seconda del loro ruolo nella relazione fisica), ma ci sono evidenze che erano almeno riconosciuti nella loro identità sessuale (come si può vedere in un disegno di Yahya Ibn Mahmud al-Wasiti nel libro Al-Maqamat (Gli incontri), pubblicato da Al-Hariri in Siria o Iraq nel 1240 circa, in cui si vedono le due figure maschili principali baciarsi in una scena di addio). Questo riconoscimento appare davvero progressivo rispetto alla situazione attuale, dove  dichiararsi omosessuale è quasi impossibile in Palestina e in altri Paesi arabi e islamici. D’altra parte, è importante sottolineare come il governo ottomano e la prolungata occupazione israeliana abbiano contribuito enormemente a enfatizzare varie forme di oppressione che generano un ciclo di violenza che costituisce un ostacolo fondamentale negli sforzi della Palestina di trasformarsi in una società con una mentalità aperta  che riconosce che tutte le istituzioni oppressive (razzismo, sessismo, omofobia, transfobia, abilismo, xenofobia, classismo e specismo) sono interconnesse e non possono essere esaminate separatamente.

Ahlam Tarayra è un attivista vegana pro-intersezionale che, attraverso il suo impegno ad al MUSAWA, The Palestinian Center for the Independence of the Judiciary and the Legal Profession, ADWAR-Roles for Social Change Association e The Palestinian Animal League, lavora a favore di una giustizia per tutti e per migliorare l’ambiente palestinese per gli animali e le persone allo stesso modo, come percorso verso un autentico sviluppo.

 

Trad: Grazia Parolari “ contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – Invictapalestina.org

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