Com’è essere un rifugiato di seconda generazione

L’ingiustizia e il dolore dell’esodo  nutrono una fiamma inestinguibile, e la fiamma è viva  nei miei figli, rifugiati di terza generazione.

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Kareem Sakka  – 14 gennaio  2020

I miei primi ricordi di Israele risalgono alla guerra dell’ottobre 1973. Bambino, già “sapevo” che Israele era un invasore in quella che era una parte assonnata del pianeta terra. Nonostante le stazioni radio e televisive di tutto il mondo rivendicassero vittorie arabe, anche allora sapevo che erano notizie false, i bambini riconoscono i bugiardi dal loro tono di voce.

È difficile immaginare che allora Israele avesse solo 25 anni. Guardando indietro, la copertura mediatica del Libano sulla guerra (e),  così come quella sul concetto di Israele, era probabilmente meno immaginaria rispetto alla narrazione degli altri Paesi arabi che si vantano delle vittorie.

Anche allora, non credo di aver mai percepito  da nessuno  la vera speranza di un ritorno a Jaffa. Mio padre non ha mai guardato indietro, il trauma deve essere stato troppo doloroso, tutti nella sua famiglia hanno ammesso a se stessi che non  sarebbero tornati mai più. Non una parola pronunciata sul tornare, non a casa, non nelle riunioni di famiglia, non in TV, l’obiettivo si trasferì nel recuperare la Cisgiordania e il Sinai. La vergogna fu travolgente,  e da lì la negazione. La foto della casa di famiglia in stile Bauhaus nel quartiere Ajami di Jaffa che mia nonna teneva sul suo comodino è ancora impressa nella mia memoria.

Per la maggior parte delle persone, la vita  andò avanti, tutti quelli che conoscevo lavoravano e facevano quadrare i conti, il Libano accolse con favore molti migranti e offrì loro un nuovo  inizio. Incaricato di liberare le terre palestinesi, l’OLP e le sue fazioni non assomigliavano per niente alle persone che conoscevo,  modellavano  personaggi associati a Nasser, all’Unione Sovietica, a Guevara e ad altri  prepotenti  che io adolescente vedevo attraverso occhi educati in una scuola cattolica. Volevano un popolo che assomigliasse a loro, piuttosto che viceversa, i rifugiati non hanno il lusso di eleggere i loro leader dopo tutto.

Col passare del tempo, il Qadiya, (la causa palestinese)  guadagnò il centro della scena  di tutti i despoti: distruggere Israele era uno strumento usato da Baghdad ad  Algeri e persino a Teheran per radunare e pacificare le masse. Questi despoti dirottarono, confiscarono  e commercializzarono  il Qadiya. Quando Sadat sorprese il mondo con la sua coraggiosa visita alla Knesset a Gerusalemme, c’era la speranza di recuperare la Cisgiordania, Gerusalemme e persino le alture del Golan, c’era speranza per la pace, sentii sussurrare gli adulti mentre tornavano a Jaffa, ripercorrendo il breve viaggio che molti palestinesi avevano fatto a Beirut dopo il massacro di Deir Yassine. Shamir e Sharon interruppero ogni speranza, cementando un rapporto di odio e di dominio, e subito dopo, nel 1982, Israele invase il Libano. Vedere  i soldati israeliani sfilare a Beirut  fu nauseabondo. Il mio rapporto con Israele fu coniato durante la mia adolescenza . “Vado  avanti con la mia vita, senza guardare indietro, costruirò una nuova vita voltando le spalle alla sponda orientale del Mediterraneo”, un sentimento che milioni di persone nella regione hanno provato mentre erano costretti a cercare rifugio in terre più sicure. Le idee del diritto al ritorno o di un equo compenso non mi sono mai venute in mente, ho avuto il lusso di poter dire: la terra e il diritto al ritorno non sono negoziabili.

Avanzando veloce di 36 anni, nel 70 ° anniversario della Nakba (la catastrofe palestinese), mio ​​padre mi sorprese quando mi parò per la prima volta del diritto al ritorno. Con poche parole ben scelte,  mise la mia bussola nella giusta direzione: il diritto al ritorno è sacro, Gerusalemme è la capitale del popolo palestinese, Israele è un invasore, inaccettabile tutto ciò che non preveda la soluzione a uno Stato.

Non passa giorno per lui senza che pensi a Jaffa. Come possiamo noi, rifugiati,  riuscire a non desiderare anche solo per un giorno di tornare quando quotidianamente leggiamo e vediamo compiersi ingiustizie su di un popolo disumanizzato, spogliato della sua dignità da persone  di tutto il mondo che sono invitate a stabilirsi ed espellere gli abitanti autoctoni? L’ingiustizia e il dolore dell’esodo  nutrono una fiamma inestinguibile, e la fiamma è viva  nei miei figli, rifugiati di terza generazione, nati a meno di un miglio da dove è  stata attuata la Dichiarazione Balfour.

Molti palestinesi moderati hanno pagato un costo troppo elevato per aver parlato della questione, con da un lato  gli establishments (al plurale perché abbiamo due autorità palestinesi in competizione, impantanate in problemi su entrambe le parti della Palestina del 48)  che temono che la loro presa sul Qadiya si stia indebolendo , e dall’altro gli attacchi che provengono da ogni lato. Rimanere impegnati  per  un ritorno in Palestina non è una scelta facile per le prossime generazioni, sicuramente il rifiuto di naturalizzarei palestinesi ovunque si trovino nei paesi arabi ha mantenuto viva quella fiamma.

L’idea di una convivenza pacifica  si è dimostrata  fino ad ora un’illusione, ma dobbiamo essere pronti a tornare, accettare una soluzione a un solo Stato, e dobbiamo iniziare a pianificarlo ora. Tra non molto, Israele celebrerà 100 anni di occupazione: sarà in grado di mantenere le pratiche di uno Stato di apartheid? Fino a quando una soluzione equa di un solo Stato non verrà accettata dai palestinesi, l’ingiustizia e la disumanizzazione che Israele commette quotidianamente contro i palestinesi che vivono sotto occupazione o come rifugiati, continueranno a perseguitare gli ebrei in Israele e oltre.

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” – invictapalestina.org

 

 

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