ACCORDI DI OSLO – Palestina, questo paese promesso ma già rubato

L’8 luglio 2020, il geografo palestinese Khalil Tafakji, che ha mappato per 30 anni la colonizzazione dei territori occupati, è stato arrestato dalla polizia israeliana e in seguito rilasciato, dopo avergli sequestrato documenti e computer.

Fonte – Versione francese

 31° Nord 35° Est, di Khalil Tafakji

Per trent’anni, Khalil Tafakji ha percorso la Palestina. Ha disegnato la mappa dettagliata dell’impresa israeliana di conquista del territorio. È la sua esperienza che racconta in 31° Nord 35° Est. Cronaca geografica della colonizzazione israeliana. Nel primo capitolo che riportiamo, racconta la presentazione dei suoi lavori alla dirigenza palestinese e a Yasser Arafat tornato dall’esilio. E il loro stupore.

In quel giorno di primavera 1995, stavo guidando verso la città più antica del mondo. Avevo un appuntamento negli uffici di Yasser Arafat a Gerico. Come al solito dopo il suo ritorno dall’esilio di un anno prima, il capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina aveva raggiunto in elicottero la città oasi situata in mezzo al deserto, a due passi dal Mar Morto e dalla Giordania. Dal maggio 1994, i palestinesi godevano dell’autonomia nella Striscia di Gaza, a sud-ovest di Israele, e a Gerico, a est dei territori occupati. Abu Amar, questo il suo nome di battaglia, era costretto a spostarsi in volo tra questi territori a poche centinaia di chilometri di distanza. Guidare su strada lo avrebbe costretto ad attraversare i confini di Israele.

Sulla scia della dichiarazione di Oslo, il primo passo nei nostri negoziati per una pace incerta firmata nel 1993 sui prati della Casa Bianca a Washington, ero stato invitato a presentare le mie ricerche sul presente e futuro sviluppo della colonizzazione israeliana.

 

L’IMMENSA TELA DELL’OCCUPAZIONE ISRAELIANA

 

Al mio arrivo, una delegazione di nove leader politici palestinesi circondava Yasser Arafat in una sala conferenze spaziosa e impersonale. Ci preoccupammo di chiudere le porte e spegnere i nostri telefoni. Per tre ore raccontai le realtà della colonizzazione israeliana, proiettando su uno schermo le mappe che avevo disegnato negli ultimi dieci anni. L’atmosfera era pesante. Si sarebbe appesantita ancor più quando, per concludere, avrei detto a Yasser Arafat che non c’era uno Stato palestinese. Non c’era uno Stato. Non c’era niente.

Stavo ovviamente parlando della Cisgiordania, che dovrebbe tornare a noi nel quadro di una soluzione politica a due Stati, stabilendo i palestinesi come vicini sovrani dei loro cugini israeliani. Occupata dalla guerra del 1967, la Cisgiordania non era altro che un’enorme tela di riserve naturali e siti militari, dove si annidavano decine di avamposti; acri di territorio presi con la forza dai coloni più estremisti e che, per magia di una serie di leggi storiche o votate su misura, erano finalmente legalizzati da Israele. Avevo anche dedicato un capitolo a Gerusalemme est, parte araba della Città Santa in cui sognavamo di stabilire la capitale di un improbabile Stato palestinese, la questione più delicata nella nostra lotta contro lo Stato ebraico, che rivendica la sua sovranità su tutta la città. Gerusalemme est ha subito le manovre più aggressive: case distrutte, sequestrate, rubate, terre confiscate, e tra l’altro posti di blocco eretti alle porte della municipalità e agli incroci strategici nella città vecchia. Alla fine descrissi le linee di forza della strategia di colonizzazione israeliana, dalla nascita del loro paese nel 1948, e la loro lotta tattica nell’acquisizione insoddisfatta delle nostre terre, con l’unico obiettivo di estendere lo Stato di Israele dal Mar Mediterraneo alla Giordania.

Dalla firma della Dichiarazione di Oslo, l’OLP, per lungo tempo qualificata come “terrorista” dal nostro nemico, era diventata l’interlocutrice diplomatica israeliana.

Invitandomi a Gerico, i responsabili del movimento si aspettavano un’accurata valutazione della colonizzazione in Cisgiordania e, per me, era l’occasione per esporre senza mezzi termini la nostra situazione. Ma prima di andare avevo telefonato al mio amico, capo e guida, Fayçal Al-Husseini. A capo della Società di studi arabi, era il responsabile palestinese nei colloqui su Gerusalemme.

I negoziati avviati alla fine degli anni ’90 avevano suscitato una rinnovata fiducia nella dirigenza palestinese, che si era rafforzata da quando godeva di una parziale autorità su una piccola e frammentata area del territorio. Così venivo a fare il guastafeste, ne ero pienamente consapevole. Avevo chiesto a Fayçal di prendersi cura di mia moglie e dei miei quattro figli nel caso fosse successo il peggio.

 

FAR PARLARE LE MAPPE

 

A Gerico la tensione era palpabile. Ma ero preparato. Avevo l’opportunità unica di far parlare le mappe e sentivo che era mio dovere non preoccuparmi di virate semantiche o protocollari. La realtà sul campo era dura e il futuro preoccupante. Da quasi tre anni i palestinesi trattenevano l’impazienza. Aspettavano risultati tangibili dalle nostre discussioni con gli israeliani, sia prima che dopo la dichiarazione di Oslo. Erano queste a presiedere il nostro futuro. Ero lì come cartografo. Un semplice tecnico.

Ma più andavo avanti nella mia dimostrazione, più i miei ascoltatori si irrigidivano. Abu Amar, suo nome di battaglia, dondolava nervosamente le gambe e potevo percepire un leggero tremore sulle sue labbra. Quando annunciai al futuro capo dell’Autorità Palestinese che non aveva nulla, nessuno Stato, mi trafisse con lo sguardo. Pensai bene di precisargli che stavo parlando come cartografo. “Non so se qualcuno le ha promesso che avrebbe avuto uno Stato, ma parlo a partire dalle mappe e, se guardiamo le mappe, non c’è uno Stato palestinese … Lei non ha niente.”

Poi Yasser Arafat contestò i miei dati sulle costruzioni, e passammo a parlare delle cifre, del numero di unità costruite qua e là dall’occupante, di quelle a venire. Abu Amar era un vero leader, sempre pronto a rivedere le sue argomentazioni per poco che tu fossi abbastanza convincente. E io cercavo di esserlo. Ma lui metteva sul tavolo statistiche meno drammatiche di quelle che esponevo io e mi sembrava che stesse sottovalutando la progressione della colonizzazione, che non misurasse la profonda ambizione degli israeliani e i loro obiettivi a lungo termine. Vedevo anche, in questo, come un modo per rassicurarsi sulle intenzioni più oscure del nemico con cui stavamo negoziando, ma non mi arresi, ben consapevole che stavo sfidando senza vergogna le informazioni di cui disponeva il capo e, dunque, la strategia che ne derivava. La mia ricerca dimostrava chiaramente che senza grandi cambiamenti, non ci sarebbe stato uno Stato palestinese qui.

“No ! Ho uno Stato”, disse Arafat seccamente.

 

IL PAESE PROMESSO

 

Sembrava molto scioccato.

L’ho incontrato la prima volta nel 1991, in Giordania. Colsi l’occasione per dargli una mappa di Gerusalemme che repertoriava gli insediamenti, gli spazi naturali e mostrava ciò che restava della nostra futura capitale. Ingegnere di formazione, Arafat probabilmente non aveva un’esatta percezione delle questioni territoriali. Già allora, mi sembrò che non afferrasse completamente la gravità di ciò che stava accadendo sotto ai nostri occhi.

Tra il 1983 e il 1995, avevo potuto osservare in dettaglio la realtà del paese che ci era stato promesso. La risoluzione 242 votata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967 e la decina di condanne che da allora erano seguite accoglievano la creazione di Israele, ma dichiaravano inammissibile l’acquisizione di territori con la forza o la guerra; facevano appello al ritiro delle forze israeliane alla fine dell’occupazione e i palestinesi confidavano con tale forza nel diritto internazionale da credere che Israele alla fine avrebbe abbandonato le sue conquiste di guerra del 1967.

Il mio lavoro quotidiano mi impediva di crederci. Ogni nuova colonia costruita nei territori occupati registrava un nuovo fatto compiuto che io registravo sulle mie carte e che, col passare del tempo, come presagivo, sarebbe stato impossibile annullare. Perdevamo terreno, nel senso letterale della parola. E i piccoli passi che facevamo verso questa pace in cui credevamo non invertivano per niente la tendenza.

Da parte mia, da molto tempo, e devo dire quasi al centimetro, avevo sentito l’urgenza della situazione che stavamo affrontando. Avevo capito che Israele non desiderava la creazione di uno Stato palestinese e questa certezza proveniva dagli anni trascorsi a percorrere la Palestina storica. Avendo osservato, dal 1983, la colonizzazione della Cisgiordania e averla riportata su mappe, avendo visto la città vecchia di Gerusalemme e i quartieri arabi a est combattere per ogni centimetro, sapevo che il progetto di uno Stato palestinese non sarebbe stato qui, non in queste terre. Non adesso.

 

Khalil Tafakji

Cartografo e geografo palestinese, ex consigliere di Yasser Arafat, membro della delegazione palestinese durante i negoziati a Taba (1992-2001).

 

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org

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