Il mio nome è Winnie e sono sopravvissuta al sistema della kafala libanese

Con l’aggravarsi della crisi economica libanese, la già disastrosa situazione delle lavoratrici  domestiche migranti sta diventando ancora più difficile.

Fonte: English Version

Winnie Linet – 28 agosto 2020

Immagine di copertina: A volte le lavoratrici migranti sono trattenute in aeroporto per giorni senza cibo, in attesa che i loro nuovi datori di lavoro le vadano a prendere | Illustrazione di Alexandra Nikolova (Ål Nik). Tutti i diritti riservati.

Il mio nome è Winnie Linet. Sono cresciuta in una grande famiglia nel Kenya occidentale. Nel 2013 lasciai il Kenya per la prima volta per lavorare in Libano come collaboratrice domestica nell’ambito del sistema Kafala. Questo è un sistema di sfruttamento che lega il visto e il permesso di lavoro di un migrante all’approvazione del datore di lavoro.

Voglio raccontarvi com’è stato e cosa motiva i giovani come me ad andare a lavorare all’estero. Una volta finita la scuola a diciassette anni, mi sentivo invincibile, piena di energia per perseguire i miei sogni, per studiare all’università e diventare giornalista. La vita sembrava semplice e credevo che i miei sogni si sarebbero avverati.

Tuttavia, la realtà era molto diversa. Mia madre era l’unica fonte di sostentamento, provvedeva a me e ai miei cinque fratelli e quando superai gli esami per studiare giornalismo all’università, non potè  permettersi di pagarmi le tasse. Quindi lavorai vendendo verdure, e poi giocattoli, per pochi soldi. Poi in un negozio Mpesa. Poi vendendo bottiglie d’acqua per strada per 5 scellini kenioti (4 pence). Sentivo che la società mi guardava dall’alto in basso e così iniziai ad allontanarmi dai miei coetanei che si erano distinti ed erano andati all’università. Quando un lontano parente mi offrì un lavoro all’estero, accettai immediatamente.

Winnie lascia la sua famiglia per lavorare e seguire i suoi sogni , ovvero guadagnare abbastanza  per andare all’università. | Illustrazione di Alexandra Nikolova (Ål Nik). Tutti i diritti riservati

La mia situazione non era unica. In tutto il Kenya ci sono giovani come me disposte a rinunciare a tutto per una vita migliore. Quando hai fame e non hai cibo in tavola, non ti interessa come può essere la vita all’estero, sai solo che devi accettare qualsiasi offerta possa aiutarti a cambiare la tua situazione.

Dopo un colloquio, mi fu detto che avrei lavorato per due anni come assistente di un paziente in un ospedale in Libano. Tutto quello che sapevo del Libano era che confinava con la Siria e che la Siria era in guerra. Il giorno in cui il mio volo partì, è stato il giorno più duro della mia vita. Continuavo a piangere, finché mio fratello mi assicurò che due anni sarebbero volati. Non sapevo che sarebbe stato l’ultimo giorno in cui l’avrei visto.

 Mi spezzò il cuore pensare che questo fosse il modo in cui eravamo viste agli occhi dei nostri datori di lavoro. È questo tipo di discriminazione contro i neri che mi ferisce di più.

All’arrivo all’aeroporto di Beirut, venni condotta in un’area di attesa dove erano state sistemate altre tre ragazze keniote. Per due di loro era la prima volta in Libano, mentre una delle ragazze tornava da una vacanza dopo aver trascorso tre anni nel Paese. Ci avvertì che non avremmo svolto i lavori che ci aspettavamo, ma che invece saremmo state collaboratrici domestiche.

Mentre aspettavamo in quella stanza,  vidi molte nazionalità. C’erano donne provenienti da Bangladesh, Nepal, Etiopia, Filippine, Benin e Madagascar e altro ancora. Uno dopo l’altro, i loro nomi furono chiamati e se ne andarono. Ma mentre aspettavo, seppi anche di donne che erano state lasciate  all’aeroporto per giorni senza cibo in attesa che qualcuno si presentasse e le reclamasse. Dopo sette ore mi chiamarono e con un sospiro di sollievo partii per incontrare il mio nuovo datore di lavoro.

A volte le lavoratrici migranti vengono trattenuti in aeroporto per giorni senza cibo, in attesa che i loro nuovi datori di lavoro vadano a prenderli | Illustrazione di Alexandra Nikolova (Ål Nik). Tutti i diritti riservati

Fui accolta da una donna sulla cinquantina. Era gentile e sebbene fossi piena di paura, cercavo di non mostrarlo. Mi disse  che dovevo lavorare nella casa di sua madre a Tripoli. Prima di questo, tuttavia, dovevo registrarmi presso “The Office”. Rimasi lì per tre giorni con una quindicina di altre donne. Eravamo tutte africane. Dormivamo su materassi sottili sparsi per terra. Il primo giorno mi registrai e poi pulimmo l’ufficio. Il secondo giorno, ci fu detto di sciogliere le trecce e di  lavarci i capelli. Come le altre ragazze, mi lavai nei secchi d’acqua a noi forniti. Quando ebbi finito, sentii una sensazione di bruciore su tutto il viso e presto fu chiaro che stavamo tutte soffrendo. Non sapevamo il perché,fino a quando una ragazza etiope, che era già stata in Libano,  ci spiegò che l’acqua era stata trattata con pesticidi per uccidere le cimici dei letti che credevano che le ragazze africane portassero tra i capelli perché non li lavano spesso. Mi spezzò il cuore pensare che questo fosse il modo in cui eravamo viste agli occhi dei nostri datori di lavoro. È questo tipo di discriminazione contro i neri che mi ferisce di più.

Il mio primo anno in Libano è stato il più difficile. Non mi aspettavo di fare quel lavoro e non è stato facile alzarmi presto ogni mattina per assistere una donna anziana sulla novantina. Parlava solo arabo e capii che per mantenere il mio lavoro avrei dovuto  imparare la lingua velocemente. Tuttavia, quando confronto la mia esperienza con quella di altre, mi ritengo fortunata ad aver trovato la famiglia che avevo. Sebbene non fossero perfetti, erano giusti. Mi era permesso di parlare con la mia famiglia una volta alla settimana e, dopo un anno, anche di avere il mio telefono. Non avevo un giorno libero, ma solo qualche ora la domenica, cosa che apprezzavo perché altri lavoratori che conoscevo non avevano mai del tempo libero.

Winnie guarda fuori dalla finestra della casa dove lavora a Tripoli | Illustrazione di Alexandra Nikolova (Ål Nik). Tutti i diritti riservati

Fuori casa, ho affrontato molto razzismo. Quando salutavo le persone per strada, nessuno si preoccupava di rispondere. Sentivo che si presumeva che i neri fossero inferiori, fatti di terra e quindi incapaci di lavorare bene.

Durante il mio secondo anno,  incontrai Emma, ​​una ragazza keniota che lavorava nel quartiere. Era una madre single. Era stata portata in Libano da un agente che le aveva promesso che sarebbe stata al sicuro e che avrebbe guadagnato abbastanza per provvedere a suo figlio in Kenya. Ma all’arrivo in Libano, l’agente l’aveva consegnata a crudeli datori di lavoro per poi scomparire. Ogni volta che partivano per la capitale, la rinchiudevano in casa da sola senza cibo. E anche se  quando se ne andavano soffriva la fame, era così oberata di lavoro e fisicamente maltrattata quando erano a casa, che aspettava con ansia il momento in cui se ne sarebbero andati.

E non eravamo solo noi keniote. Una volta, una ragazza etiope arrivò a casa del mio datore di lavoro, supplicandolo di aiutarla a fuggire. Era stata rinchiusa senza paga ed era riuscita a scappare dopo che un giorno al mercato la sua signora si era dimenticata di chiuderla in macchina.

 Non dobbiamo dimenticare le lavoratrici domestiche che vivono questa crisi in un paese  straniero e che desiderano tornare in sicurezza dalle loro famiglie

Il 15 marzo 2014 morì mio fratello. Ero distrutta e volevo tornare a casa, ma poiché avevo firmato un contratto per due anni, non potevo. Niente poteva consolarmi in quel momento. Passarono cinque anni prima che tornassi in Kenya e rivedessi la mia famiglia. È stato il momento più bello della mia vita, ma si è tinto di tristezza per la morte di mio fratello. E per quanto riguarda i miei sogni, nonostante il dolore del mio viaggio, ho raccolto abbastanza soldi per frequentare l’università e sono grata di essere riuscita ad arrivare a casa sana e salva.

Winnie torna dal Libano nella sua casa nel Kenya occidentale. | Illustrazione di Alexandra Nikolova (Ål Nik). Tutti i diritti riservati

La corruzione, l’instabilità politica e il COVID-19 hanno accelerato la crisi economica del Libano e la situazione per le lavoratrici domestiche migranti sta diventando ancora più difficile. Mentre i libanesi stanno lottando per mettere il cibo sulle loro  tavole, molti datori di lavoro stanno semplicemente abbandonando le loro collaboratrici domestiche per strada senza   pagarle e senza neppure i soldi per un biglietto di ritorno a casa.

Il 4 agosto 2020, un’esplosione al porto di Beirut ha ucciso più di 200 persone e ha lasciato 300.000 senza tetto. Tra queste vittime, non dobbiamo dimenticare le lavoratrici  domestiche che vivono questa crisi in un paese straniero e che desiderano tornare  alle loro famiglie in sicurezza.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

 

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