Prendersi cura della terra per prendersi cura della vita: la resistenza delle donne rurali in Palestina

Il lavoro delle contadine come attivismo contro le politiche sioniste “È stato un atto rivoluzionario, partendo da qui abbiamo cambiato la società. Ci siamo unite per mantenere vive la vita e la cultura”.

Fonte: Versión Española

Marta Saiz – 14 ottobre 2020

Immagine di copertina: Amhed Hader (a sinistra) e Nawal Yousef (a destra) alla cooperativa Deir Ballut, 22 agosto 2019. / Marta Saiz

Gli occhi di Karemeh Ahmad si illuminano quando parla della sua cooperativa agricola, un sogno che si è avverato sin dalla Prima Intifada. Mentre  si unisce cantando alle preghiere che animano la stanza, prepara il grano per fare il cuscus e confeziona lo za’atar fresco in sacchetti di plastica, per portarli al mercato il giorno successivo. Come  in un vecchio teatro, il semicerchio formatosi attorno a lei denota l’ammirazione che suscita. Si respira l’aria fresca del Mediterraneo. Nessuno direbbe che siamo in un’area occupata.

Ahmad vive a Dayr al-Sudan, a 50 chilometri da Ramallah. Ufficialmente ha fondato la cooperativa nel 2007, anche se l’attività è iniziata solo cinque anni fa. Riconosce che non è stato facile, perché non solo ha riunito un gruppo di donne, ma ha anche sensibilizzato la società e loro stesse sull’importanza di essere indipendenti e di  lavorare la terra come parte dell’identità palestinese. “È stato un atto rivoluzionario, partendo da qui abbiamo cambiato la società. Ci siamo unite per mantenere vive la vita e la cultura”.

Come molte donne, durante la Prima Intifada Ahmad dovette sopportare da sola il peso dell’intera famiglia, poiché suo marito fu imprigionato e successivamente assassinato. Così, iniziò a pensare a modi per resistere all’occupazione, come avevano fatto  i suoi antenati sin dai tempi dell’Impero Ottomano. All’inizio le condizioni erano molto precarie ed era normale per i soldati dell’esercito israeliano occupare diverse stanze delle case, che fungevano da uffici. Ma ora la cooperativa fornisce alle donne risorse e mezzi di sussistenza, con un impatto positivo sull’economia familiare. In effetti, Ahmad e le sue colleghe sono un riferimento e un’ispirazione in tutta la regione, poiché praticano quello che è noto come “sumud”, un concetto che è stato tradotto come perseveranza di fronte alle politiche israeliane, associata alle lotte quotidiane delle donne per mantenere vive le loro famiglie e la comunità.

Karemeh Ahmad (a sinistra) con le sue compagne mentre preparano il grano per fare il couscous, 16 agosto 2019. / Marta Saiz

Karemeh Ahmad: “È stato un atto rivoluzionario, partendo da qui abbiamo cambiato la società. Ci siamo unite per mantenere vive la vita e la cultura”.

Per Nidda Abu Awwad, professoressa e ricercatrice presso il Birzeit University Institute for Women’s Studies, il settore agricolo è la spina dorsale dell’economia palestinese, ma allo stesso tempo teatro di conflitto con essa, poiché la terra, componente principale dell’agricoltura,è al centro del conflitto e quindi base della resistenza. “Storicamente,nell’agricoltura le donne palestinesi sono state un pilastro fondamentale. Tuttavia, nel contesto palestinese, è difficile separare l’agricoltura come attività economica dall’agricoltura come strategia di sopravvivenza, poiché, di per sé, è un’espressione di identità e resistenza nazionale. Dobbiamo chiarire che, come palestinesi in generale, la nostra lotta contro l’entità sionista è una lotta per l’esistenza “.

Awwad afferma che durante la Seconda Intifada ci fu una crescente partecipazione delle donne all’agricoltura. Tale partecipazione nacque come strategia di sopravvivenza individuale e necessità di affrontare il deterioramento delle condizioni di vita della popolazione, dovuto alle chiusure e ai divieti del coprifuoco. Allo stesso tempo, questa situazione portò le donne a creare cooperative agricole con progetti di produzione di piante, animali e cibo. Questo accadde anche perchè molte di loro erano vedove,o avevano i mariti in prigione,  o perché gli uomini, a seguito della  continua distruzione dei campi seminati e del furto d’acqua, erano obbligati ad andare a  lavorare in Israele dove i salari erano più alti.

“Qui paghiamo l’acqua più costosa del mondo”, dice Nawal Yousef, fondatrice di una cooperativa di donne a Deir Ballut, a 45 chilometri da Nablus. I coloni israeliani stanno rubando tutta la nostra acqua. Siamo in una delle zone più ricche di questa risorsa e, quindi, fanno pressione per mandarci via. Siamo isolate “. Possono infatti arrivare pagare più di un euro per un metro cubo d’acqua, in terre dove non potrebbero fare nulla, perché a causa della divisione della Palestina negli accordi di Oslo del 1993, nella loro città hanno appena il 6% del territorio da amministrare.

Karemeh Ahmad nella sua casa di Dayr al-Sudan il 16 agosto 2019. / Marta Saiz

Uno dei modi per affrontare al meglio questa situazione, sono i pasti che condividono tutte insieme presso la sede della cooperativa, che qualche anno fa fungeva da scuola. Le pareti rosa e i resti di disegni colorati  rimandano  il tempo in cui il muro non esisteva e la vita era più sopportabile. Yousef ride insieme ad Amhed Hader, con cui ha fondato la cooperativa con l’obiettivo di negoziare i prezzi di mercato offerti dagli intermediari, dal momento che esse stesse hanno piantato, raccolto e venduto la merce.

Nidda Abu Awwad: ” Come palestinesi in generale, la nostra lotta contro l’entità sionista è una lotta per l’esistenza “.

E ricordano come insieme sono diventate più forti nel rivendicare i loro diritti.

Yousef è nata in una famiglia della diaspora palestinese. I suoi genitori furono costretti a lasciare la Palestina durante la Nakba, il disastro della creazione dello Stato di Israele che, negli anni 1947 e 1949, portò all’esodo di oltre 700.000 palestinesi dal loro territorio. E il Venezuela li  accolse. Ha vissuto trent’anni nel paese latinoamericano fino a quando ha deciso di visitare la sua terra e rimanervi. E’ stata l’unica dei suoi otto fratelli a tornare.

Come Yousef, anche Abeer Ibder vive in un’area in cui la vicinanza del muro rende impossibile lavorare liberamente la terra. Nel suo villaggio, Dayr al-Ghusun, a 14 chilometri da Tulkarem, Ibder è agronoma e, da dieci anni, lavora la terra ereditata dalla madre. Per lei lavorarci è importante , è un suo diritto, così come quello di tutto il popolo palestinese. Sono le loro terre. “Il problema che abbiamo è che la colonizzazione sionista distrugge tutto, ciò che seminiamo e ciò che produciamo. Coltivare la terra significa combattere la colonizzazione. Prendersene cura in modo che non venga rioccupata e confiscata”.

Agri-resistenza

Undici anni fa, quando Vivien Sansour tornò nella sua città natale di Beit Jala (Betlemme), incontrò molti contadini che coltivavano la terra anche se non era economicamente sostenibile. “Rischiano la vita per lavorare la terra, per mantenere vive le usanze. Il vero significato della resistenza è quello che stanno facendo queste persone; mantenere quei segni che ci rendono vivi. Questa è agri-resistenza”.

E decise che era quello che avrebbe fatto per il resto della sua vita.

Karemeh Ahmad nella sua casa di Dayr al-Sudan, 16 agosto 2019. / Marta Saiz

Sansour ritiene che non si possa separare il termine”agricolo” dalla parola “cultura”, poiché vanno di pari passo. E così nel 2014 fondò la Palestine Heirloom Seed Library, una biblioteca di semi che lavora per trovare e preservare antiche varietà di semi e pratiche agricole tradizionali. È anche un movimento per sensibilizzare la popolazione palestinese riguardo la  ricchezza dei suoi prodotti e all’importanza del consumo locale. Tuttavia, non è così facile.

 Vivien Sansour: “Rischiano la vita per lavorare la terra, per mantenere vive le usanze”

“Vivendo in una prigione come questa, dove lo Stato di Israele ci mette di fronte a una terribile industria agroalimentare in cui i prezzi sono molto più bassi, è difficile convincere della ricchezza del prodotto locale. E ancora di più perchè, quando si produce nei territori occupati, i prezzi  sono cinque volte più alti, a causa della mancanza di acqua e del pagamento di  tariffe eccessive”.

Vivien Sansour, una contadina di Betlemme, un convinto difensore dell’Agroresistenza. / SAMAR HAZBOUN

Sulla situazione delle donne contadine, Sansour parla di una lotta continua contro il sionismo, il patriarcato e la violenza dello Stato stesso. “Le donne sono costantemente in uno stato di sopravvivenza. Con la costruzione del muro rischiano la vita per uscire e poter vendere qualche chilo di prodotto. I soldati le fermano, le violano e le umiliano. E poi tornano a casa e devono anche subire la violenza strutturale. Ma questo non ci rende eroine. Perché le donne devono essere sempre eroine? È incredibile perché è resistenza, o non è giusto perché c’è un potere più alto? Per le donne di altri luoghi nel mondo è forse più facile? ”

E chiarisce: “Non voglio essere un’eroina, voglio essere qualcuno che può fare quello che vuole e non morire giovane perché stanca”.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

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