La decisione della CPI rende ancora una volta legittimi i confini israelo-palestinesi del 1967

La decisione del procuratore della CPI di avviare un’indagine su possibili crimini di guerra da parte di Israele è stata resa possibile dalla decisione delle Nazioni Unite di concedere alla Palestina il riconoscimento di Stato palestinese nel 2012.

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Amira Hass – 6 marzo 2021

Immagine di copertina: il presidente palestinese  Mahmoud Abbas  alle Nazioni Unite lo scorso anno  Wenig / AP

Solo uno Stato sovrano può concedere alla Corte Penale Internazionale (CPI) giurisdizione sul proprio territorio. Le Nazioni Unite hanno reso possibile la decisione del procuratore della CPI di indagare sui presunti crimini di guerra nel territorio palestinese occupato da Israele nel 1967, quando ha accolto la richiesta dell’OLP di riconoscere quest’area occupata e il suo popolo come uno stato chiamato Palestina.

L’opinione pubblica mondiale ha accolto questa risoluzione dell’ONU, del 29 novembre 2012, con disinteresse. Al contrario, la dichiarazione del procuratore della CPI mercoledì è stata accolta come un nuovo corso. Il movimento di Fatah si avvarrà presumibilmente di questo nesso necessario ma dimenticato nella sua campagna elettorale, anche se quando Mahmoud Abbas ha scelto la via diplomatica per ottenere il riconoscimento di Stato, non stava pensando alla CPI.

Al contrario, era sotto pressione da parte degli Stati Uniti e dell’Europa affinché non prendessero questa strada legale nell’arena internazionale. Sperava che la “minaccia” dello status di Stato e più tardi lo status stesso avrebbe migliorato le posizioni dei palestinesi e rilanciato i negoziati con Israele sull’attuazione degli accordi di Oslo.

Il nesso tra la decisione del procuratore Fatou Bensouda e la classificazione di Stato evidenzia ancora una volta la legittimità della linea del cessate il fuoco del 1949, dando rilevanza alla Linea Verde. Un palestinese coinvolto nella procedura verso l’indagine della CPI ha detto ad Haaretz: “Se sono a Tel Aviv e cinque israeliani mi picchiano e la polizia non interviene, il caso non verrebbe portato all’Aja come crimine di guerra. Mi lamenterei con la polizia e spererei che gli assalitori siano processati.

“Se cinque israeliani mi picchiassero mentre coltivo la mia terra in Cisgiordania e i soldati non intervenissero, e le autorità legali non facessero nulla per punire gli aggressori, o se cinque poliziotti mi picchiassero a Isawiyah a Gerusalemme Est, potrebbe certamente essere incluso tra i crimini di guerra”.

La scelta del ricorso alla CPI è vista come un passo audace, anche se ovvio, nella lotta palestinese contro l’occupazione. Per anni i palestinesi hanno pronunciato le sigla CPI come un rimedio per diminuire il dolore. La CPI è vista praticamente come l’unica opportunità per far pendere la bilancia a favore dei palestinesi quando il mondo si sta sempre più abituando all’occupazione israeliana, che sta diventando sempre più violenta e spudorata.

Il potere dei gruppi per i diritti

A differenza del percorso per appellarsi all’Aja, ricevere lo status di “stato osservatore non membro” alle Nazioni Unite il 29 novembre 2012 è stato visto in gran parte come un simbolo, o una rianimazione artificiale di una dirigenza al tempo incapace perché non era riuscita a mantenere le promesse fatte al popolo. Nell’ala radicale palestinese, andare alle Nazioni Unite per ricevere il riconoscimento di Stato era visto come un abbandonare i rifugiati, rinunciare al diritto al ritorno e accettare un’occupazione israeliana dal 1948 come un fatto compiuto.

Le entità che hanno trasformato il percorso simbolico e conforme, almeno agli occhi di alcuni palestinesi, dello status di Stato in un trampolino di lancio per un’azione che potrebbe capovolgere la situazione e mettere Israele sulla difensiva sono i gruppi per i diritti dei palestinesi. Per anni, i direttori di Al-Haq, Addameer, del Centro Al Mezan e del Centro Palestinese per i Diritti Umani hanno fatto la spola tra L’Aja e l’ufficio del Presidente a Ramallah, il Ministero della Giustizia e il Dipartimento Negoziale dell’OLP. Hanno preparato consistenti dossier con ciò che consideravano materiale incriminante su possibili crimini di guerra israeliani. Grazie ai loro sforzi, il popolo palestinese, i vertici di Fatah e i giovani del Movimento hanno avuto la possibilità di rivolgersi all’Aja come parte della loro lotta di liberazione.

Sotto la pressione di queste organizzazioni, il primo tentativo dell’Autorità Palestinese di avvicinarsi alla CPI, cioè, per dire che riconosce la giurisdizione della CPI nei territori del 1967, è avvenuto nel gennaio 2009, subito dopo il primo grande attacco di Israele a Gaza nell’inverno del 2008-2009. Il procuratore della CPI all’epoca prese in considerazione la richiesta per più di tre anni e nell’aprile 2012 stabilì che secondo lo Statuto di Roma (su cui si fonda l’autorità giurisdizionale) solo uno Stato può accettare la giurisdizione del tribunale.

Più conflittuale del solito per Abbas

Alcuni mesi prima, nel settembre 2011, Abbas ha perso l’opportunità di ottenere lo status di Stato. Decise di chiedere al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che la Palestina (nei confini precedenti al 1967, in linea con la dichiarazione di indipendenza dell’OLP nel 1988) fosse accettata come membro delle Nazioni Unite, sebbene fosse chiaro che la richiesta sarebbe stata respinta.

Alcune delle persone che avanzavano l’idea di ricorrere all’Aja credevano che rivolgersi al Consiglio di Sicurezza fosse volutamente inteso a rinviare la decisione sulla richiesta alla CPI, sempre a causa delle pressioni europee e americane. Trascorse un altro anno, durante il quale furono tentati colloqui indiretti tra Israele e Palestina. Quando anche questo si è rivelato inutile, i palestinesi si sono rivolti nuovamente alle Nazioni Unite e nel novembre 2012 l’Assemblea Generale ha riconosciuto lo Stato di Palestina come osservatore non membro, insieme allo Stato di Israele.

Tuttavia, passarono due anni prima che Abbas dichiarasse che avrebbe firmato lo Statuto di Roma, il 31 dicembre 2014. La guerra di Gaza dell’estate precedente, la consapevolezza che il governo israeliano stava deliberatamente perpetuando l’occupazione temporanea e la richiesta popolare di un’iniziativa spinsero Abbas a scegliere il corso tendenzialmente più conflittuale con Israele rispetto alla sua solita propensione.

Abbas ha anche presentato una dichiarazione redatta da Saeb Erekat, che le varie organizzazioni palestinesi hanno firmato, affermando di sostenere l’adesione alla CPI e di essere disposti a subirne le conseguenze; vale a dire che i membri di queste organizzazioni potrebbero essere convocati, indagati e persino arrestati perché sospettati di aver commesso crimini di guerra. Solo la Jihad islamica non ha firmato.

Dopo più di 12 anni di perseveranza, il direttore di Al-Haq Shawan Jabarin può dire: “Ero convinto che Bensouda avrebbe resistito alle tremende pressioni che le venivano fatte per non accogliere le nostre richieste, e avevo ragione. Sono convinto che alla fine verranno emessi mandati di arresto e convocazioni agli israeliani sospettati di crimini di guerra. Quando? Non lo so. Ma succederà. Non stiamo cercando vendetta, ma la prova che si può fare giustizia”.

Jabarin ha aggiunto: “Israele è avvelenata dall’ottusità dell’arroganza, di qualcuno che si sente al di sopra della legge. Ma non c’è bisogno di filosofare molto per vedere che è possibile e giusto citare in giudizio gli israeliani responsabili di crimini di guerra in base a un trattato internazionale”.

 

Amira Hass è corrispondente di Haaretz per i territori occupati. Nata a Gerusalemme nel 1956, Amira Hass è entrata a far parte di Haaretz nel 1989, e ricopre la sua posizione attuale dal 1993. In qualità di corrispondente per i territori, ha vissuto tre anni a Gaza, esperienza che ha ispirato il suo acclamato libro “Bere il mare di Gaza”. Dal 1997 vive nella città di Ramallah in Cisgiordania. Amira Hass è anche autrice di altri due libri, entrambi i quali sono raccolte dei suoi articoli.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org