“Non lasceremo mai la nostra terra”: le famiglie palestinesi che rischiano lo sfratto a Sheikh Jarrah

I residenti palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme, la cui situazione ha catturato l’attenzione del mondo, attendono una decisione della Corte Suprema israeliana sull’eventuale sfratto dalle loro case.

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Judy Maltz e Nir Hasson – 8 giugno 2021

Immagine di copertina: In senso orario da sinistra in alto: Abdel Fattah Skafi, Saleh Diab, Mohammad Sabbagh e Muna El-Kurd. Credito: Ohad Zwigenberg, Ahmad Gharabli /AFP

Per quasi 15 anni, i residenti palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est hanno combattuto i tentativi delle organizzazioni di coloni ebraici di destra di impadronirsi delle loro case. Per la maggior parte di questo tempo, la loro lotta  si è svolta lontana dai riflettori.

Ma negli ultimi mesi, con la Corte Suprema israeliana che dovrebbe annunciare una sentenza definitiva, la difficile situazione di una manciata di famiglie ha catturato l’attenzione internazionale, diventando il grido di battaglia  dei sostenitori della causa palestinese in tutto il mondo.

Lunedì il procuratore generale Avichai Mendelblit ha notificato alla Corte suprema che non sarebbe intervenuto nel caso, rafforzando l’ipotesi che avrebbe confermato le decisioni di sfrattare le famiglie prese dai tribunali inferiori. La Corte Suprema non ha ancora annunciato una data per l’udienza di apertura del caso, ma dovrebbe svolgersi entro settimane, se non giorni.

Le proteste a Sheikh Jarrah sono state considerate anche come uno dei fattori scatenanti della recente fiammata tra Israele e Hamas, che dopo 11 giorni di combattimenti si è conclusa con un cessate il fuoco.

Prima della guerra d’indipendenza di Israele nel 1948, a Sheikh Jarrah esisteva un piccolo quartiere ebraico sorto su un appezzamento di terreno acquistato da due consorzi ebraici vicino alla tomba di Shimon il Giusto, un sommo sacerdote ebreo del periodo del Secondo Tempio. Quando i giordani presero il controllo della parte orientale di Gerusalemme, i residenti ebrei fuggirono, lasciando dietro di sé le loro proprietà. Un gruppo di famiglie palestinesi, fuggite dalle loro case durante la stessa guerra, furono reinsediate nel quartiere dal governo giordano nel 1956.

In base a un accordo raggiunto tra il governo giordano e l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNWRA), nel quartiere  vennero ospitate 28 famiglie palestinesi. In cambio della rinuncia al loro status di rifugiati, sarebbero state autorizzate a vivere nelle case come inquilini tutelati per un periodo di tre anni, dopo di che avrebbero ricevuto la proprietà delle case, soggetta a un elenco di condizioni.

Nonostante questo accordo, le famiglie palestinesi non hanno mai ricevuto i titoli di proprietà. Continuano a insistere, tuttavia, che queste proprietà appartengono a loro.

 

La proprietà dei terreni è stata restituita ai trust ebraici dopo che Israele ha  occupato Gerusalemme Est durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Quindici anni dopo, venne raggiunto un accordo  che permise ai residenti palestinesi di rimanere nelle case, attribuendo loro lo status di inquilini  tutelati.

I palestinesi, da parte loro, affermano di essere stati indotti con l’inganno a firmare quell’accordo. Insistono anche sul fatto che i documenti che attestano la proprietà ebraica originale siano stati falsificati.

La terra è stata infine venduta a una società di nome Nahalat Shimon, che si occupa di trasferire sempre più famiglie ebree a Gerusalemme est. La società ha cercato di sfrattare le famiglie palestinesi per essersi rifiutate di pagare l’affitto, in conformità con l’accordo raggiunto nel 1982, e per aver costruito sui terreni senza permesso.

Ma la più grande ingiustizia, dicono i palestinesi, è che gli ebrei che hanno lasciato le loro case nel 1948 possono rivendicare i beni immobili che possedevano, mentre i palestinesi non possono farlo.

Complessivamente, circa 300 residenti arabi di Sheikh Jarrah –membri di 28 famiglie – potrebbero essere sfrattati se la Corte Suprema alla fine decidesse contro di loro. Chi sono queste persone e come sono state influenzate da questa lotta? Haaretz si è incontrato di recente con i rappresentanti di diverse famiglie per ascoltare le loro storie personali.

La famiglia Sabbagh

Mohammad Sabbagh non ricorda la casa dove ha trascorso il suo primo anno di vita. Dopotutto, aveva solo un anno quando la sua famiglia fuggì da Jaffa nel 1948. Ma ne tiene sempre una foto a portata di mano, da mostrare ai visitatori. “Vedi, ora è una sinagoga”, dice, indicando la grande foto in bianco e nero esposta nella minuscola stanza ammuffita dove riceve gli ospiti.

Sabbagh, 72 anni, condivide un edificio con i suoi quattro fratelli sulla collina nella parte orientale di Sheikh Jarrah. Lui e sua moglie condividono un appartamento con due dei loro sette figli adulti, con i loro coniugi e figli. Complessivamente, 32 membri della famiglia allargata di Sabbagh, inclusi 10 bambini, vivono in questo complesso labirintico, costruito a pezzi nel corso degli anni per accogliere il clan in crescita.

Prima che il governo giordano portasse i suoi genitori a Sheikh Jarrah, racconta Sabbagh, lui e la sua famiglia avevano vagato per la regione per quasi un decennio. Inizialmente trascorsero alcuni anni nella città egiziana di El Qantara, e da lì si diressero poi verso la Striscia di Gaza. La loro tappa successiva (a piedi)  fu Hebron e, dopo un breve periodo lì,  si trasferirono – questa volta a dorso di cammello – a Gerusalemme.

La loro prima casa di fortuna a Gerusalemme era nel vicino quartiere di Wadi Joz. ” Trasformammo un garage in uno spazio abitativo”, afferma Sabbagh.

Nel corso degli anni, ha svolto una serie di lavori occasionali, tra cui il lavoro come receptionist ospedaliero, autista e idraulico. Dal 2008, è entrato e uscito dai tribunali israeliani cercando di resistere ai tentativi dei gruppi di coloni di sfrattare lui e i suoi fratelli dalle loro case. “Non riesco a spiegarti il ​​tipo di stress in cui stiamo vivendo”, dice. Alla domanda su dove andrà se la Corte Suprema confermerà l’ordine di sgombero, Sabbagh dice: “Ci accamperemo nelle strade, proprio di fronte alle nostre case”.

La famiglia Diab

All’inizio di maggio, Saleh Diab si è fratturato una gamba durante le proteste per gli sgomberi programmati. Quel giorno, dice, non era nemmeno a capo della protesta. “Eravamo seduti qui nel patio quando ho sentito molto rumore”, racconta. “Sono uscito per vedere cosa stesse succedendo e i soldati hanno iniziato a picchiarmi. Hanno anche lanciato fumogeni». Indica il suo anziano padre in pigiama seduto in un angolo del patio. “Anche mio padre era qui. Non riusciva a respirare. Stava soffocando».

Diab, 51 anni, è nato a Sheikh Jarrah. Suo padre, che si trasferì a Gerusalemme nel 1956 come parte del programma di reinsediamento giordano, era di Giaffa. La casa di famiglia originale, posizionata vicino al Mar Mediterraneo, dice, non esiste più.

Padre di cinque figli, Diab una volta gestiva una panetteria. Circa sette anni fa, dopo il fallimento, trovò lavoro nel reparto prodotti da forno di un grande supermercato di Gerusalemme. È stato licenziato il mese scorso e crede che la colpa sia del suo attivismo politico.

“Alcuni coloni sono andati dai miei capi e hanno riferito che partecipavo regolarmente alle proteste di Sheikh Jarrah”, accusa. “Non volevano che nessun piantagrane lavorasse per loro.”

I suoi figli sono tutti in età scolare: il più grande ha 17 anni e il più piccolo 11. Dice di provare una fitta di ansia ogni mattina quando vanno a scuola e ogni pomeriggio quando tornano a casa. “L’idea che possano  essere oggetto di una bomba incendiaria mi tiene sveglio la notte”, dice.

Sua madre è morta a marzo e lui si rifiuta di credere che la causa sia stata la vecchiaia. “Sono convinto che a ucciderla sia stato il costante stress emotivo della nostra situazione “, dice.

Tuttavia, Diab è ottimista sul fatto che lui e i suoi compagni residenti alla fine prevarranno. “Non ho fiducia nel sistema giudiziario israeliano; credo in quello che sto facendo e quello che mi è diventato palesemente chiaro nelle ultime settimane è che il mondo intero è dalla nostra parte”, dice.

Infatti, non prenderà nemmeno in considerazione la possibilità di lasciare la sua casa: “L’unico posto in cui andrò da qui è al cimitero”.

La famiglia Skafi

Sulla porta d’ingresso della sua casa, Abdel Fattah Skafi ha affisso un cartello in inglese: “Non lasceremo mai la nostra terra”. Il messaggio sembra rivolto alla famiglia ebrea che si è da poco trasferita nell’edificio attiguo. Il loro bagno e il suo salotto condividono un muro. Skafi e sua moglie vivono con tre dei loro sei figli e i loro nipoti. In totale, 14 di loro condividono il piccolo spazio di quattro stanze.

Durante la guerra del 1948, la sua famiglia, originaria del quartiere Baka di Gerusalemme Ovest, si disperse in diverse parti di Gerusalemme Est, allora sotto il controllo giordano. I suoi genitori si trasferirono a Sheikh Jarrah nel 1956. Ora in pensione, Skafi, 71 anni, ha lavorato tutta la vita come calzolaio. “È la nostra professione di famiglia”, afferma con orgoglio.

Nelle ultime settimane, i suoi nipoti si sono rifiutati di frequentare la scuola. “Hanno paura che uscendo, non avranno una casa in cui tornare”, spiega. “Sentono di dover restare qui per proteggerla. Mi addolora, perché erano tutti studenti eccezionali, e ora sembrano regredire a causa di tutto quello che sta succedendo”.

Nonostante la recente esplosione di violenza tra israeliani e palestinesi, Skafi afferma di sentirsi insolitamente ottimista in questi giorni. Il primo ministro Benjamin Netanyahu “ha fatto dei terribili errori di calcolo nelle ultime settimane, specialmente quando si tratta dei palestinesi, e credo che pagherà per questo”, dice. “Sempre più israeliani hanno capito che è un disastro per loro, e questa è una buona cosa”.

Skafi dice di sentirsi incoraggiato dai tanti ebrei israeliani che sono venuti a sostenere le famiglie di Sheikh Jarrah. “È grazie a persone come loro che il mondo intero parla di noi oggi”, osserva.

La famiglia El-Kurd

L’attenzione del mondo è stata nuovamente focalizzata su Sheikh Jarrah domenica, quando la polizia ha arrestato la ventiquattrenne Muna El-Kurd, un’importante attivista locale la cui famiglia è tra quelle minacciate di sfratto. El-Kurd, che ha 1,2 milioni di follower su Instagram, è regolarmente citata dai media arabi e internazionali riguardo alle proteste. Né lei, né i suoi familiari sono stati intervistati da Haaretz.

La polizia ha detto che era sospettata di ” disturbo della pace e partecipazione ai disordini che si sono verificati di recente a Sheikh Jarrah”. I filmati pubblicati sui social media domenica la mostrano ammanettata e scortata fuori di casa dalla polizia.

Suo padre, Nabil El-Kurd, ha esortato a manifestare e protestare contro il suo arresto. In un videoclip pubblicato sui social media, ha dichiarato: “Israele ha arrestato mia figlia perché racconta la storia di Sheikh Jarrah. Lei non si comporta in modo violento con nessuno. L’obiettivo è farla tacere e far tacere le voci di protesta nel quartiere».

Suo fratello gemello Mohammed, anch’egli attivo nel movimento di protesta, si è recato alla polizia domenica, dopo aver ricevuto una convocazione. Gli El-Kurd sono stati entrambi rilasciati in seguito.

Le altre famiglie di Sheikh Jarrah che lottano contro lo sfratto:

Famiglia Jauni – Due persone, hanno perso la causa in tribunale

Famiglia Dajani – Undici persone, hanno perso la causa in tribunale

Famiglia Dahudi – Due persone, hanno perso la causa in tribunale

Famiglia Hamad – Diciotto persone, tra cui otto minorenni, hanno perso la causa nel tribunale distrettuale.

Famiglia Zayin – Caso in corso

Famiglia Husseini – Caso in corso

Famiglia Mani – Caso in corso

Famiglia Salyma – Caso in corso

Famiglia Fatyani – Caso in Corso

 

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org