“La nostra Nakba e la loro indipendenza”: sul problema con la versione sionista di due narrazioni

“Gli israeliani celebrano il loro Giorno dell’Indipendenza, ma si tratta di celebrare la sofferenza dei nostri antenati, lo sfollamento del nostro popolo e il ricordo dei massacri perpetrati contro di noi nel corso degli anni”.

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di Benay Blend – 5 Maggio 2022 

Immagine di copertina: I profughi palestinesi furono costretti dalle milizie sioniste a fuggire dalle loro case durante la “Nakba” – La catastrofe – del 1948. (Foto: via UNRWA)

“Gli israeliani celebrano il loro Giorno dell’Indipendenza”, spiega Dareen Tatour, “ma si tratta di celebrare la sofferenza dei nostri antenati, lo sfollamento del nostro popolo e il ricordo dei massacri perpetrati contro di noi nel corso degli anni”.

Una poetessa che è stata più volte detenuta in Israele per le sue parole, Tatour ora vive in Svezia, ospite in una residenza ICORN(n.d.r. la rete internazionale delle città e regioni che offrono ospitalità a  scrittori ed artisti perseguitati-https://www.icorn.org) ed è stata insignita del premio per la libertà di espressione della  Norwegian Writers’ Union per aver “rotto il silenzio sulle condizioni dei Palestinesi”. Usa le  sue opere letterarie per incoraggiare le donne palestinesi a denunciare ogni forma di abuso e violazione dei diritti umani.

Nel 2019, mentre viveva ancora nello stato sionista, Tatour ha dichiarato di poter sentire le sirene segnare l’inizio del Giorno dell’Indipendenza di Israele, una festa commemorata dagli occupanti mentre gli occupati sono ancora “profondamente radicati nella [loro] patria”. Per lei, quel giorno segna l’inizio della pulizia etnica, la distruzione dei villaggi palestinesi e la formazione di una popolazione di profughi palestinesi che continua a crescere fino ad oggi.

Durante un’intervista del 1994 con Barbara Miner della rivista Rethinking Schools, il compianto storico Howard Zinn fece la seguente considerazione,  così pertinente alla contraddizione tra Nakba e Giorno dell’Indipendenza: come si fa a “promuovere un senso di giustizia ed evitare la trappola della relatività secondo cui, ‘ Beh, alcune persone dicono questo, alcune persone dicono quello?’”

Sulla relatività, Zinn concluse che le persone spesso non sono disposte a sostenere una “questione morale” perché “beh, c’è questa parte e c’è quella parte”. In tal caso, ribatté che molto spesso  entrambe le parti non hanno lo stesso peso morale, quindi se deve esserci un mondo migliore, è necessario sempre “prendere posizione”.

La filosofia di Zinn si applica a tutte le situazioni in cui c’è un occupante e un occupato, uno schiavo e uno schiavista. Dopo l’ultimo attacco genocida di Israele a Gaza nel maggio 2021, Haidar Eid ha spiegato che alcuni “liberali” hanno rilasciato le solite dichiarazioni pubbliche, incolpando allo stesso modo il colonizzatore e i colonizzati, ma concludendo che “i palestinesi devono smettere di lanciare razzi da Gaza”.

In “La pulizia etnica della palestina”( The Ethnic Cleansing of Palestine -2006), Ilan Pappe sostituisce lo standard “paradigma della guerra” con quello della “pulizia etnica” (p. xvi) per chiarire perché esiste una sola narrazione del passato palestinese. Spiega che questo non è solo l’approccio accademico richiesto, ma rappresenta una “decisione morale” (p. xviii), un passo necessario prima che ci possa essere riconciliazione e pace.

Tuttavia, osserva Eid, i commentatori il più delle volte non riescono a riconoscere il “sumud” dei palestinesi, in altre parole, la loro resilienza a quello che definisce un “progetto colonialista e di apartheid dei coloni sostenuto dall’Occidente a cui il popolo palestinese sta resistendo”.

Il 5 luglio 1852, Frederick Douglass si rivolse ai cittadini di Rochester, New York, su una domanda correlata: “Cos’è, per lo schiavo, il 4 luglio?” Douglass sfruttò questa occasione non per celebrare l’indipendenza del paese, ma per ricordare al suo pubblico la continua riduzione in schiavitù del suo popolo.

“La vostra estrema indipendenza”, accusò, “rivela solo l’incommensurabile distanza tra noi. Le benedizioni di cui voi, oggi, gioite, non sono godute in comune”. Mentre il suo pubblico si sarebbe  “rallegrato”, Douglass concluse che lui  “avrebbe dovuto essere in lutto”, perché non condividevala libertà che veniva celebrata quel giorno.

È passato più di un secolo da quando gli africani in questo paese si sono liberati dalla schiavitù, ma il sentimento di Douglass sopravvive ovunque esista ancora la colonizzazione. Ad esempio, il 26 gennaio di ogni anno gli australiani commemorano il giorno in cui Sir Arthur Phillip ha alzato la bandiera britannica a Warrane (Sydney Cove) per dichiarare la terra una colonia britannica. Come ammette Rona Glynn McDonald, tuttavia, l’Australia Day non è celebrato dagli aborigeni e dagli abitanti delle isole dello Stretto di Torres. Loro,invece, lo chiamano giorno dell’invasione, perché per loro segna l’inizio di una “lunga e brutale colonizzazione di persone e terre”.

In Canada, la celebrazione del  “Founders’ Day(giorno dei fondatori)dello scorso anno è avvenuta poco dopo che centinaia di resti di bambini indigeni sono stati scoperti nelle tombe anonime di alcuni istituti scolastici, “istituzioni di assimilazione forzata” in cui i bambini delle Prime Nazioni furono sottoposti a violenze fisiche e sessuali, traumi psicologici, fame, e altre forme di abuso, proprio come vengono trattati oggi i minori palestinesi nei centri di detenzione israeliani. In risposta, molte persone hanno chiesto la cancellazione del Canada Day, sostituendolo invece con la Giornata dei popoli indigeni.

“Come nazione di popoli indigeni, dobbiamo essere uniti e gridare questo al resto del Canada. La vera storia di questo paese viene finalmente rivelata ed è tempo di rimanere uniti e chiedere giustizia e responsabilità”, ha affermato Mallory Solomon, membro del Consiglio di Oshkaatisak, della Prima nazione del Lago di Costanza, in una dichiarazione relativa all’evento proposto.

Negli Stati Uniti, la Giornata dei Popoli Indigeni ha sostituito il Columbus Day in alcune aree del Paese. L’anno scorso, l’11 ottobre 2021, Jennifer Marley (San Ildefonso), organizzatrice per The Red Nation(organizzazione che sostiene la liberazione e le lotte dei popoli nativi d’America) e  studentessa ricercatrice presso l’Università del New Mexico, si è unita a Democracy Now di Amy Goodman per spiegare come l’estrazione di risorse continui ancora oggi in modo sproporzionato nella terra dei nativi.

Nel Red Deal, ha proseguito Marley, c’è un riferimento alla fine dell’occupazione di tutta la terra indigena nel Sud del mondo, inclusa la Palestina. Qui descrive la lotta come di portata internazionale, “chiedendo  la fine dell’imperialismo, la fine del capitalismo, la fine della violenza genocida, e si concentra sul prendersi cura della nostra Terra, prendersi cura l’un l’altro e infine  di noi stessi.”

E i colonizzatori? Dove si inseriscono in questo quadro? Nel suo recente blog “The Importance of Being Flippant”, Steven Salaita afferma che la domanda stessa “trasforma la discussione sulla Palestina in un referendum sul primato di Israele, che pone ancora una volta il palestinese in una posizione subordinata. Rende noto al pubblico che il sionismo deve essere confermato prima che i palestinesi possano parlare di liberazione”.

“L’insicurezza del colono”, conclude Salaita, “non equivale alla liberazione del nativo”, affermando così l’importanza di mettere al centro del discorso il colonizzato in qualsiasi dibattito sulla liberazione. Ciò spiega perché l’annuale “ Combatants for Peace Joint Memorial”, una commemorazione che riunisce le famiglie israeliane e palestinesi per piangere i loro morti, sorvola sul passato per creare la parvenza di due parti uguali, due serie di uguale dolore, quando in realtà le due parti non condividono alcuna uguaglianza.

Sebbene l’Olocausto possa avere un ruolo centrale nella storia ebraica, non è un evento in corso, come secondo Nur Masalha è il caso della Nakba e della pulizia etnica della Palestina (The Palestine Nakba: Decolonising History, Narrating the Subaltern, Reclaiming Memory, (2012, pag. 14).

Riferendosi al trauma generazionale in Australia, Paul Gorrie, un uomo di Gunai/Kurnai, Gunditjmara, Wiradjuri e Yorta Gondomar, scrive che

“In tutto il mondo, quando le comunità hanno esperienze traumatiche, ci sono conseguenze a lungo termine. I loro figli e nipoti sono colpiti e, a seconda di come e se i reati vengono riconosciuti  e come vengono affrontati i problemi continui, il trauma rintraccia le generazioni… Gli australiani di oggi non sono direttamente responsabili di ciò che è accaduto in passato. Ma fa parte della nostra storia condivisa come australiani indigeni e non indigeni e, insieme, siamo responsabili di ciò che accadrà in futuro”.

Per i palestinesi c’è anche un trauma in corso. Per loro, il Giorno dell’Indipendenza israeliana significa celebrare il numero di palestinesi che sono stati imprigionati; il numero di alberi abbattuti; e, infine, le case che sono state distrutte; e, ancora , i profughi sfollati che aspettano di tornare.

Alla fine però, conclude Tatour:

“Rinnoviamo la loro fedeltà e visitiamo i loro villaggi distrutti. Vaghiamo sul suolo delle nostre città e ci sediamo sulle pietre rimaste delle macerie delle case che un tempo vi sorgevano. Soffriamo nel silenzio e nell’orgoglio e rimaniamo, nonostante la libertà sia solo un sogno”.

Se “il sionismo riguardava (e riguarda tutt’ora) non solo la colonizzazione della terra palestinese, ma anche la colonizzazione delle menti: ebree, arabe, europee, americane” (Masalha, p. 5), allora è logico che la decolonizzazione sia un progetto più ampio rispetto alla rivendicazione di terra. Scrivere in modo più onesto sulla Nakba, sostiene Masalha, non è solo un esercizio di storiografia; è anche «un imperativo morale di riconoscimento e di liberazione» (p. 18). È “l’unica via da seguire”, concorda Pappe, “se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi” (p. xvii).

Benay Blend ha conseguito il dottorato in studi americani presso l’Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono Douglas Vakoch e Sam Mickey, Eds. (2017), “’Neither Homeland Nor Exile are Words’: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers”. Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

Traduzione di Nicole Santini – Invictapalestina.org