I palestinesi non sono “animali in uno zoo”: su Kanafani e la necessità di ridefinire il ruolo dell’”intellettuale vittimista”.

Dedicato alla memoria di Ghassan Kanafani, iconico leader palestinese e intellettuale assassinato dal Mossad israeliano l’8 luglio 1972

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Ramzy Baroud – 29 giugno 2022

Immagine di copertina: Il defunto romanziere palestinese Ghassan Kanafani [Twitter]

Anni prima che gli Stati Uniti invadessero l’Iraq nel 2003, i media statunitensi si avvalsero di molti nuovi personaggi, promossi come “esperti”, che contribuirono a rafforzare la propaganda statunitense, consentendo alla fine al governo degli Stati Uniti di assicurarsi un sostegno popolare sufficiente per la guerra.

Sebbene negli anni successivi l’entusiasmo per la guerra diminuì , l’invasione dell’Iraq iniziò con un mandato popolare relativamente forte che permise al presidente degli Stati Uniti George W. Bush di rivendicare il ruolo di liberatore dell’Iraq, di combattente del “terrorismo” e di campione degli Stati Uniti a livello globale. Secondo un sondaggio CNN/USA Today/Gallup condotto il 24 marzo 2003 – pochi giorni dopo l’invasione – il settantadue per cento degli americani era favorevole alla guerra.

Solo ora stiamo iniziando a comprendere appieno l’imponente edificio di bugie, inganni e falsità coinvolti nel plasmare la narrativa della guerra, e il ruolo sinistro svolto dai media mainstream nel demonizzare l’Iraq e disumanizzare il suo popolo. Gli storici futuri continueranno il compito di svelare la cospirazione bellica per anni a venire.

Di conseguenza, è anche importante riconoscere il ruolo svolto dagli stessi “informatori nativi” dell’Iraq, come li descriverebbe il defunto professor Edward Said. L ‘”informatore nativo è un servitore volenteroso dell’imperialismo”, secondo l’influente intellettuale palestinese.

Grazie alle varie invasioni americane e agli interventi militari, questi “informatori” sono cresciuti di numero e di utilità al punto che, in vari circoli intellettuali e mediatici occidentali, definiscono ciò che è erroneamente considerato “realtà” riguardante la maggior parte dei paesi arabi e musulmani. Dall’Afghanistan, all’Iran, alla Siria, alla Palestina, alla Libia e, naturalmente, all’Iraq, tra gli altri, questi “esperti” riproducono costantemente messaggi su misura per adattarsi alle agende USA-occidentali.

Questi “esperti” sono spesso descritti come dissidenti politici. Sono reclutati (tramite think tank finanziati dal governo o altro) dai governi occidentali per fornire una rappresentazione conveniente delle “realtà” in Medio Oriente – e altrove – come giustificazione razionale, politica o morale per la guerra e varie altre forme di intervento.

Sebbene questo fenomeno sia ampiamente compreso – soprattutto perché le sue pericolose conseguenze sono diventate chiaramente evidenti nei casi di Iraq e Afghanistan – c’è un altro fenomeno che raramente riceve la necessaria attenzione. Nel secondo scenario, l'”intellettuale” non è necessariamente un “informatore”, ma una vittima, il cui messaggio è interamente plasmato dal suo senso di autocommiserazione e di vittimismo. Nel processo di comunicazione di quel vittimismo collettivo, questo intellettuale fa uno sfavore al suo popolo presentandolo come sfortunato e senza alcun elemento umano di sorta.

La Palestina è un esempio calzante.

La cultura e il patrimonio palestinese sono l’arma migliore contro l’occupazione – Cartoon [Sabaaneh/Middle EastMonitor]
L'”intellettuale vittimista” della Palestina non è un intellettuale secondo alcuna definizione classica. Said si riferisce all’intellettuale come a “un individuo dotato della facoltà di rappresentare, incarnare, articolare un messaggio, un punto di vista, un atteggiamento, una filosofia o un’opinione”. Gramsci affermava che gli intellettuali sono “coloro che sostengono, modificano e alterano i modi di pensare e di comportamento delle masse”. Li chiamava “fornitori di coscienza”. L’intellettuale vittimista” non è niente di tutto questo.

Nel caso della Palestina, questo fenomeno non è stato casuale. A causa degli spazi limitati a disposizione dei pensatori palestinesi per parlare apertamente e francamente dei crimini israeliani e della resistenza palestinese all’occupazione militare e all’apartheid, alcuni hanno strategicamente scelto di utilizzare qualsiasi margine disponibile per comunicare qualsiasi tipo di messaggio che avrebbe potuto essere nominalmente accettato dai media occidentali e dal pubblico.

In altre parole, affinché gli intellettuali palestinesi possano operare all’interno dei margini della società occidentale tradizionale, o anche all’interno dello spazio assegnato da alcuni gruppi filo-palestinesi, possono solo ‘narrare’ come ‘fornitori di vittimismo”. Niente di più.

Coloro che hanno familiarità con il discorso intellettuale palestinese in generale, specialmente dopo la prima grande guerra israeliana a Gaza nel 2008-9, devono aver notato come le narrazioni palestinesi riguardo alla guerra raramente si discostino dal discorso decontestualizzato e depoliticizzato delle vittime palestinesi. Sebbene la comprensione della depravazione di Israele e dell’orrenda violenza dei suoi crimini di guerra sia fondamentale, alle voci palestinesi a cui viene dato un palcoscenico per affrontare questi crimini viene spesso negata la possibilità di presentare le loro narrazioni sotto forma di forti analisi politiche o geopolitiche, per non parlare della denuncia dell’ ideologia sionista di Israele  o l’orgogliosa difesa della resistenza palestinese.

Molto è stato scritto sull’ipocrisia dell’Occidente nel gestire le conseguenze della guerra Russia-Ucraina, specialmente se confrontata con la decennale occupazione israeliana della Palestina o le guerre genocide israeliane a Gaza. Ma poco è stato detto sulla natura dei messaggi ucraini rispetto a quelli dei palestinesi: i primi esigenti e legittimati, mentre i secondi per lo più passivi e timidi.

Mentre i massimi funzionari ucraini spesso twittano affermazioni del tipo “i funzionari occidentali possono “andare a farsi fottere”, i funzionari palestinesi implorano e supplicano costantemente. L’ironia è che i funzionari ucraini stanno attaccando le stesse nazioni che hanno fornito loro miliardi di dollari di “armi letali”, mentre i funzionari palestinesi stanno attenti a non offendere le stesse nazioni che sostengono Israele con le stesse armi usate per uccidere i civili palestinesi.

Si potrebbe obiettare che i palestinesi modulano il loro linguaggio per adattarsi a qualsiasi spazio politico e mediatico a loro disposizione. Questo, tuttavia, non spiega perché molti palestinesi, anche all’interno di ambienti politici e accademici “amichevoli”, vedono il loro popolo solo come vittima e nient’altro.

Non è certo un fenomeno nuovo. Risale ai primi anni della guerra israeliana contro il popolo palestinese. L’intellettuale palestinese di sinistra, Ghassan Kanafani, come altri, era consapevole di questa dicotomia.

Kanafani ha contribuito alla consapevolezza intellettuale in varie società rivoluzionarie nel Sud del mondo durante un’era critica per le lotte di liberazione nazionale. È stato il destinatario postumo del Premio Lotus per la letteratura della Conferenza degli scrittori afroasiatici nel 1975, tre anni dopo essere stato assassinato da Israele a Beirut, nel luglio 1972.

Come altri della sua generazione, Kanafani è stato irremovibile nel presentare la vittimizzazione palestinese come parte integrante di una complessa realtà politica dell’occupazione militare israeliana, del colonialismo occidentale e dell’imperialismo guidato dagli Stati Uniti. Viene spesso raccontata una storia famosa su come avesse incontrato sua moglie, Anni, nel sud del Libano. Quando Anni, una giornalista danese, arrivò in Libano nel 1961, chiese a Kanafani se poteva visitare i campi profughi palestinesi. “La mia gente non è un animale in uno zoo”, rispose Kanafani, aggiungendo: “Devi avere un buon background su di loro prima di andarli a visitare”. La stessa logica può essere applicata a Gaza, a Sheikh Jarrah e Jenin.

La lotta palestinese non può essere ridotta a una conversazione sulla povertà o sugli orrori della guerra, ma deve essere ampliata per includere contesti politici più ampi che hanno portato alle tragedie attuali. Il ruolo dell’intellettuale palestinese non può fermarsi a trasmettere la vittimizzazione del popolo palestinese, lasciando ad altri il ruolo molto più consequenziale – e intellettualmente impegnativo – di analizzare i fatti storici, politici e geopolitici, alcuni dei quali spesso parlano a nome dei palestinesi.

È piuttosto edificante e gratificante vedere finalmente più voci palestinesi incluse nella discussione sulla Palestina. In alcuni casi, i palestinesi sono addirittura al centro di queste conversazioni. Tuttavia, affinché la narrativa palestinese sia veramente rilevante, i palestinesi devono assumere il ruolo dell’intellettuale gramsciano come “fornitori di coscienza” e abbandonare del tutto il ruolo dell'”intellettuale vittimista”. In effetti, il popolo palestinese non è un “animale in uno zoo” ma una nazione con un’agenda politica, capace di articolare, resistere e, in definitiva, conquistare la propria libertà, come parte di una lotta molto più grande per la giustizia e la liberazione in tutto il mondo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org