Massacro di Sabra e Shatila: un trauma lungo 40 anni

A quarant’anni dal massacro di Sabra e Shatila durante il quale oltre 3000 persone sono state uccise dalle milizie libanesi alleate di Israele, Emad Moussa spiega cosa ha significato questo capitolo oscuro per i palestinesi mentre il trauma sopravvive tra i rifugiati.

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di Emad Moussa, 15 Settembre  2022

In un supermercato di Düsseldorf, in Germania, alcuni anni fa, un uomo si è avvicinato ad alcuni di noi e ha subito chiesto: “Siete palestinesi?’

Supponendo che ci avesse sentito parlare, abbiamo risposto: “sì”.

Avendo appreso che eravamo appena usciti dalla Palestina, puntò i piedi e disseha : “ affare fatto, verrete a casa mia per il maqlubeh”, un piatto tradizionale palestinese. E così abbiamo ceduto.

Munir era arrivato in Germania cinque anni prima ed era un rifugiato palestinese dal Libano, oltre a detenere lo status di rifugiato in Germania. L’ironia ha chiuso il cerchio quando abbiamo incontrato sua moglie, Norah, che era anche lei una rifugiata dal Kurdistan iracheno.

“Abbiamo qui due piccoli profughi pronti all’uso”, aggiunse, indicando le sue due bambine. “Cosa posso dire? I rifugiati gravitano l’uno verso l’altro, perché la miseria ama la compagnia”, scherzò.

E proprio perché la miseria può essere un meccanismo che  unisce, non ci è voluto molto per conoscere la storia di Munir. Aveva un tic nervoso alla mano sinistra, ed è diventato particolarmente evidente quando ha servito con gioia il maqlubeh per noi.

”Ciò che il massacro ha messo in evidenza, più di ogni altra cosa, è stata la complessità politica e la vulnerabilità della presenza palestinese nei Paesi arabi, soprattutto come profughi”.

I ricordi erano la causa del tic, e quei ricordi erano traumi, ed entrambi erano la continuazione di un’identità appesantita.

Munir e sua sorella furono gli unici sopravvissuti della sua famiglia al massacro di Sabra e Shatila nel 1982. Aveva sette anni quando vide i suoi genitori, insieme a diversi vicini, essere scortati fuori dalle loro case da miliziani falangisti (al-kataeb) e poi massacrati con coltelli e baionette.

Munir era un avvincente cantastorie e un intrattenitore di prim’ordine. Ma come molti palestinesi, il trauma era sempre sullo sfondo delle sue storie, e di questo gli piaceva parlare e prendere in giro, forse come capacità di adattamento.

“Mentre osservavamo il massacro da lontano, nascosti dietro un vecchio capannone che un tempo era un’officina meccanica, avevo tenuto la mano sulla bocca di mia sorella, temendo che urlasse e ci facesse scoprire. Volevo essere un uomo, prendermi cura della mia sorellina, non mostrare mai paura e nemmeno sussultare. In realtà, però, mi ero letteralmente  fatto la  pipì nei pantaloni”, ha detto ed è scoppiato in una risata.

Dopo il massacro e con l’arrivo della Croce Rossa nel campo profughi di Shatila, Munir e sua sorella sbucarono fuori . “Riesco ancora  a ricordare vividamente quanto fossi incredibilmente affamato, poi mentre camminavo per il campo, il fetore del sangue stantio ha ucciso anche l’ultimo  briciolo di fame in me”, ha osservato.

Alla fine Munir si  trasferì a  Ein el-Helweh per vivere con i parenti.

“Per anni ho cancellato tutti questi ricordi nella mia testa, li ho efficacemente repressi e li ho autocensurati. Mia sorella ed io parlavamo della morte dei nostri genitori, ma senza menzionare specificamente il modo in cui sono morti”.

 

La storia di Munir è quella di centinaia di persone che hanno vissuto il massacro, ognuna con la propria versione della perdita e il proprio modo di affrontare il trauma.

INTERCONNESSI

Inizialmente, l’OLP difese Shatila e l’adiacente quartiere di Sabra a Beirut occidentale, insieme ad altri campi profughi palestinesi in tutto il Libano. Non appena Israele intensificò la sua invasione e distruzione del paese, l’OLP accettò di trasferirsi principalmente in Tunisia e Yemen. Ai funzionari dell’OLP vennero fornite garanzie da parte degli Usa  che i civili lasciati indietro sarebbero stati protetti.

Il 10 settembre i marines statunitensi si ritirarono dal Libano e quattro giorni dopo il presidente eletto del Libano e leader della falange, Bashir Gemayel, fu assassinato. Stretto alleato di Israele, la morte di Gemayel ha visto Israele violare il fragile cessate il fuoco ed estendere la sua occupazione a Beirut Ovest.

Due giorni dopo, 150 miliziani falangisti presero d’assalto l’area di Sabra e Shatila, transennata dall’IDF. Tradizionalmente acerrimi nemici dell’OLP e dei suoi alleati libanesi, i falangisti cercarono di spargere sangue spinti dall’errata convinzione che i palestinesi fossero responsabili dell’assassinio di Gemayel.

Si scatenò cosi una follia omicida per due giorni senza sosta. L’esercito israeliano, che circondava l’area, sapeva che era  in corso un massacro, ma non fece nulla per fermarlo. Al contrario,  i soldati avevano sparato razzi nel cielo notturno e permesso ai rinforzi di entrare nell’area il secondo giorno e alla fine hanno fornito bulldozer per seppellire i corpi in fosse comuni.

L’allora ministro della Difesa israeliano, Ariel Sharon, aveva negato che l’esercito fosse a conoscenza dell’atrocità, ma la Commissione israeliana Kahan nominata per indagare sul massacro, lo  ritenne  “personalmente responsabile”.

Anche dopo quarant’anni, il numero esatto delle vittime rimane indeterminato. La Commissione Kahan ha stimato che circa 800 persone sono state uccise. Il giornalista britannico Robert Fisk, che è stato tra i primi ad arrivare sulla scena, ha stimato il numero di 1700 vittime. Nel 1984, il giornalista israeliano Amnon Kapeliouk, trovò prove secondo cui non meno di 3000 civili palestinesi (e libanesi) erano stati uccisi.

Per Munir, la portata del massacro era molto più di uno spaventoso bilancio di vittime. Rappresentava un’altra ombra oscura, un altro episodio, nella tragica esperienza palestinese nel suo insieme.

Attraverso quella lente particolare, ha dato poca enfasi al coinvolgimento di Israele nell’omicidio. Dopotutto, anche se non aveva le mani sporche di sangue, l’esercito israeliano era un facilitatore; ergo, un complice. Per lui, l’uccisione di palestinesi da parte di Israele era più o meno la norma.

Ciò che il massacro ha messo in evidenza, più di ogni altra cosa, è stata la complessità politica e la vulnerabilità della presenza palestinese nei paesi arabi, soprattutto come profughi.

L’ostilità tra i falangisti e l’OLP, e il coinvolgimento dell’OLP nella guerra civile libanese, non potevano essere separati dalla scena regionale nella sua totalità. L’apolidia palestinese e, inevitabilmente, la dipendenza dai finanziamenti esterni e dal supporto logistico significavano poca indipendenza nel processo decisionale e l’assenza di uno spazio geografico libero da cui operare.

Questo determinava chi i palestinesi potevano o non potevano prendere come alleati, a volte a scapito della loro lotta.

La definizione delle priorità degli obiettivi nazionali palestinesi, che a volte si manifestava sotto forma di resistenza armata, ha ripetutamente messo l’OLP in rotta di collisione con i regimi dei paesi in cui risiedeva. Questi stati temevano la rappresaglia di Israele sul loro suolo e consideravano il rivoluzionarismo palestinese un elemento destabilizzante per il loro governo. Altri hanno cercato di monopolizzare la lotta palestinese per i propri programmi nazionali.

IQuesto  modello è stato visto in Giordania nel 1970 durante quello che divenne noto come Settembre Nero; la Guerra dei Campi in Libano nel 1985-88; e nel 1990, il sostegno di Arafat all’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Arafat temeva che il dittatore iracheno avrebbe represso i palestinesi iracheni se si fosse rifiutato di dichiarare il suo sostegno. Ciò che è accaduto è stata un’espulsione di massa di palestinesi dal Kuwait e il taglio dei finanziamenti all’OLP da parte degli Stati del Golfo.

Questo calcolo regionale, compreso nell’ampio contesto dell’occupazione israeliana, ha aperto la strada al massacro di Sabra e Shatila. Le stesse dinamiche continuano ad ostacolare la giustizia di transizione per le vittime oggi.

Munir ha detto che non si aspettava giustizia, ma aveva incrociato le dita sul fatto che l’istituzione di uno stato palestinese indipendente sarebbe stato un modo per raggiungerlo.

“Non saremo alla mercé di nessuno, amici dei nemici”, ha detto mentre ci versava del tè alla menta.

Il dottor Emad Moussa è un ricercatore e scrittore specializzato in politica e psicologia politica della Palestina/Israele.

Traduzione di Nicole Santini