In Tunisia e in Palestina il cancro colpisce le donne che rovistano tra i rifiuti per vivere

Le donne nelle città palestinesi affrontano un destino sconosciuto quando si tratta della loro salute a causa della scarsità di seminari medici e campagne di sensibilizzazione relative ai pericoli e agli effetti della combustione dei rottami.

Fonte: English version

Wesal Al-Shaikh – Khaoula Ferchichi

Life Women rights Marginalized Groups Environment Palestine-Tunisia – 2 dicembre 2022

Una donna che viveva nella città di Idna aveva notato che i suoi seni stavano diventando molli e gonfi e aveva iniziato a trovare macchie di sangue negli slip, ma ignorava il significato di quei segni. Un giorno, venne incoraggiata a partecipare a una campagna di sensibilizzazione sul cancro al seno nella sua città natale di Hebron, in Cisgiordania.

La segretaria dell’istituto di istruzione superiore della città, Hind al-Tamezi, racconta la storia della donna dicendo: “Abbiamo scoperto che aveva un cancro al seno, insieme ad altre 15 donne che erano venute a quella campagna. Ero scioccata. Sono sicura che queste malattie si sono diffuse a causa dell’ignoranza e della combustione di ‘taqsh’ (fili di rame rivestiti di plastica e rifiuti elettronici).”

Gli abitanti delle città palestinesi di Idna, Beit Awwa, Deir Sammit e al-Kum hanno sempre fatto affidamento sull’agricoltura per il loro sostentamento, ma la costruzione del muro dell’apartheid sulle loro terre nel 2002 li ha lasciati economicamente privi di futuro. Così hanno abbandonato il lavoro della terra e tra di loro si è diffusa la disoccupazione, il che ha aumentato il numero di coloro che lavorano il ‘taqsh’, senza pensare alle terribili conseguenze ambientali che hanno colpito la regione, descritte da al Tamezi come “desolanti”.

Questa foto e le foto successive sono dell’incendio di rifiuti elettronici e cavi di rame, nella città di Idna nel distretto di Hebron.

Le  città citate sono punti cruciali dell’inquinamento, con rottami elettronici che provengono da fabbriche, laboratori di costruzione e ristrutturazioni di case negli insediamenti israeliani. La loro raccolta e fornitura sono controllate da “mafie israeliane e palestinesi che entrano in queste città, che sono “sostanzialmente fuori dal controllo delle autorità palestinesi, in quanto classificate nell’Area C”, attraverso il check point di ‘Tarqumiya’, afferma il sindaco di Idna, Jaber al-Tamezi.

L’Area C costituisce il 60% della Cisgiordania occupata, ma secondo l’Accordo di Oslo II Israele vi controlla tutti gli aspetti della vita.

Il presente rapporto è stato effettuato sul campo, includendo le città di Beit Awwa e Deir Sammit, e intervistando donne lavoratrici e casalinghe che parlano della loro sofferenza fisica e psicologica  in relazione alla combustione quotidiana di cavi di rame e plastica, insieme a  varie tipologie di altri rottami: frigoriferi, lavatrici, computer, ecc. Questo ha spinto alcune di loro a partire per altre zone alla ricerca di un ambiente più sano.

Dall’altra parte del Mediterraneo, in Tunisia, Reem, 40 anni, per guadagnare qualche soldo e riuscire a sfamare la sua famiglia per la giornata, cerca a mani nude la plastica all’interno dei cassonetti della spazzatura nelle discariche improvvisate apparse nella capitale Tunisi dopo la rivoluzione del 2011.

Reem vive con il marito e due figli, uno dei quali autistico, in una casa priva dei beni di prima necessità, in un quartiere popolare a ovest della capitale dove si sono accumulati immondizia e discariche.

Queste donne, conosciute come ‘barbechas’ (raccoglitrici di rifiuti che smistano la plastica ), condividono la stessa situazione sociale e sanitaria delle donne palestinesi di Hebron, ingiustamente colpite da malattie da residui di rifiuti, a fronte dell’incuria e del silenzio sociale e ufficiale.

Come se ciò non bastasse, Reem ha dovuto lottare per quattro anni con altre “barbecha” per guadagnarsi da vivere; alcuni usano carrelli pesanti per raccogliere la maggior quantità possibile di plastica, riducendo così le possibilità di Reem. Con tassi di disoccupazione che secondo l’Istituto nazionale di statistica tunisino nel 2022 hanno raggiunto il 16,1%, ci sono anche migliaia di uomini che fanno questo lavoro.

Mani annerite alla ricerca di cibo

Reem non è l’unica. Anche Lamia, Jamila, Haniyyah e Souad lavorano nelle discariche a seguito di ingiustizie di genere. Haniyyah, 60 anni, ha dovuto ricorrere alla raccolta di bottiglie di plastica dopo che i suoi figli l’hanno trascurata e le sue malattie si sono moltiplicate. Le strade della periferia sud di Tunisi sono per lei un modo per assicurarsi il cibo quotidiano.

Lamia, madre di quattro figli, è forse un po’ più fortunata delle altre donne che abbiamo incontrato, poiché raccoglie le bottiglie di plastica messe da parte per lei dagli abitanti del suo quartiere. Nonostante ciò, il ritorno finanziario rimane modesto.

La stessa situazione di ingiustizia si applica alle donne delle città occidentali della Cisgiordania in Palestina. Gli uomini si sono specializzati nel commercio e nella combustione di ‘taqsh’ per la totale assenza di progetti di sviluppo nell’area, rendendo tale attività la principale risorsa finanziaria per la maggior parte delle famiglie locali, insieme al commercio di ‘zakhm’ (mobili usati), una professione che la gente di Beit Awwa ha praticato negli ultimi cinquant’anni.

Come le donne di ‘barbecha’ in Tunisia continuano a lavorare in silenzio senza mascherine, guanti o qualsiasi altro mezzo di protezione, le donne palestinesi continuano a lavorare in ‘taqsh’ in “laboratori familiari senza protezione e con strumenti che possono causare morte o mutilazioni”.

In entrambi i paesi, le autorità non hanno ancora promulgato leggi che includano diritti ambientali che difendano o proteggano le donne, anche se la Tunisia e la Palestina si trovano sul Mediterraneo, una delle regioni più colpite dal cambiamento climatico.

Secondo un rapporto della Rete mediterranea di esperti sui cambiamenti climatici e ambientali (MedECC),  La temperatura media dovrebbe aumentare di 2,2 gradi Celsius entro il 2040. MedECC è una rete aperta, indipendente e internazionale composta da 600 esperti scientifici provenienti da 35 paesi che fornisce supporto e dati ai decisori e al pubblico sulla base di solide informazioni scientifiche.

Queste donne, sia che vivano in quartieri popolari in Tunisia o che appartengano a clan economicamente e socialmente poveri in Palestina, si interrogano sul ruolo delle autorità nel garantire loro i diritti più elementari di sicurezza sociale e sanitaria, diritti  che dovrebbero garantire loro una vita dignitosa – una vita non spesa a scavare nella spazzatura subendo lo stigma sociale, o bruciare ‘taqsh’, inquinare l’ambiente e danneggiare la salute delle persone.

Nonostante le legislazioni, le leggi e gli accordi ambientali emanati o adottati da Palestina e Tunisia, e nonostante l’imposizione di sanzioni in questo settore, le donne del ‘barbecha’ continuano a lavorare senza maschere, guanti o qualsiasi altro mezzo di protezione. E le donne palestinesi continuano a lavorare nei laboratori familiari di ‘taqsh’ “senza protezione e con strumenti che possono causare ferite o morte”, afferma l’attivista ambientale Amina al-Batran. Questo lavoro le rende vulnerabili a metalli pesanti e radioattivi come piombo e cromo e a gas tossici composti come diossina, ossido di zolfo e carbonio, causando cancro e altre malattie, nonché problemi riproduttivi come anomalie fetali e aborti spontanei.

È interessante notare che la relazione tra queste malattie e le loro cause non è stata verificata o dimostrata, poiché la regione non dispone di accurati studi scientifici, sanitari e ambientali da parte del Ministero della Salute palestinese e dell’Autorità per la qualità ambientale.

Tabarbish’ e ‘taqsh’: due mondi con le loro regole speciali

In una stanza fatiscente dietro casa sua, Reem immagazzina il suo raccolto quotidiano di plastica e poi lo vende in un punto di raccolta per 700-900 millime tunisini ($ 0,3 dollari USA). In contrasto con questa miseria, la vendita del rame estratto dalla combustione del ‘taqsh’ è legata al mercato azionario globale. “Il prezzo di un chilo raggiunge quasi 37 shekel, o 11,38 dollari, mentre una tonnellata di ferro e piombo arriva fino a 1.400 shekel, o 430 dollari”, dice l’ex sindaco della città di Beit Awwa, Abdallah Suwaiti.

 “Non sappiamo da dove provengano questi nuovi fumi maleodoranti e  trasparenti. Un vicino o chiunque potrebbe bruciare cose vicino a casa tua, ma è difficile determinarne l’origine dopo aver mescolato alcune sostanze che rendono il fumo quasi invisibile”

È stato necessario che i lavoratori imponessero le proprie regole. Il mondo di queste professioni, nonostante la loro marginalità, è infatti disciplinato da leggi speciali. Le “barbechas” si dividono i quartieri residenziali, i container e le discariche; Reem e poche altre condividono i contenitori della spazzatura con altre “barbecha” per assicurarsi un posto senza concorrenza o intrusi. L’accesso prioritario al luogo che contiene la spazzatura è una legge chiave del “barbecha”.

Le donne sono spinte dalla loro situazione sociale- come dover mantenere un marito, il divorzio o la povertà – ad intraprendere questo lavoro. Jamila, una donna di 50 anni il cui marito è rimasto ferito in un cantiere edile che lo ha reso incapace di lavorare, copre le spese di cure, cibo e affitto raccogliendo la plastica.

Per quanto riguarda il mondo del ‘taqsh’, questo è più complesso, in quanto non esistono leggi rigide o deterrenti. Incendi improvvisi con odori pungenti si verificano in luoghi insoliti, provocando fumo tossico e soffocamento. E anche se il comitato anti-rottamazione della città di Idna — composto da 13 membri, e formato dalle istituzioni civili e di sicurezza per trovare soluzioni radicali per combattere il ‘taqsh’ e trovare soluzioni alternative — si affretta a spegnerli, gli incendi lasciano dietro di sé aree annerite con effetti a lungo termine.

Un soggiorno di pochi giorni a Idna rivela quanto questo commercio abbia invaso la vita quotidiana delle persone. Grandi officine aperte una accanto all’altra bruciano, macinano e smistano ogni forma di rifiuto, le auto private lo trasportano senza che nessuno le fermi e i terreni agricoli sono inquinati e avvelenati dagli effetti della combustione dei rottami.

Il sindaco di Idna, Jaber al-Tamezi, attivo da otto anni nel comitato costituito per combattere la combustione dei rottami, descrive  i roghi che si sviluppano “gradualmente nei terreni agricoli vicino al muro di separazione, poi tra le abitazioni, e poi nelle grandi officine, a una quantità equivalente a 30 tonnellate al giorno”. E prosegue sottolineando che, “la combustione dei rottami si è trasformata in un preoccupante fenomeno che nessuno è in grado di contrastare, attraverso il quale un gruppo di individui ha realizzato ingenti guadagni economici in cambio dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, oltre a minacciare il bestiame e la vita della popolazione con malattie mai viste prima”. Quindi fa una pausa e aggiunge: “Tutti qui sanno che Idna ha i più alti tassi di cancro nella regione di Hebron”.

I grandi ‘taqashin’ (persone che lavorano nell’incendio di ‘taqsh’) sono chiamati “mafie e bande”. Trovano modi per ingannare e aggirare la polizia doganale e ingannano le agenzie ambientali bruciando vicino al muro dell’apartheid, dove queste agenzie di sicurezza non possono intervenire e arrestarli.

L’applicazione della legge palestinese sull’ambiente (1999) e della legge sul sistema di gestione dei rifiuti pericolosi n. (6) del 2021 è ostacolata, a Idna e in altre città, dalla loro subordinazione in termini di sicurezza alla “parte israeliana”.

I membri del consiglio del villaggio di al-Kum hanno parlato di un nuovo tipo di combustione dei rottami. Il membro del Consiglio Radhi Rajoub afferma: “Non conosciamo la fonte di questo nuovo tipo di fumi. È trasparente e ha un odore pungente. Un vicino o chiunque altro potrebbe bruciare vicino a casa tua, ma è difficile determinare la fonte del fumo dopo aver mescolato alcune sostanze che rendono il fumo trasparente”.

La maggior parte delle famiglie che ricorrono al ‘taqsh’ lo fanno per la facilità di lavorare in questo campo illegale. Nonostante i tentativi dell’Autorità palestinese per la qualità ambientale di attuare nella regione la Convenzione internazionale di Basilea (che è entrata in vigore nel 1992 e mira a proteggere la salute umana e proteggere la qualità dell’ambiente dai rifiuti pericolosi, nonché a trattarli e regolarne il trasporto attraverso le frontiere), i suoi sforzi sono “inefficaci”, afferma Talib Hamid, direttore dell’Autorità per la qualità ambientale di Hebron.

Hamid dice: “Combattiamo  una vera battaglia con le persone e la loro fonte di sostentamento, ma stiamo cercando di allocare progetti di lavoro per il processo di sbucciatura di fili di rame ricoperti di plastica, invece di bruciarli”.

In Tunisia, invece, in migliaia ricorrono alla raccolta differenziata dei rifiuti di plastica a causa dell’elevato consumo di bottiglie di acqua minerale. La Tunisia produce fino a 2,7 miliardi di bottiglie d’acqua in plastica all’anno, secondo l’Ufficio nazionale per le acque minerali e il trattamento delle acque.

Il lavoro di differenziare i rifiuti di plastica si è espansa in Tunisia come “attività economica all’inizio del terzo millennio, dopo che sono state incoraggiate le politiche delle iniziative economiche individuali”, afferma il ricercatore Jihad Hajj Salem. Spiega che questo “ha creato classi popolari fragili prive di capitale educativo o materiale, che sono state vittime di queste politiche e che lavorano in professioni fragili come i ‘barbechas’ nelle grandi città, dove lo stato incoraggia implicitamente queste professioni e dà loro flessibilità per svolgere in modo informale le loro attività irregolari. Questi gruppi alla fine si adattano alla realtà dell’assenza dello Stato e alla sua incapacità di fornire opportunità di lavoro”.

Donne alla ricerca di salute e di ambiente sostenibili

I fumi neri e l’odore mortale hanno fatto sentire a disagio l’insegnante di scuola di 55 anni Maysoon Suwaiti, della città di Beit Awwa. Dice: “Tossivo come se fossi una fumatrice accanita, ma non sono rimasta in silenzio. Ho difeso il mio diritto alla salute con tutte le forze che avevo. Ho parlato con il nostro vicino che era coinvolto nell’incendio (di cavi) e quando non si è fermato, abbiamo intentato una causa contro di lui in tribunale. Lo hanno costretto a fermarsi, ma dopo un po’ è tornato a bruciare i cavi. Ho iniziato a documentare, con la fotocamera del mio cellulare, ogni rogo che avveniva mentre passavo per le vie del paese, e poi ho postato i video su Facebook per sensibilizzare, soprattutto da quando i ricercatori hanno visitato la nostra zona e abbiamo parlato dei pericoli che minacciano la nostra esistenza a Beit Awwa. L’aria è inquinata, così come il suolo, l’acqua e il cibo, ma il denaro è la cosa più importante per tutti, così ho deciso di partire con la mia famiglia per la vicina città di Dura, dove attualmente viviamo”.

Maysoon ha fatto appello ai ministeri della Salute e dell’Ambiente ma non ha ottenuto risposta. Racconta che, prima di partire, “ha contato personalmente 70 pazienti nel nostro quartiere con varie malattie”. Anche se gli incendi a Beit Awwa sono ormai in esaurimento, lei e la sua famiglia si rifiutano assolutamente di tornare.

Le donne nelle città palestinesi affrontano un destino sconosciuto quando si tratta della loro salute a causa della scarsità di seminari medici e campagne di sensibilizzazione relative ai pericoli e agli effetti della combustione dei rottami. L’attivista Hind al-Tamezi descrive la situazione dicendo: “Siamo oppresse e soffriamo socialmente, economicamente e dal punto di vista sanitario a causa della nostra mancanza di organizzazione e del controllo dei progetti insostenibili delle ONG sulle nostre associazioni femminili. A causa del sistema di relazioni e tradizioni di clan che limitano le donne, mancano donne intellettualmente qualificate per condurre campagne di sensibilizzazione ambientale, oltre a considerare la questione dell’ambiente come se non ci fosse alcuna soluzione”.

Le donne tuttavia non si sono fermate, anzi hanno cercato di creare esse stesse il cambiamento cercando soluzioni sostenibili. Alcune di loro si sono unite al comitato formato per combattere la combustione dei rottami. Una di queste persone è l’attivista Amina al-Batran, i cui vicini hanno cercato di mettere a tacere quando ha documentato i roghi  dopo essersi gravemente ammalata di sinusite.

La raccolta differenziata dei rifiuti di plastica si è espansa in Tunisia come “attività economica dopo che sono state incoraggiate le politiche delle iniziative economiche individuali”, che “ha creato classi popolari fragili, prive di capitale educativo o materiale, che sono state vittime di queste politiche”

Al-Batran descrive il fenomeno degli incendi come “socialmente sensibile”. Nonostante ciò, è entrata a far parte del comitato con l’obiettivo di preservare il suo paese: “Io sto con ciò che è giusto. Mi prendo cura di mio figlio disabile, i cui polmoni deboli sono direttamente colpiti da qualsiasi tipo di fumo”. Aggiunge: “Tutti preferiscono nascondere i roghi e il ‘taqsh’, e non denunciarli. Le donne hanno paura di essere coinvolte nella lotta contro i roghi. Finora sono l’unica donna nel comitato”.

Al-Batran porta avanti il suo impegno di registrazione e archiviazione dei roghi quotidiani nei nove laboratori che circondano la sua casa e in altri luoghi. Tuttavia i risultati sono “deludenti”, secondo lei, dal momento che i roghi del ‘taqsh’ non è cessato.

La segretaria della scuola elementare di Beit Awwa, Ghada Suwaiti, descrive come il cortile della scuola cittadina sia coperto di fuliggine nera a causa dei roghi. Dice: “Le particelle di fumo si depositano sulle superfici di panche, sedie e su tutto il resto, e nulla impedisce loro di raggiungere il cibo e il corpo degli studenti. In alcuni casi dobbiamo rimandare a casa gli studenti a causa dell’intensità degli incendi e del forte inquinamento atmosferico”.

L’effetto della combustione del “taqsh” può essere visto anche dallo spazio su Google Earth, apparendo come grandi macchie nere. Ciò riflette la gravità del pericolo e l’ambiente tossico nella regione.

Il ricercatore ambientale John-Michael Davis, dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign, USA, ha convissuto con i roghi di ‘taqsh’ in quei villaggi per quasi dieci anni. Ha quindi pubblicato uno studio sull’International Journal of Cancer (IJC) nel 2018, che indicava “l’alto rischio di linfoma del cancro infantile, a un tasso quattro volte superiore alla media, nei siti in cui è attiva la combustione dei rottami ”

“Il linfoma è solo un tipo di cancro”, dice Davis in un’intervista a Raseef22, ” Ci sono altri tipi di cancro e i disturbi di salute che sento da parte di medici e genitori sono stati correlati a problemi respiratori, come disfunzioni renali, aborti spontanei, disabilità congenite e tumori (in particolare tumori del polmone, del colon e del sangue), la cui elevata prevalenza è motivo di grande preoccupazione in questi villaggi”.

“Questo non è sorprendente”, aggiunge, “avendo misurato gli inquinanti rilasciati dalla combustione di materiali organici (a base di carbonio) soprattutto all’aperto, dove la combustione è incontrollata e incompleta e può rilasciare composti nocivi, come gli idrocarburi policiclici aromatici, che possono causare il cancro”. Continua: “Le cose peggiorano quando ci sono materie plastiche, che tendono a formare composti simili alle diossine, che sono sostanze chimiche altamente tossiche che non si rompono facilmente e si attaccano ai tessuti degli organismi viventi”

Spiega che “la combustione all’aperto di rifiuti elettronici (e-waste) è ancora più pericolosa quando nella produzione di materie plastiche vengono utilizzati ritardanti di fiamma per impedire che prendano fuoco, come gli inibitori a base di bromuro degli eteri di difenile polibromurato (PBDE), una sostanza molto simile a sostanze altamente tossiche, che viene rilasciata e convertita in tossine simili quando viene bruciata.

Sottolinea che le cose peggiorano quando l’elettronica contiene metalli tossici come piombo, arsenico, rame o zinco, gli ultimi due dei quali “reagiscono con i composti organici durante la combustione in un modo che aumenta la produzione di tossine organiche” e che “l’incompleta combustione produce una miscela tossica e variabile di sostanze che provoca effetti sulla salute sia acuti che cronici, inclusi agenti cancerogeni.

Oltre all’impatto negativo sulla salute, Davis avverte che “la combustione di vecchi condizionatori d’aria e frigoriferi rilascia freon, un gas che contiene clorofluorocarburi (CFC) che ha dimostrato di danneggiare lo strato di ozono”.

Per avere un’idea dell’entità del fenomeno a Idna si può fare riferimento all’Applied Research Institute – Jerusalem (ARIJ), che tra il 2012 e il 2014 ha condotto un  sondaggio dal quale è emerso che la città riceve tra le 200 e le 500 tonnellate di rifiuti elettronici al giorno, e che ci sono centinaia di siti designati per il riciclaggio e la combustione di questi rifiuti.

Hind al-Tamezi ha contribuito indirettamente a progetti sostenibili, come la costruzione di un centro di emergenza che fornisce cure per difetti e deformità derivanti dai roghi e un istituto scolastico per proteggere il futuro dei bambini di Idna.

Una guardia notturna e tentativi di soluzioni

La salute dei residenti di queste città palestinesi è in pericolo: gli abitanti sono consapevoli che le loro aree sono pesantemente inquinate e si aspettano che i comuni  fermino  i roghi in risposta alle continue lamentele.

Durante la seconda metà del 2022 i sindaci di Idna e Beit Awwa hanno messo in atto meccanismi per debellare il fenomeno del ‘taqsh’. Queste iniziative hanno avuto grande successo, giungendo a eliminare quasi completamente i roghi. L’attuale sindaco di Idna Jaber al-Tamezi afferma: “Gli incendi sono notevolmente  diminuiti negli ultimi mesi. Soffrivamo notte e giorno per la combustione di rottami e cavi di rame”.

Anche l’ex sindaco di Beit Awwa, Abdallah Suwaiti, decise nel 2018 di porre fine al fenomeno della combustione dei rottami durante il suo mandato. Tra i meccanismi utilizzati c’era la collaborazione del Comune di Idna con volontari locali per formare una guardia per monitorare e fermare la combustione notturna dei rottami, in collaborazione con le agenzie ambientali e l’Autorità per la qualità ambientale.

Suwaiti, da parte sua, formò anche un comitato di sensibilizzazione composto da sceicchi predicatori, insegnanti e membri di club sportivi. Dice: “Tutti hanno lavorato duramente per combattere i roghi  del ‘taqsh’, e noi abbiamo inseguito i ‘taqashin’ (i praticanti del ‘taqsh’) e inviato i loro nomi all’Ufficio del Pubblico Ministero, che ha messo alcuni di loro in prigione. Li abbiamo costretti a firmare un pegno di 50.000 shekel ($ 15.035 dollari USA) come deterrente alla combustione dei rifiuti elettronici”. Le tende della guardia notturna sono sempre montate, particolarmente distribuite sulle colline di Idna.

I capi di vari comuni hanno anche sviluppato un meccanismo per multare coloro che sono coinvolti nella combustione di rottami, confiscandone anche i beni.

Questi comuni stanno cercando, con le loro risorse limitate, di combattere la combustione dei rottami. Ciò avviene dopo che nel 2018 l’Autorità palestinese rifiutò 3 milioni di dollari di finanziamenti dall’ambasciata svedese . L’anno si è concluso con il licenziamento di Suwaiti, che una volta aveva sognato di cambiare l’amara realtà nella sua città e migliorarla .

In Tunisia, i rifiuti di plastica sono pericolosi tanto quanto lo smistamento e la combustione dei rifiuti elettronici. I comuni la trasportano con auto private o società ai centri di trasferimento, quindi alle discariche gestite dall’Agenzia nazionale tunisina per la gestione dei rifiuti.

Walim Merdasi, esperto ambientale nella gestione dei rifiuti e consigliere dell’ex ministro dell’Ambiente, suggerisce che “la Tunisia istituisca centri di trattamento dei rifiuti per integrare i ‘barbechas’ e garantirne la salute, soprattutto perché il trasporto, lo stoccaggio e l’interramento dei rifiuti pone un grande pericolo per loro”.

Dagli anni ’90 la Tunisia si è orientata verso programmi di valorizzazione dei rifiuti come Eco’Lav – un sistema pubblico per il recupero di sacchetti e lattine usati realizzati interamente o parzialmente in plastica o metallo – offrendo nuove opportunità economiche per i gruppi vulnerabili che dipendono dalla raccolta di rifiuti dalle strade. Tuttavia, secondo Inas al-Abyad, coordinatore del dipartimento per la funzione Ambiente e clima presso il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES), la nazione “manca di una visione globale e a lungo termine, e i gruppi vulnerabili pagano per questo inquinamento con casi di sterilità e tumori che colpiscono alcune donne nella cittadina di Agareb, dove vi è una grande discarica di rifiuti”. L’FTDES è un’organizzazione non governativa indipendente fondata nel 2011 che cerca di difendere i diritti economici e sociali a livello nazionale.

Su questo pesa anche “EARTH’na collectif”, un gruppo di giovani tunisini sostenuto da associazioni attive nel campo dell’ambiente e dei diritti umani, che organizza campagne di sensibilizzazione sui cambiamenti climatici, la tutela della biodiversità e il monitoraggio delle violazioni che minacciano l’ambiente e il suo patrimonio . I dati del gruppo hanno rivelato lo scorso luglio che la Tunisia ha il terzo peggior livello di inquinamento ambientale dell’Africa, con un tasso del 75,12%, secondo le stime della Heinrich Böll Foundation – North Africa Office. Secondo il rapporto, la Tunisia è scesa di 25 posizioni nella classifica mondiale per occupare nel 2022 il 96° posto.

Ciò pone la Tunisia di fronte alla sfida di ridurre le emissioni di gas serra e anidride carbonica del 45% entro il 2030, un obiettivo su cui si è impegnata quando ha firmato l’accordo di Parigi sul clima nel 2015.

Questi indicatori danno un quadro del devastante impatto ambientale dei rifiuti di plastica in Tunisia, nonché della combustione quotidiana di rifiuti elettronici nelle città palestinesi.

Di fronte a tutti questi pericoli, le donne stanno cercando con le loro iniziative di far sentire la loro voce alle autorità ufficiali sia in Tunisia che in Palestina, e di sollecitarle a trovare soluzioni a queste crisi ambientali.

In questo contesto, il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES) ha presentato, secondo al-Abyad, “un progetto per strutturare il lavoro dei ‘barbechas’ in modo partecipativo con diversi ministeri, tra cui il Ministero degli affari sociali, il Ministero delle Donne e dell’Infanzia e Ministero dell’Economia”, sottolineando “l’importanza di proteggere questo gruppo dagli incidenti a cui è esposto quotidianamente”.

Al-Abyad aggiunge: “La corruzione dell’Agenzia Nazionale Tunisina per la Gestione dei Rifiuti [un’istituzione pubblica non amministrativa che gode di indipendenza finanziaria, istituita nel 2005 e soggetta alla supervisione del Ministero dell’Agricoltura e dell’Ambiente] gioca un ruolo nell’approfondire la crisi dei rifiuti e trasformarla in una struttura non temporanea. L’agenzia è una scatola nera, e non conosciamo nemmeno le sue politiche, come era accaduto nella crisi dei rifiuti italiana, che ha causato un grande scandalo nel 2020.

La crisi dei rifiuti in Italia fa riferimento al sequestro nel 2020 di 282 container di rifiuti plastici tossici nel porto di Sousse. I rifiuti, provenienti dall’Italia, non rispettavano gli standard internazionali per l’importazione e l’esportazione dei rifiuti. Di conseguenza, un gran numero di funzionari è stato licenziato, compreso l’ex ministro dell’Ambiente, Mustapha Aroui.

In Palestina, l’occupazione israeliana e le politiche dell’Autorità palestinese giocano un pesante ruolo quando si tratta di gestire le sue risorse interne e trattare sistematicamente i suoi rifiuti, il che significa più ingiustizia per le donne che lavorano o vivono in aree inquinate, e il continuo perpetuarsi dei terribili effetti sanitari e sociali.

Questa indagine è stata condotta con il supporto della Fondazione tedesca CANDID.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali -Invictapalestina.org