Affrontare la crisi energetica a Gaza

I palestinesi a Gaza soffrono di una crisi energetica sempre più grave a causa dell’assedio in corso da parte del regime israeliano. Di conseguenza, hanno adottato diverse strategie di gestione dell’energia, incluso il solare per compensare la carenza di elettricità.

Fonte: English version
Di Asmaa Abu Mezied – 29 marzo 2023INTRODUZIONE

Dal 2006, i palestinesi a Gaza hanno sofferto di un aggravamento della crisi energetica a causa dell’implacabile assedio del regime israeliano. Di conseguenza, hanno cercato fonti di energia alternative finanziate da donatori, nonché da iniziative governative e del settore privato. Mentre questi progetti possono fornire ai palestinesi soluzioni a breve termine per alleviare i loro bisogni energetici, non riescono a far fronte agli ostacoli fondamentali imposti dall’assedio israeliano, depoliticizzando così la crisi energetica e perpetuando lo status quo.

Affrontare le complessità della crisi energetica a Gaza va oltre lo scopo di questo documento politico. Invece, contestualizza la più ampia crisi energetica di Gaza all’interno dell’assedio del regime israeliano al fine di esaminare più da vicino la crisi energetica dell’enclave in particolare, nonché le strategie che i palestinesi adottano per affrontarla, incluso il fotovoltaico e il solare termico. Come chiarisce l’analisi, qualsiasi tentativo di adottare fonti energetiche alternative nel contesto di un assedio economico pone oneri eccessivi per le famiglie palestinesi che già soffrono di un accesso limitato ai bisogni primari. L’analisi si conclude con raccomandazioni politiche per la dirigenza palestinese, così come per la comunità internazionale dei donatori e gli ambientalisti, per alleviare la crisi energetica a Gaza e contribuire all’autodeterminazione economica dei palestinesi.

Energia sotto assedio

La politica israeliana di privare i palestinesi dell’accesso all’energia è multiforme in tutta la Palestina colonizzata, causando una carenza energetica cronica. Nell’Area C della Cisgiordania, il regime vieta ai palestinesi di collegarsi alle reti elettriche e nega loro i permessi per installare impianti ad energia solare. Nel 2018, ha anche minacciato di distruggere impianti fotovoltaici nelle aree A e B, apparentemente sotto il governo dell’Autorità Palestinese, per non essere autorizzati secondo la legge israeliana. A Gaza, non solo il regime israeliano priva i palestinesi delle risorse energetiche, ma prende di mira anche l’unica centrale elettrica a gasolio in quella che equivale a una vendetta politica, devastando sistematicamente l’economia di Gaza e i mezzi di sostentamento dei palestinesi.

Ciò è particolarmente preoccupante data la crescente dipendenza dei palestinesi dall’energia importata da Israele. Infatti, tra il 2010 e il 2020, i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza hanno aumentato le loro importazioni di energia elettrica dal regime israeliano del 56%, forniture che ora rappresentando il 91% del totale di energia elettrica importata. Questo è 11 volte maggiore degli acquisti di energia elettrica dalla Compagnia Elettrica Palestinese a Gaza. Nel 2017, le famiglie e le imprese palestinesi, così come la Società Elettrica di Gaza (Gaza Power Generating Company – GPGC), hanno speso 769,7 milioni di dollari (703,5 milioni di euro), il 22% del PIL di Gaza, in fonti energetiche importate dal regime israeliano, tra cui petrolio, gasolio, benzina, gas propano liquido, ed elettricità, tra gli altri.

L’offerta di ciascuna fonte varia in base alle condizioni politiche ed economiche prevalenti. Ad esempio, nel 2017, il regime israeliano ha punito collettivamente i palestinesi a Gaza in seguito al rifiuto dell’Autorità Palestinese di pagare le fatture energetiche. Da una media giornaliera di 120 megawatt, Israele ha limitato la sua fornitura mensile di energia a Gaza a 70 megawatt al giorno durante gli ultimi sei mesi del 2017. Allo stesso modo, durante il suo assalto a Gaza nel maggio 2021, Israele ha ridotto la sua fornitura di energia a Gaza a 86 megawatt al giorno.

È importante sottolineare che l’accesso all’energia in Palestina, comprese le fonti energetiche importate come combustibili fossili, elettricità ed energia rinnovabile, è subordinato alle clausole del Protocollo Economico di Parigi (PEP) del 1994, che garantisce il controllo del regime israeliano sulle leve dell’economia palestinese. Infatti, la clausola 12 del PEP impone alle importazioni palestinesi di benzina di soddisfare gli standard sui carburanti europei e statunitensi applicati in Israele. Il PEP stabilisce inoltre che la differenza tra i prezzi della benzina venduta tra i territori del 1948, la Cisgiordania e Gaza non dovrebbe superare il 15%. Diventa quindi sempre più insostenibile per l’Autorità Palestinese importare carburanti da altri Paesi. Di conseguenza, i palestinesi stanno pagando i prezzi più alti per l’energia nella regione, nonostante consumino i livelli più bassi, il che, a sua volta, aggrava le loro difficoltà economiche.

Il circolo vizioso degli aiuti dei donatori

Il rifiuto della comunità internazionale di ritenere responsabile il regime israeliano garantisce il perpetuarsi della dipendenza palestinese dagli aiuti dei donatori per i bisogni fondamentali. Ciò include le risorse energetiche che Israele blocca da Gaza e le infrastrutture vitali che distrugge. Infatti, Israele ha demolito gli impianti fotovoltaici finanziati dai donatori nella città industriale di Gaza e nell’Area C della Cisgiordania, ma i donatori continuano a ignorare queste violazioni mentre stanziano finanziamenti per aiutare i palestinesi a soddisfare i loro bisogni umanitari.

Dal 2006 al 2009, l’Unione Europea ha fornito carburante alla Compagnia Elettrica di Gaza, mentre Qatar e Turchia hanno offerto sovvenzioni per coprire il costo del gasolio industriale e la tassa che il regime israeliano impone agli acquisti di carburante palestinesi. E mentre di conseguenza l’uso dell’energia solare è in costante aumento a Gaza, il 69,2% delle istituzioni che l’hanno adottata dal 2010 ha indicato che può coprire solo fino al 20% dei loro costi di consumo energetico.

Per quanto essenziale possa essere l’aiuto dei donatori per i palestinesi a Gaza, l’assenza di un piano per orientare questi investimenti verso l’autodeterminazione dei palestinesi garantisce il protrarsi dell’assedio israeliano. In definitiva, continuando a eludere le richieste palestinesi di sovranità sulla loro terra e sulle loro risorse naturali, e continuando a proteggere Israele dalla responsabilità, i donatori non fanno altro che rafforzare l’oppressione palestinese e la povertà energetica.

Uno sguardo più da vicino alla crisi elettrica

Questioni strutturali

Nel 2020, l’83,8% della fornitura di elettricità in Cisgiordania e Gaza, e quasi tutta la sua domanda di carburante, è stata importata dal regime israeliano. Il resto è stato importato dalla Compagnia Elettrica Palestinese (Palestine Electricity Transmission Company (5,3%) e dalla Giordania (2,6%). La restante fornitura (8,3%) è stata acquistata localmente dalla Compagnia Elettrica Palestinese attraverso la Società Elettrica di Gaza. A Gaza in particolare, l’elettricità fornita dalla Società Elettrica di Gaza ha costituito solo il 35% dell’energia elettrica acquistata nel 2020, mentre il resto è stato importato da Israele. Nel 2021, il regime israeliano ha ulteriormente limitato l’ingresso di carburante a Gaza per un mese dopo il cessate il fuoco del maggio 2021 con Hamas. Di conseguenza, la Società Elettrica di Gaza poteva operare per la maggior parte a metà capacità, producendo in media 65 megawatt al giorno.

Oltre alle restrizioni sulla fornitura di energia elettrica, la domanda complessiva di elettricità a Gaza sta aumentando con la crescita della popolazione. Le famiglie registrano la percentuale più alta di consumo di energia elettrica (60,69%) rispetto ai settori industriale, dei trasporti e commerciale. Nel 2021, mentre la domanda media giornaliera di elettricità è stata di 500 megawatt, l’offerta media è stata di soli 190 megawatt (120 da Israele e 70 dalla Società Elettrica di Gaza), con un deficit di 310 megawatt. Questo deficit è una crisi cronica che colpisce quasi tutte le famiglie palestinesi a Gaza.

La crisi elettrica è aggravata da frequenti interruzioni, che ostacolano la capacità delle istituzioni del settore pubblico di fornire servizi di base legati alla gestione dell’acqua e dei rifiuti, alla sanità e all’istruzione. Ad esempio, gli impianti di trattamento delle acque reflue a Gaza spesso non sono in grado di trattare le acque di scarico a causa della carenza di elettricità, con il risultato che una quantità giornaliera significativa di acqua parzialmente depurata viene scaricata nel Mar Mediterraneo, minacciando la vita marina e la vitale industria della pesca di Gaza.

Anche la fornitura di assistenza sanitaria è gravemente compromessa dalla mancanza di energia elettrica. Infatti, gli ospedali di Gaza sono spesso costretti a rinviare gli interventi chirurgici non urgenti, con tempi di attesa che raggiungono i 16 mesi nel 2021 rispetto ai tre mesi del 2005. Anche le istituzioni educative ne risentono; questo è stato particolarmente acuto durante la pandemia di COVID-19, quando le frequenti interruzioni di elettricità hanno impedito agli insegnanti di utilizzare le tecnologie in classe e molti studenti sono stati costretti a studiare a lume di candela.

La crisi elettrica sta colpendo anche il settore privato. Alcune aziende sono state costrette a ridimensionare o cessare del tutto l’attività. Altri hanno segnalato un aumento del 30% dei costi di attività per garantire l’elettricità da fonti alternative durante le interruzioni. Ciò ha ridotto i margini di profitto e scoraggiato ulteriori investimenti nel settore privato di Gaza. Per i lavoratori, la situazione è ancora più precaria, con molti costretti ad adeguare il proprio orario di lavoro all’orario di disponibilità dell’elettricità nelle imprese e nelle fabbriche, oppure ad accettare riduzioni dei salari giornaliera a causa della riduzione dell’orario di lavoro.

Effetti sproporzionati sulle donne

Le questioni strutturali sopra delineate evidenziano anche la correlazione diretta tra la carenza energetica e il perpetuarsi della disuguaglianza di genere a Gaza. Ad esempio, alcune aziende sfruttano la crisi per giustificare il rifiuto di assumere donne con il pretesto che non sarebbero in grado di lavorare nei turni notturni in caso di interruzioni dell’elettricità durante il giorno. Ciò è dovuto all’aspettativa patriarcale che le donne nella forza lavoro dovrebbero lavorare meno ore e solo durante il giorno.

La carenza di elettricità ha anche un grave impatto sul lavoro domestico, sulle cui donne palestinesi, come sulle donne di tutto il mondo, grava in modo sproporzionato. Infatti, la carenza energetica a Gaza significa che molte donne sono impegnate ancora più tempo nel lavoro domestico non retribuito, lasciando loro poco o nessun tempo libero. A sua volta, questo crea un aumento dello stress e della pressione, che spesso porta a problemi di salute mentale.

Inoltre, molte donne si affidano a tecniche di trasformazione alimentare fatte in casa, come la produzione di formaggio. Le frequenti interruzioni di elettricità danneggiano gli apparecchi elettrici necessari per queste tecniche, causando danni e costi di riparazione insostenibili che gravano pesantemente sulle famiglie e sulle attività domestiche. Inoltre, a causa dei rischi di malattie di origine alimentare che possono derivare da alimenti deperibili non correttamente conservati durante lunghe interruzioni di elettricità, le donne sono spesso costrette a cucinare tutto il cibo per evitarne il deterioramento. Di conseguenza, sono spesso costrette a fare affidamento su cibi in scatola per sfamare le loro famiglie, o a cucinare e cuocere utilizzando un forno a legna, aggravando i problemi di salute e ambientali.

Inoltre, l’elettricità è vitale per aiutare i palestinesi a Gaza a superare l’aggravamento della crisi climatica, che sta causando temperature estreme. Di conseguenza, i palestinesi fanno sempre più affidamento su apparecchi elettrici, come ventilatori e condizionatori d’aria, per alleviare il caldo soffocante delle estati, e su unità di riscaldamento per sopravvivere al freddo pungente dell’inverno. Vivere in queste condizioni climatiche con elettricità limitata colpisce in particolare le donne, poiché generalmente portano l’onere di prendersi cura delle proprie case e famiglie, in particolare bambini e anziani. In definitiva, mentre tutti i palestinesi di Gaza stanno soffrendo per le conseguenze della povertà energetica, gli effetti sulle donne sono indubbiamente sproporzionati a causa delle prevalenti disuguaglianze di genere.

Strategie palestinesi per far fronte alla crisi energetica 

Uno studio del 2021 ha rilevato che la bolletta elettrica mensile per metà delle famiglie palestinesi campionate a Gaza variava tra 150 e 300 NIS (38 e 76 euro), pari a un quinto del reddito medio mensile delle famiglie di Gaza di 1.260 NIS (321 euro). Di conseguenza, i palestinesi di Gaza hanno sviluppato metodi per risparmiare l’elettricità, consentendo loro di ridurre il proprio consumo della metà rispetto a quello delle famiglie palestinesi in Cisgiordania.

Ai palestinesi a Gaza non manca l’energia solare. Grazie a una media giornaliera di otto ore di luce solare, nel 2004 l’88% delle famiglie di Gaza possedeva pannelli solari termici, pratica adottata negli anni ’70. Sebbene non siano disponibili dati più recenti sulla portata dell’uso di pannelli solari termici a Gaza, nel 2015 il 56,5% delle famiglie palestinesi in Cisgiordania e a Gaza utilizzava pannelli solari termici; nel 2017, i ricercatori hanno scoperto che gli impianti solari termici per riscaldare l’acqua hanno fatto risparmiato ai palestinesi di Gaza il 24,8% sulle loro bollette elettriche annuali.

Energia solare come alternativa all’elettricità

Dal 2013, alcuni palestinesi di Gaza che possono permetterselo hanno iniziato ad adottare il fotovoltaico, sia collegandosi a una rete elettrica esistente (sistema on-grid), attraverso un modello ibrido, o completamente indipendente (off-grid). A differenza dei pannelli solari termici, che convertono la radiazione solare in calore, la tecnologia fotovoltaica converte la luce solare in elettricità, consentendo così alle famiglie di alimentare apparecchi elettrici oltre a riscaldare l’acqua. Sebbene le stime esistenti sul contributo del fotovoltaico alla fornitura di elettricità a Gaza siano inaffidabili, i ricercatori sono stati in grado di determinare che il numero di sistemi fotovoltaici installati a Gaza è aumentato da 591 nel 2015 a 8.760 nel 2019, mentre la superficie dei pannelli solari è aumentata da 115  metri quadrati nel 2012 a 20.000 metri quadrati nel 2019.

Nonostante il suo potenziale, il fotovoltaico è costoso. Il prezzo per l’installazione di un impianto fotovoltaico indipendente di 1 kilowatt è compreso tra 1.000 e 2.500 dollari (916 e 2.290 euro), esclusi i costi di manutenzione. Tali sistemi coprono l’illuminazione domestica, mentre il funzionamento di altri dispositivi elettrici come frigoriferi, ventilatori e lavatrici richiede una capacità maggiore di 3 kilowatt al costo di 3.000-5.000 dollari (2.750-4.583 euro). Al contrario, 1 kilowatt di un sistema collegato alla rete, ampiamente utilizzato in Cisgiordania, varia tra gli 850 e i 1.000 dollari (779 e 916 euro).

Al di là del costo, negli ultimi due decenni il regime israeliano ha limitato sporadicamente l’ingresso dei materiali necessari per installare apparecchiature per l’energia solare. Inoltre, i suoi successivi attacchi a Gaza hanno distrutto le infrastrutture necessarie per l’installazione degli impianti fotovoltaici, compresi gli edifici residenziali necessari per ospitare una popolazione in rapida espansione, che dovrebbe raggiungere i 3,1 milioni nel 2030. Combinate con la diminuzione dello spazio su terra e sui tetti, queste realtà rendono estremamente dissuasivo per la maggior parte dei palestinesi di Gaza prendere in considerazione l’adozione del fotovoltaico.

Infatti, i palestinesi a Gaza generalmente sostengono l’uso dell’energia solare come mezzo per ridurre le spese domestiche e far fronte alle interruzioni di elettricità. Tuttavia, sottolineano che l’accessibilità e la convenienza sono i principali ostacoli a farlo. Ad esempio, i fornitori di impianti solari indicano che mentre gli aiuti dei donatori hanno ampiamente coperto i costi delle installazioni di impianti fotovoltaici nelle comunità emarginate di Gaza, gli impianti funzionano a capacità minime (1 kilowatt), sufficienti solo per l’illuminazione. Inoltre, i dipendenti pubblici che lavorano nel settore sanitario hanno indicato che l’importo massimo che possono stanziare per l’installazione di un impianto solare è di 5.000 NIS (1.272 euro), che è inferiore all’importo necessario per l’acquisto di un impianto da 1 kilowatt.

L’accesso a fonti energetiche alternative, in particolare l’elettricità, è quindi un lusso costoso. In una società piena di crescenti divisioni socioeconomiche, molti non possono permettersi la spesa. Invece, le famiglie nei villaggi e nei campi profughi dipendono da candele e fornelletti a combustibile liquido per cucinare durante le interruzioni: alternative più economiche che possono essere pericolose e fatali. Infatti, tra il 2012 e il 2022, 35 palestinesi a Gaza sono rimasti uccisi e 36 feriti, per lo più bambini e donne, a causa di incendi provocati da candele e/o altre fiamme libere.

Iniziative governative e del settore privato

Nell’ambito del suo piano strategico per il 2020-2030, l’Autorità Palestinese per l’Energia e le Risorse Naturali (Palestinian Energy and Natural Resources Authority – PENRA) si è prefissata ambiziosamente di arrivare a produrre 500 megawatt di elettricità entro il 2030, l’80% dei quali sarebbe prodotto da energia solare al costo di 650-734 milioni di dollari (595,5-672,5 milioni di euro). L’Autorità Palestinese ha anche emanato decreti nel 2015 e nel 2017 per incoraggiare gli investimenti del settore privato nell’energia rinnovabile. Questi decreti prevedevano incentivi fiscali e di investimento alle aziende che producono elettricità da fonti rinnovabili come tariffe di riacquisto e la misurazione netta (net metering – solo quest’ultima è implementata a Gaza).

Tuttavia, l’assedio israeliano e la divisione politica tra Fatah e Hamas creano disparità nell’attuazione di queste iniziative di finanziamento verde a Gaza. Di fatto, le iniziative di PENRA e di società private come il Fondo per gli Investimenti Palestinesi (Palestine Investment Fund) per incoraggiare l’adozione del solare da parte delle famiglie si sono estese principalmente alla Cisgiordania. Ad esempio, SUNREF, un progetto sponsorizzato dall’Unione Europea, ha fornito 25 milioni di euro in prestiti senza interessi ad aziende del settore privato per investire in energie rinnovabili tra il 2017 e il 2021; le aziende con sede a Gaza hanno ricevuto solo il 6% circa di questi prestiti. Di conseguenza, l’adozione della tecnologia solare a Gaza è stata in gran parte limitata alle strutture sanitarie, alle istituzioni statali e alle imprese private che possono permettersi i costi di installazione e di esercizio.

Ma estendere i prestiti alle famiglie non risolverebbe il problema. Il Fondo di Riconversione Solare di Gaza (Gaza Solar Revolving Fund), lanciato dalla Banca Mondiale e PENRA, è un’iniziativa volta a fornire alle piccole imprese e alle famiglie prestiti senza interessi. Tuttavia, la divisione politica tra Fatah e Hamas continua ad allontanare molti palestinesi dalla loro dirigenza, soprattutto a causa dei tagli governativi ai salari dei dipendenti pubblici. Di conseguenza, l’iniziativa del Fondo di Riconversione Solare, come altre, ha visto un basso consenso da parte dei consumatori, anche con la possibilità di dilazionare il pagamento.

Infatti, anche la Società di Distribuzione Elettrica di Gaza (Gaza Electricity Distribution Company) ha lanciato un progetto che offre l’installazione di sistemi solari per le famiglie pagabili in rate mensili. Tuttavia, il pacchetto più economico è di 6.956 NIS (1.762 euro) in 28 mesi, che è oltre l’importo massimo che i dipendenti del settore pubblico hanno dichiarato di poter mettere da parte per i sistemi ad energia solare. Altre aziende hanno seguito l’esempio, fornendo piani di pagamento rateale per incoraggiare l’acquisto da parte dei consumatori con scarso successo.

Inoltre, i requisiti esistenti per beneficiare di finanziamento verde, tra cui la garanzia di un lavoro stabile, uno stipendio regolare e un conto bancario registrato, significano che pochi palestinesi a Gaza possono fare domanda, lasciando la maggioranza dipendente dal regime israeliano e/o dagli aiuti dei donatori per l’accesso all’elettricità. Ciò evidenzia il divario critico tra il settore privato, i donatori e le politiche governative e i bisogni della popolazione palestinese di Gaza. Nonostante le iniziative attuate dall’Autorità Palestinese per alleviare la carenza energetica a Gaza, sono state limitate nella portata e nell’attuazione.

Raccomandazioni

È fondamentale comprendere il diritto dei palestinesi a Gaza di accedere all’energia nel contesto dell’assedio israeliano, della divisione politica palestinese e degli aiuti dei donatori. La discussione sull’adozione dell’energia solare come soluzione alla crisi energetica a Gaza deve quindi essere riformulata da una questione tecnica a una politica, con al centro la giustizia e la liberazione per i palestinesi:

• La dirigenza palestinese, gli ambientalisti e la comunità dei donatori devono concentrare i loro sforzi di tutela sulla pressione per misure punitive contro il regime israeliano e sulla promozione della sovranità politica ed economica palestinese.

• PENRA deve estendere le sue iniziative sull’energia solare alle comunità emarginate di Gaza, il che richiederebbe il coordinamento tra i dirigenti politici palestinesi. Ciò include incoraggiare gli investimenti nei sistemi ad energia solare basati sulla comunità e spingere i comuni a collaborare con PENRA per incentivare le famiglie a passare all’energia solare offrendo esenzioni fiscali.

• I comuni e i ministeri locali devono lavorare con PENRA per integrare la progettazione di fonti energetiche diversificate nei progetti di pianificazione urbana e ricostruzione a Gaza. Ciò include l’assegnazione di terre governative (comprese le terre del WAQF, l’istituzione islamica di tutela patrimoniale) per l’allestimento di impianti ad energia solare, specialmente nelle aree con infrastrutture elettriche limitate.

• PENRA e altre autorità pubbliche devono spingere per la fornitura da parte del settore privato di soluzioni ad energia solare. Ciò include l’offerta di sussidi governativi e incentivi fiscali, nonché l’utilizzo di terreni di proprietà pubblica per progetti di energia solare.

• Al fine di accertare la portata della crisi energetica in corso, l’Ufficio Centrale Palestinese di Statistica e i centri palestinesi di ricerca sull’energia devono: mappare e registrare tutti gli impianti ad energia solare installati a Gaza per garantire statistiche ufficiali e affidabili; coprire questioni di genere, condizioni socioeconomiche e dati demografici delle famiglie, tra gli altri; e garantire che questi dati informino tutte le iniziative di finanziamento verde e i progetti ad energia solare attuati a Gaza.

Asmaa Abu Mezied è una specialista in sviluppo economico e inclusione sociale che lavora con Oxfam per affrontare questioni di genere, sviluppo e cambiamento climatico nel settore agricolo. I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’economia dell’assistenza, sull’organizzazione collettiva delle donne nei settori economici, sulla responsabilità sociale del settore privato e l’intersezione delle identità politiche, agricole e ambientali palestinesi. È stata corrispondente da Gaza Fellow di Al-Shabaka nel 2022 ed è stata in precedenza Atlas Corps Fellow in collaborazione con President Obama Emerging Global Leaders, un Gaza Hub-Global Shaper (un’iniziativa del World Economic Forum) e organizzatrice della Fondazione Mozzilla (Mozilla Foundation Wrangler) nel 2021 presso “l’Istituto Tecnologico per l’Attivismo Sociale” (Tech for Social Activism).

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org