Giornata mondiale della libertà di stampa: ricordare i caduti e i dimenticati

In tutto il mondo, i giornalisti vengono minacciati per aver detto la verità al potere. In occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, The New Arab invita a ricordare coloro che sono morti, i dimenticati, e a celebrare il ruolo del giornalismo nel denunciare la corruzione e la violenza.

Fonte: English version

Saud Khalaf – 3 maggio 2023

Nelson Mandela una volta disse: “Negare alle persone i loro diritti umani è sfidare la loro stessa umanità”.

Questo è un  promemoria del fatto che ogni essere umano ha il diritto di vivere in libertà, preservando  i suoi diritti umani fondamentali.

Mandela, che era un convinto sostenitore della causa palestinese, sottolineò anche che “sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

 “Quarantasei  giornalisti palestinesi sono stati uccisi da Israele dal 2000, secondo il Sindacato dei giornalisti palestinesi. Il sindacato ha anche registrato tra i 500 ei 700 attacchi annui a giornalisti palestinesi”

Ciò è rilevante per la Giornata mondiale della libertà di stampa delle Nazioni Unite e per il tema di quest’anno: “Dare forma a un futuro di diritti: la libertà di espressione come motore per tutti gli altri diritti umani”.

È fondamentale riflettere su come questi concetti, diritti umani e libertà dei media, si relazionano ai palestinesi. Possiamo davvero dire che stiamo difendendo i diritti umani quando i giornalisti vengono assassinati mentre trasmettono i loro reportage?

Questa è una professione difesa dal diritto umanitario. Quando la giornalista Shireen Abu Akleh viene uccisa mentre segue un’incursione in un campo profughi, quali libertà di stampa e garanzie vengono fornite?

La stimata giornalista palestinese Shireen Abu Akleh fu l’11 maggio 2022, mentre copriva un raid dell’IDF a Jenin, in Palestina. Sebbene Israel avesse inizialmente affermato che era stata la sfortunata vittima di un fuoco incrociato, la comparsa online  di numerosi video ha rapidamente smentito questa affermazione, mostrando la realtà della sua morte ingiusta. Nuove prove hanno rivelato che fu deliberatamente presa di mira, anche se indossava il suo giubbotto “da stampa”.

La morte prematura di Shireen Abu Akleh non è stata un incidente isolato, ma piuttosto parte di uno schema inquietante. Quarantasei  giornalisti palestinesi sono stati uccisi da Israele dal 2000, secondo il Sindacato dei giornalisti palestinesi. Il sindacato ha anche registrato tra i 500 ei 700 attacchi ogni anno contro giornalisti palestinesi.

Durante l’ultimo grande operazione a Gaza nel 2021, Israele lanciò un assalto contro un grattacielo che ospitava gli uffici dell’Associated Press e di Al Jazeera. La presunta presenza di intelligence militare nella struttura fu  usata come giustificazione per l’attacco, ma in realtà c’era nessuna prova concreta a sostegno di questa affermazione.

Data la continua repressione delle opinioni e le pervasive violazioni dei diritti umani verso i giornalisti palestinesi, può essere difficile capire cosa intendano le Nazioni Unite quando sostengono di “plasmare un futuro di diritti”.

Ho parlato con una giovane giornalista palestinese delle sue esperienze professionali e del profondo effetto che la terribile uccisione di Shireen ha avuto sulla lotta per la giustizia. “Shireen Abu Akleh, la nostra martire, che riposi in pace, ci ha mostrato cosa significa vera forza e coraggio nel giornalismo. La sua scomparsa è stata un campanello d’allarme per i palestinesi, ci ha ricordato il mettere a tacere  delle nostre voci. Ma il suo coraggio non ci ha portato ad arrenderci anzi, ha alimentato la nostra determinazione a gridare ancora più forte. Il suo martirio ci ha portato unità, forza e una rinnovata speranza di essere ascoltati. Ci ha fatto capire la portata della censura e del silenzio, ma ha anche rivelato lo spirito indistruttibile del popolo palestinese”.

Queste sono le potenti parole di Adan Alhjooj, attivista e giornalista palestinese beduina proveniente da Al-Naqab, una regione storicamente significativa nel sud della Palestina. Questa regione desertica comprende oltre la metà del territorio della Palestina e dagli israeliani  è stata ribattezzata Negev.

 

Fuori dall’ufficio dell’UNESCO a Gaza City, giornalisti palestinesi protestano contro la violenza israeliana [Getty Images]
In quanto hub commerciale, Al-Naqab ha avuto un impatto storico significativo e molti commercianti attraversavano queste regioni.

L’incenso e la mirra erano i componenti chiave del commercio su quella che era conosciuta come la Via dell’Incenso. Il noto autore romano, Plinio il Vecchio, scrisse che i viaggiatori impiegavano circa 62 giorni per completare il viaggio.

Molte merci venivano trasportate dall’Arabia meridionale al Mediterraneo attraverso queste piste,  che si estendevano per oltre duemila chilometri.

Ironia della sorte, la rotta commerciale di Al-Naqab, un tempo trafficata, contrasta nettamente con la sua condizione attuale. Gravi restrizioni alla libertà e al movimento delle persone caratterizzano  quello che un tempo era un percorso per il libero flusso del commercio.

“Essendo una beduina palestinese, spesso mi sento esclusa dalle conversazioni sull’occupazione e sulla più ampia lotta palestinese. Da quando ho memoria, ho attivamente di dimostrare la mia identità beduina”, afferma Adan con orgoglio. Adan Ha dovuto affrontare il pregiudizio secondo il quale i beduini hanno dimenticato o trascurato la loro eredità palestinese, una convinzione che è lei è determinata a sfatare.

I beduini palestinesi erano in origine nomadi che vivevano e viaggiavano nella regione desertica del Naqab. La loro esistenza divenne  molto più difficile dopo l’istituzione dello Stato di Israele nel 1948, e molti furono sfollati in altre regioni all’interno della Palestina, come Gaza e la Cisgiordania.

Ricorda vividamente la dualità della sua infanzia, divisa tra il villaggio di sua madre, Lakiya, e il villaggio di suo padre, Awajan.

Sfortunatamente, Awajan fu designato come villaggio non riconosciuto dalle autorità israeliane. Quando a un villaggio viene concesso lo status di non riconosciuto, viene classificato come illegale secondo la legge israeliana. Questa classificazione rende i cittadini impossibilitati ad accedere a gran parte delle infrastrutture statali di base necessarie.

Un momento cruciale nella vita di Adan si è verificato lo scorso anno, quando una città vicina ha dovuto affrontare la distruzione dei suoi preziosi ulivi da parte di Israele. Il fatto che gli oliveti coprano oltre il 45% del territorio palestinese e siano sia una fonte vitale di cibo, sia un elemento fondamentale per l’economia locale, evidenzia la necessità di preservarne l’esistenza.

Un video del suo discorso durante una manifestazione a cui ha partecipato con la sua famiglia in quell’occasione, è diventato virale online, lanciando la sua carriera nel giornalismo e nell’attivismo.

“Questo video diventato virale ha cambiato le cose per noi come comunità”, ha detto “ Partecipare a una manifestazione come donna di una società conservatrice, parlare inglese e non indossare l’hijab, ha sfidato le norme sociali. Da quella protesta, siamo diventati più uniti che mai, e il resto della Palestina e dei palestinesi di tutto il mondo hanno finalmente avuto la possibilità di conoscere e ascoltare le nostre voci, le voci dei beduini palestinesi”.

 “La libertà di stampa è essenziale per consentirci di denunciare, chiedere giustizia e indicare i responsabili del mantenimento di questi sistemi oppressivi. Inoltre, la libertà di parola è di grande importanza, riconoscendo il suo contesto nel quadro del rispetto dei diritti degli altri”

Adan  si è dedicata al giornalismo a causa della mancanza di rappresentazione della Palestina nei media e la copertura limitata dovuta alla censura tradizionale.  Si è concentrata principalmente sulla Cisgiordania e su Gaza.

“Volevo attirare l’attenzione sui territori del 1948, in particolare sul deserto di Al-Naqab e sui suoi residenti beduini, che ricevono poca copertura dai media”, ha detto. “Il mio obiettivo è stato e continua ad essere quello di dimostrare quanto diversamente ogni palestinese affronta l’occupazione e come tutti si impegnano in varie forme di resistenza. Volevo contribuire al dibattito, portare una rappresentazione diversa e renderla più inclusiva “.

Quando ho chiesto ad Adan se credeva sinceramente nell’esistenza della libertà di parola, ha riflettuto brevemente prima di rispondere.

“Forse per altri, ma non per i palestinesi”, ha detto. “La nostra mera esistenza la dice lunga, costantemente sotto la minaccia della cancellazione. Parlare è una necessità per noi e ha delle conseguenze. Non c’è libertà di parola quando le persone sono private delle proprie libertà”.

La capacità di Adan di condividere le sue storie con i suoi follower sui social media è stata influenzata da questa restrizione della parola.  Le sue notizie vengono regolarmente bloccate attraverso una pratica nota come “divieto ombra”, che avviene all’insaputa dell’utente. Adan ha anche raccontato casi in cui le stesse piattaforme hanno ritirato le sue storie online, portando a un forte calo del suo pubblico.

“Ho dovuto riconsiderare la possibilità di pubblicare determinate cose, temendo che il mio account venisse cancellato o trovando modi alternativi per far sì che non fossero censurate, solo così le persone possono vederle e io posso continuare a fare ciò che amo, ovvero educare altri”, ha dichiarato.

Quando gli attivisti filo-palestinesi affrontano l’ostacolo della censura, per molti di loro può essere frustrante e scoraggiante. Poiché i social media sono la fonte principale di gran parte delle nostre informazioni relative alle questioni mondiali, queste piattaforme sono diventate fondamentali per coloro che vogliono difendere i diritti umani. Bella Hadid, una nota modella palestinese-americana, ha pubblicamente criticato Instagram per aver limitato le sue storie, portando l’attenzione sulla questione più generale del mettere a tacere il sentimento pro-Palestina.

“Sentirsi messi a tacere dai media, dove altri hanno il diritto di parlare liberamente di una serie di questioni e argomenti, è stato un nuovo e irritante tipo di silenzio. Per molti movimenti, i media e il giornalismo sono stati il catalizzatore della consapevolezza e della rivoluzione, e sono felice di dire che alcune volte ci siamo riusciti anche per la causa palestinese. Tuttavia, è incredibilmente difficile andare avanti quando proprio il posto in cui dovresti sentirti libero, cancella la tua voce “, ha affermato Adan.

 

Un fotografo indossa un tesserino con la foto della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh [Getty Images]
Un altro giornalista palestinese, di Ramallah, che affronta la censura dei media nel suo lavoro quotidiano è Salem Barahmeh, fondatore e direttore creativo di Uncivilized Media. È anche l’ex direttore esecutivo del Palestine Institute for Public Diplomacy.

“La nostra linea editoriale si concentra sulla sfida al dominio nelle sue molteplici forme, tra cui il colonialismo, il razzismo e il patriarcato. La libertà di stampa è essenziale per consentirci di denunciare, chiedere giustizia e indicare i responsabili del mantenimento di questi sistemi oppressivi. Inoltre, la libertà di parola è di grande importanza, riconoscendo il suo contesto nel quadro del rispetto dei diritti degli altri”, ha sottolineato Salem.

Motivato dalla realizzazione di sistemi interconnessi di oppressione in tutto il mondo e dall’interconnessione di tali lotte, Salem ha fondato Uncivilized Media con la consapevolezza che la liberazione della Palestina è intrinsecamente legata ad altri movimenti globali.

“Ci sono stati molti casi in cui gli account dei social media palestinesi sono stati rimossi semplicemente per aver condiviso o aver denunciato  le realtà della nostra vita quotidiana sotto questi sistemi di violenza, colonialismo dei coloni e apartheid”, spiega Salem.

Sebbene gran parte del lavoro di Salem sia digitale, mantiene piena consapevolezza e solidarietà con altri giornalisti palestinesi caduti vittime delle tattiche di silenzio dell’occupazione. Questo porta la nostra discussione al punto di partenza, poiché Salem riflette sull’eccezionale lavoro e sui contributi di Shireen Abu Akleh.

“Shireen era una giornalista palestinese, in tenuta da stampa, ed è stata colpita da un israeliano. Non era la prima volta che si verificava un incidente del genere. Shireen non era solo uno dei giornalisti più importanti in Palestina,n   ma anche nel mondo. Era la voce della mia generazione. Ricordo vividamente di essere cresciuto e di aver guardato i reportage di Shireen durante la Seconda Intifada. Era diventata una figura familiare e fidata per tutti noi”, ricorda tristemente.

Deve essere chiaro che mentre alcune storie fanno notizia, ci sono dozzine di altri giornalisti innocenti che sono stati uccisi per mano di incursioni dell’IDF, sparatorie o bombardamenti. In questa giornata delle Nazioni Unite per la libertà di stampa mondiale, ricordiamoci costantemente l’ingiustizia inflitta ai giornalisti che stanno semplicemente trasmettendo la realtà della loro occupazione.

Se la libertà di espressione è davvero un motore per tutti gli altri diritti umani, allora la responsabilita  per le uccisioni di giornalisti come Shireen Abu Akleh, Yasser Murtaja, Yusef Abu Hussein, Ahmad Abu Hussein, Fadel Shana e innumerevoli altri, deve essere chiaramente indicata.

 

Saoud Khalaf è un regista e scrittore iracheno di origine britannica che vive a Londra. I suoi video, che hanno raccolto milioni di visualizzazioni sui social media, si concentrano sulla giustizia sociale per i gruppi emarginati con un’attenzione specifica al Medio Oriente. Il suo ultimo documentario è stato presentato in anteprima al Southbank Centre for Refugee Week.