Abusi sessuali e percosse: il calvario di una madre palestinese sotto custodia israeliana

Una donna rapita dalle forze israeliane in una scuola di Gaza ricorda la sua straziante esperienza in detenzione.

Fonte: English version

Di Ahmed Aziz – 24 febbraio 2024

Immagine di copertina: Una donna palestinese  sul luogo degli attacchi israeliani contro le case a Khan Younis nella Striscia di Gaza, 14 dicembre 2023 (Retuers/Ibraheem Abu Mustafa)

Abusi sessuali, percosse, urla, privazione del cibo, negazione di cure mediche e tortura psicologica.

Questo ha subito durante la detenzione israeliana Amena Hussain (nome fittizio per proteggere l’identità dell’intervistata).

La donna palestinese, madre di tre figli, è stata rapita dalle forze israeliane dal suo luogo di rifugio nella Striscia di Gaza devastata dalla guerra alla fine di dicembre.

Per oltre 40 giorni è stata detenuta in condizioni inimmaginabili.

Lei è una delle centinaia di donne, ragazze, uomini e anziani palestinesi che sono stati arbitrariamente detenuti dalle truppe israeliane durante l’assalto in corso.

Sono tenuti in isolamento, con soldati i israeliani che li portano in luoghi sconosciuti e non forniscono informazioni su dove si trovino.

Hussain è stata una dei pochi fortunati che ce l’hanno fatta. Il resoconto che segue si basa su un’intervista rilasciata a Middle East Eye, in cui ricorda la sua straziante esperienza durante la detenzione israeliana.

Incursione notturna

Hussain viveva a Gaza Città con le sue due figlie, di 13 e 12 anni, e suo figlio, di sei anni.

Quattro giorni dopo l’inizio della guerra, il 7 ottobre, sua sorella li raggiunse in casa dopo che la sua abitazione era stata bombardata.

Per quasi un mese sono vissute nel terrore degli implacabili attacchi aerei israeliani.

La città, che prima della guerra contava quasi un milione di abitanti, era stata oggetto di una campagna di bombardamenti considerata tra le più distruttive della storia recente, causando in proporzione più danni di quelli dei bombardamenti alleati sulla Germania durante la Seconda Guerra Mondiale.

Alla disperata ricerca di un senso di sicurezza, Hussain è partita con i suoi tre figli per rifugiarsi in una scuola di Gaza.

Ma non era abbastanza.

“L’esercito continuava a chiamare ossessivamente il mio cellulare e chiedere a tutti di lasciare la scuola”, ha detto Hussain.

“Ho radunato i miei figli e sono andata a cercare rifugio in una scuola nel centro della Striscia di Gaza, nella zona di Nuseirat, ma era così incredibilmente affollata che non siamo riusciti a trovare un posto dove stare, figuriamoci, sederci o dormire. Alla fine ho girato tra le scuole alla ricerca di un posto sicuro per i miei figli finché non abbiamo trovato una scuola in cui alloggiare nel campo profughi di al-Bureij,” ha detto.

“Siamo rimasti lì per i successivi otto giorni. Il nono giorno, la scuola è stata bombardata dall’esercito israeliano, anche se sapevano che ospitava donne, bambini e intere famiglie sfollate. Grazie a Dio, io e i miei figli siamo sopravvissuti al bombardamento. Successivamente, ho cercato rifugio in un’altra scuola”.

Palestinesi si rifugiano in una scuola delle Nazioni Unite a Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, il 24 febbraio 2024 (Majdi Fathi/NurPhoto via Reuters)

Sfollata più volte in meno di due mesi, Hussain si è sentita sollevata nel trovare finalmente un rifugio adeguato nel centro della Striscia di Gaza.

Ma il suo peggior incubo non era ancora iniziato. Meno di un mese dopo essere arrivata ​​all’ultima scuola, della quale abbiamo omesso il nome per proteggere l’identità di Hussain, sono arrivate le truppe israeliane.

“Hanno brutalmente fatto irruzione alle 2:30 di notte, ordinando a tutti di lasciare la scuola. Hanno aggredito tutti. I soldati hanno portato fuori i ragazzi e li hanno fatti spogliare. Hanno trascinato fuori tutti gli uomini denudati. Siamo rimasti così fino alle 10:00 del mattino.

“Intorno alle 15:00, i soldati hanno detto alle donne di prendere i loro bambini e di andarsene, ordinandogli di dirigersi a Sud. Parlando attraverso un megafono, hanno detto che ogni donna poteva portare con sé solo una borsa e i figli. Ho cercato di raccogliere tutte le scatolette di cibo che potevo prendere e le cose più necessarie per la nostra sopravvivenza e andarcene”.

Quando le donne iniziarono ad uscire dalla scuola, alcune di loro furono fermate. Hussain era tra loro.

“I soldati chiesero il mio documento d’identità e mi portarono con loro insieme ad altre nove donne. Non conoscevo nessuna di loro, perché erano di al-Bureij mentre io ero di Gaza. Un uomo mascherato mi ha indicato e il soldato ha chiamato il mio nome e mi ha chiesto di entrare in una tenda, sostenendo che lì c’è un medico che desidera parlarmi brevemente”.

Per confortare i suoi figli, Hussain gli disse che avrebbe preso loro cibo e acqua dalla tenda.

Ma quando è entrata, un ufficiale donna israeliana la stava aspettando all’interno. Non c’erano medici.

“Togliti tutto”, disse l’ufficiale, parlando in arabo.

Rimasta in mutande, Hussain fu perquisita dalla testa ai piedi.

“Quando non trovarono nulla, mi disse di rivestirmi e ho pensato che mi avrebbero rilasciata, quando all’improvviso ho sentito il soldato dietro di me puntarmi una pistola alla schiena e intimarmi di camminare. ‘Dove mi state portando?’, ho chiesto al soldato, e lui mi ha risposto dicendomi di stare zitta e di continuare a camminare finché non mi ha fatto salire in un grande furgone con altre donne a bordo”, ha detto Hussain.

“Mi ha ammanettato, mi ha colpito con la sua arma e ha cercato di passarmi la mia carta d’identità. Era buio, non potevo vedere nulla e non potevo prenderla. Quindi mi ha colpito di nuovo con la sua arma e me l’ha data”.

Il furgone è poi partito per un lungo viaggio.

Benvenuti in Israele

Dopo quattro o cinque ore, il furgone arrivò a destinazione.

“Sono andata nel panico, sentivo che ero lontana dai miei figli”, ha detto Hussain.

Lì, in un luogo a lei sconosciuto, vide un gruppo di uomini israeliani. Uno di loro disse alle donne: “Benvenute in Israele”.

“Scioccata e terrorizzata all’idea di trovarmi in Israele, ho iniziato ad agitarmi e a gridare: ‘E i miei figli, cosa succederà loro, non posso lasciarli soli, non hanno nessuno’. Sentivo che stavo impazzendo. Dicevano che i miei figli stavano bene, ma io non ci credevo”.

A quel punto una delle donne fu rilasciata, mentre le restanti nove, compresa Hussain, sono state portate in quella che sembrava essere una struttura di detenzione.

Lì hanno visto un gruppo di giovani palestinesi, circa 30 o 40, seduti al freddo e indossando solo un leggero camice da laboratorio.

Alle donne furono offerte delle coperte, ma Hussain non poteva sopportare di guardare gli uomini seminudi senza offrire un po’ di aiuto.

“Ho detto alle donne che avremmo dovuto condividere le coperte con gli uomini. Stavano congelando dal freddo pungente. Non potevo sopportare di vederli così. Pensavo ai miei figli e mi preoccupavo per loro”.

I due gruppi iniziarono quindi a presentarsi l’un l’altro, sperando di ottenere qualche informazione sulle loro famiglie.

Ma dopo poco le donne sono state portate fuori di nuovo, ammanettate e con braccialetti numerati ai polsi.

“Ci misero su un autobus, costringendoci a sederci con il corpo piegato. Se muovevo la testa o aggiustavo il corpo, una soldatessa urlava e mi colpiva con la sua arma. Mi insultava e mi prendeva a calci”, ha detto Hussain.

“Poi ci hanno trasferito su un altro autobus, dove finalmente mi hanno dato un sorso d’acqua. Solo un sorso d’acqua. Era la prima cosa che ingerivamo in 24 ore da quando ci portarono via dalla scuola. Soffro di diabete e di pressione alta. L’ho detto ai soldati per tutto il tempo ma non gli importava.

“Ma quando finalmente ebbi quel sorso d’acqua, placai la mia sete e mi addormentai. Subito dopo, era giorno”.

Perquisizioni a nudo

Dopo una lunga ed estenuante giornata, il gruppo di donne è arrivato in quello che sembrava essere un’altra struttura di detenzione, dove hanno trascorso i successivi 11 giorni.

Hussain non sapeva con certezza dove fosse o che aspetto avesse la struttura perché era per lo più bendata e sentiva parlare solo l’ebraico intorno a lei, lingua che non capiva.

Al loro arrivo lì, fu portata in una stanza e le fu tolta la benda.

“Ho visto luci intense e una finestra di vetro che sospetto avesse telecamere di sorveglianza”, ha detto.

“Le soldatesse israeliane hanno iniziato a picchiarmi e a gridarmi di togliermi i vestiti. Sono rimasta sorpresa che mi chiedessero di togliermi di nuovo i vestiti. Mi hanno fatto spogliare fino alle mutande. Continuavano a sputarmi addosso”, aggiunse Hussein.

“In ogni momento della mia detenzione, ogni volta che venivamo trasferite da un luogo all’altro, venivamo perquisite. Gli agenti mi infilavano le mani nel reggiseno e nei pantaloni. Ci colpivano e ci prendevano a calci e se facevamo qualsiasi movimento o rumore, ci urlavano di stare zitte”.

Quando i soldati finirono di perquisire Hussain in quella stanza, non le restituirono i vestiti.

“Ho pregato la soldatessa di restituirmi il reggiseno. Ho detto che non potevo muovermi senza, ma lei continuava a urlare che non potevo indossarlo. Mi ha lanciato pantaloni e una maglietta e ha detto che potevo indossare solo quelli. Continuava a prendermi a calci e a colpirmi con il manganello mentre mi vestivo”.

Soldati israeliani accanto a un camion pieno di detenuti palestinesi a torso nudo nella Striscia di Gaza, 8 dicembre 2023 (Reuters/Yossi Zeliger)

“Era pura tortura. Era molto vendicativa ed estremamente violenta e piena di risentimento, come lo erano tutti loro. Mi stavano usando violenza in tutti i modi. Era scioccante vedere donne abusare di altre donne, donne della loro stessa età o anche più grandi. Come possono farci questo?”.

Hussain è stata quindi portata in un’altra stanza dove avrebbe dovuto fornire informazioni su quali soldi e gioielli avesse addosso. I circa 1.000 dollari (923 euro) che aveva con sé, insieme ai suoi orecchini d’oro, le furono portati via. È stata poi portata fuori, mentre veniva ancora presa a calci e malmenata dai soldati.

Poi, sentì una voce che sembrava quella di sua figlia.

“Pensavo di aver sentito le mie ragazze chiamarmi, così ho iniziato a gridare ‘la mia bambina, la mia bambina’, solo per scoprire che non era mia figlia”.

La testimonianza di Hussain sugli abusi subiti arriva mentre gli esperti delle Nazioni Unite solo la settimana scorsa esprimevano preoccupazione per le denunce di aggressioni sessuali subite da donne e ragazze palestinesi da parte dei soldati israeliani.

“Almeno due detenute palestinesi sarebbero state violentate, mentre altre sarebbero state minacciate di stupro e violenza sessuale”, hanno detto gli esperti.

Anche le donne detenute sono state “sottoposte a trattamenti disumani e degradanti, sono state private di assorbenti mestruali, cibo e medicine e sono state duramente picchiate”.

Gabbie e interrogatori

Alla fine, Hussain fu portata in una piccola stanza insieme alle altre otto donne detenute con lei e ad altre quattro.

Tutte e 13 sono state chiuse in gabbie dentro una piccola stanza buia, che secondo Hussain sembrava un ricovero per animali. “C’erano materassi sottili nelle gabbie con alcune coperte ma senza cuscini. Era come dormire sul pavimento freddo. Siamo state tenute ammanettate per tutto il tempo”, ha detto.

“I bagni erano tutti sporchi e avevamo paura di ammalarci semplicemente usando il bagno. Non c’era acqua corrente. Si andava in giro con una bottiglia d’acqua che serviva per bere e lavarsi.

“Le ragazze hanno cercato di aiutarsi e sostenersi a vicenda. Volevamo pregare ma non c’era acqua per le abluzioni prima della preghiera, quindi abbiamo usato la terra.

“Per il cibo, portavano una piccola quantità ogni giorno, appena sufficiente per una persona. Avevamo a malapena da mangiare. Era estremamente difficile sopravvivere senza cibo e acqua, senza vestiti e coperte.

“Il mio corpo era provato ed esausto. Era dolente e violato. Sentivo che stavo per crollare. Ero preoccupata per i miei figli, mi chiedevo se fossero al sicuro, se avessero cibo e acqua, se fossero al caldo e avessero qualcuno a prendersi cura di loro”.

Il gruppo di donne ha trascorso 11 giorni in questa struttura, durante i quali Hussain è stata interrogata due volte, un’esperienza non meno traumatica.

“Mi hanno fatto molte domande sulla mia famiglia, su mio marito e sui miei fratelli”, ha ricordato Hussain.

“I soldati continuavano a minacciare di fare del male ai miei figli, gridandomi che se non avessi detto la verità li avrebbero torturati e uccisi”.

“Continuavano a chiedere dei miei fratelli e sorelle. Uno dei miei fratelli è un avvocato, altri due sono professori e degli altri due uno è medico e l’altro fa il barbiere. Sono lavoratori, non hanno alcun legame con nient’altro. Continuavano a insistere che fossero “attivisti”, e quando ho chiesto cosa intendessero, hanno detto che conoscevo la risposta.

“Durante gli interrogatori, mi hanno legato a una sedia e una soldatessa stava accanto a me, prendendomi a calci e spingendomi con la sua arma per rispondere adeguatamente”.

“Mi hanno anche chiesto dei miei profili sui social media e ho detto loro che avevo solo Facebook. Hanno minacciato che avrebbero continuato a seguirmi su quel canale”.

Dopo aver sofferto in questa struttura di detenzione sconosciuta per 11 giorni, Hussain è stata poi trasferita di nuovo, questa volta in una prigione.

Fine della strada

Quando arrivò lì, Hussain era esausta, dolorante e affamata. Non prendeva farmaci per il diabete da giorni e la sua salute stava peggiorando. I suoi compagni di cella continuavano a gridare per chiamare un medico, che alla fine arrivò e offrì loro del cibo e alcune medicine.

Finalmente hanno potuto fare la doccia per la prima volta dopo settimane.

“Questo è stato il momento meno sofferente della mia permanenza lì. Mi sono sentita libera per un breve momento”.

Hussain è stata detenuta in questa prigione per 32 giorni. Il cibo veniva dato tre volte al giorno, ma ogni pasto non era sufficiente per una persona. Il riso, quando disponibile, era crudo.

Il 42º giorno, arrivò finalmente il momento di tornare a casa.

“Tutto quello che avete, documenti o altro, non potete portarlo con voi, lasciate tutto qui”, ha detto un soldato al gruppo di donne mentre si preparavano a partire.

“I soldati mi hanno rubato tutto. Non ho riavuto né i soldi né le mie cose. Mi hanno semplicemente restituito gli orecchini in una busta e hanno tenuto tutto il resto che mi avevano preso”, ha detto Hussain.

Ma a questo punto, Hussain pensava che la parte peggiore fosse ormai passata, solo per rimanere scioccata dal fatto che il ritorno era traumatizzante quanto l’andata.

“Dopo tre ore di viaggio, siamo state portate in un’altra grande stanza. Lì, mi hanno tolto la benda dagli occhi e ho visto un gruppo di donne palestinesi nude. Le donne soldato mi prendevano a calci e mi chiedevano di spogliarmi. Ho rifiutato ma loro hanno continuato a prendermi a calci e picchiarmi. I soldati continuavano ad entrare e uscire dalla stanza, mentre eravamo nude”.

Il gruppo di donne ha finalmente potuto rivestirsi prima del rilascio.

Ma poco prima di salire sull’autobus, un giornalista israeliano con una telecamera è venuto a riprendere la scena, filmando il volto di Hussain.

“Un soldato mi ha detto di dire ‘va tutto bene’ alla telecamera e io l’ho fatto. Non appena il giornalista ha finito di filmare, sono stata spinta sull’autobus. Siamo state lasciate all’incrocio di Karem Abu Salem (Karem Shalom). Mi sono girata verso il soldato e ho chiesto dei miei effetti personali e dei miei soldi. Ha detto: Corri. Corri”.

“Allora sono corsa via insieme a tutte le altre donne”.

Ahmed Aziz è un giornalista palestinese residente nella Striscia di Gaza.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org