Cosa significa per Israele il cambio del linguaggio internazionale sulla Palestina

Le percezioni e il linguaggio relativo alla Palestina e a Israele stanno cambiando tra la gente comune in tutto il mondo

Fonte: English version

Di Ramzy Baroud – 3 giugno 2024

Non molto tempo fa, se si fosse detto che un alto funzionario del governo spagnolo un giorno avrebbe dichiarato che “dal fiume al Mare, la Palestina sarà libera”, l’ipotesi in sé sarebbe sembrata ridicola. Ma è proprio così che Yolanda Diaz, Vice Primo Ministro spagnolo, ha concluso una dichiarazione il 23 maggio, pochi giorni prima che la Spagna riconoscesse ufficialmente la Palestina come Stato.

Importante è il riconoscimento della Palestina da parte della Spagna, insieme a Norvegia e Irlanda. L’Europa occidentale sta finalmente recuperando terreno rispetto al resto del mondo per quanto riguarda l’importanza di una forte posizione internazionale a sostegno del popolo palestinese e del rifiuto delle pratiche Genocide di Israele nei Territori Occupati.

Ma altrettanto importante è il cambiamento del linguaggio politico riguardante sia la Palestina che Israele in Europa e in tutto il mondo.

Quasi immediatamente dopo l’inizio della guerra israeliana in corso contro Gaza, alcuni Paesi europei hanno imposto restrizioni alle proteste filo-palestinesi, alcuni addirittura vietando la bandiera palestinese, che era percepita, attraverso una logica distorta, come un simbolo antisemita.

Con il tempo, tuttavia, la solidarietà senza precedenti dei governi occidentali con Israele è diventata una vera e propria responsabilità politica, legale e morale. È così iniziato un lento cambiamento, che ha portato a una trasformazione quasi completa della posizione di alcuni governi e a un cambiamento parziale ma chiaro nel linguaggio politico di altri.

Il divieto iniziale delle proteste filo-palestinesi era impossibile da mantenere di fronte a milioni di cittadini europei arrabbiati, che chiedevano ai loro governi di porre fine al loro cieco sostegno a Tel Aviv.

Il 30 maggio, il semplice fatto che l’emittente privata francese TF1 abbia trasmesso un’intervista con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha suscitato ampie e spontanee proteste da parte dei cittadini francesi, che hanno invitato i loro media a negare ai Criminali di Guerra accusati di parlare al pubblico.

Non riuscendo a respingere la narrativa filo-palestinese, il 31 maggio il governo francese ha deciso di revocare l’invito alle aziende militari israeliane dalla partecipazione a una delle più grandi esposizioni militari del mondo, Eurosatory, in programma dal 17 al 21 giugno.

Persino Paesi come il Canada e la Germania, che hanno sostenuto il Genocidio israeliano contro i palestinesi fino alle fasi successive delle uccisioni di massa, hanno iniziato a cambiare il loro atteggiamento.

Il cambiamento di linguaggio sta avvenendo anche nello stesso Israele e tra gli intellettuali e i giornalisti filo-israeliani dei media tradizionali. In un popolare programma radio web (podcast) di marzo, lo scrittore del New York Times Thomas Friedman ha attaccato Netanyahu, affermando che “passerà alla storia come il peggior leader della storia ebraica, non solo di quella israeliana”.

Per smontare la dichiarazione di Friedman è necessario aggiungere un altro articolo, perché tale linguaggio continua ad alimentarsi della persistente illusione, almeno nella mente di Friedman, che Israele serva da rappresentazione non dei suoi stessi cittadini, ma di tutto il popolo ebraico, sia passato che presente.

Per quanto riguarda il linguaggio in Israele, esso si sta fondendo in due argomentazioni principali e contrastanti: una irrazionalmente spietata, rappresentata dai ministri di estrema destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, nonché dallo stesso Netanyahu; e l’altra, altrettanto militante e antipalestinese, più concreta.

Mentre il primo gruppo vorrebbe vedere i palestinesi massacrati in gran numero o spazzati via da una bomba nucleare, il secondo si rende conto che un’opzione militare non è praticabile, almeno per ora.

“L’esercito israeliano non ha la capacità di vincere questa guerra contro Hamas, e certamente non contro Hezbollah”, ha dichiarato il Maggiore Generale della riserva dell’esercito israeliano Itzhak Brik in un’intervista al quotidiano israeliano Maariv il 30 maggio. Brik, uno dei militari più rispettati di Israele, è solo uno dei tanti che ora stanno essenzialmente ripetendo lo stesso giudizio.

Stranamente, quando il Ministro israeliano del Patrimonio, Amihai Eliyahu, ha suggerito “l’opzione” di sganciare una bomba nucleare sulla Striscia, le sue parole trasudavano disperazione, non fiducia.

Prima della guerra, il linguaggio politico israeliano riguardo a Gaza ruotava attorno a una specifica serie di termini: “deterrenza”, rappresentata in occasionali guerre unilaterali, spesso definite come “falciare il prato”, e “sicurezza”, tra gli altri.

Miliardi di dollari sono stati generati nel corso degli anni da profittatori di guerra in Israele, negli Stati Uniti e in altri Paesi europei, tutto nel nome del mantenimento dell’assedio e della sottomissione di Gaza.

Ora, questo linguaggio è stato relegato a favore di una grande discussione che riguarda le guerre esistenziali, il futuro del popolo ebraico e la possibile fine di Israele, se non del sionismo stesso.

Anche se è vero che Netanyahu teme che la fine della guerra possa portare ad una terribile conclusione alla sua presunta eredità trionfante come “protettore” di Israele, c’è di più nella storia.

Se la guerra finirà senza che Israele ripristini la sua cosiddetta deterrenza e sicurezza, sarà costretto a fare i conti con il fatto che il popolo palestinese non può essere relegato e che i suoi diritti non possono essere trascurati. Per Israele, una simile realizzazione significherebbe la fine del suo progetto coloniale, iniziato quasi 100 anni fa.

Inoltre, le percezioni e il linguaggio relativo alla Palestina e a Israele stanno cambiando tra la gente comune in tutto il mondo. L’idea sbagliata del “terrorista” palestinese  viene rapidamente sostituita dalla vera rappresentazione del Criminale di Guerra israeliano, una categorizzazione che ora è coerente con le opinioni delle più grandi istituzioni giuridiche del mondo.

Israele ora si trova in un isolamento quasi totale dovuto, in parte, al Genocidio commesso a Gaza, ma anche grazie al coraggio e alla fermezza del popolo palestinese e della solidarietà globale con la causa palestinese.

Ramzy Baroud è un giornalista e redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo libro, curato insieme a Ilan Pappé, è “La Nostra Visione per la Liberazione: Leader Palestinesi Coinvolti e Intellettuali Parlano”. Ramzy Baroud è un ricercatore senior non di ruolo presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA), dell’Università Zaim di Istanbul (IZU).

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org