Palestina. Reportage dall’impianto tessile della famiglia Hirbawi, nel centro di Hebron. Oggi ormai sono gli unici a produrre, seguendo i metodi tradizionali, il tipico capo di abbigliamento arabo, divenuto negli anni un simbolo della resistenza dei palestinesi all’occupazione britannica prima e israeliana poi. Indossata negli anni durissimi della prima e della seconda Intifada col tempo la «kufiya» ha assunto il ruolo di simbolo di resistenza per i popoli di tutto il mondo
Quindici telai lavorano ininterrottamente producendo un frastuono meccanico assordante. Impossibile comunicare senza dover urlare, ma gli operai non sembrano farci caso: conoscono bene i loro compiti e non hanno bisogno di parlare tra loro se non nelle pause per il tè, sempre disponibile, ben caldo, in un servizio arrangiato al centro del grande capannone illuminato dai neon della fabbrica. Tessuti di vari colori e fantasie fuoriescono dai telai, mentre gli operai passano da una macchina all’altra con in mano un semplice coltello da cucina per eliminare le piccole imperfezioni del prodotto.
Immagini di Yasser Arafat campeggiano un po’ ovunque nello stanzone della fabbrica. Una gigantografia del leader palestinese accoglie i visitatori nello shop adiacente i macchinari. I ritmi scomposti dei telai arrivano talvolta a sovrapporsi. Per alcuni istanti sembra che i macchinari cerchino di accordarsi, trovare una velocità comune e allora, nell’aria, regna un senso di sospensione, di attesa. Pochi attimi, poi tutto torna all’abituale chiasso che accompagna i lavoratori della Hirbawi Textile Factory .
Telai e Arafat
La fabbrica tessile della famiglia Hirbawi, ad un centinaio di metri dal centro di Hebron, Cisgiordania, è un luogo singolare. È l’unica fabbrica rimasta in tutta la Palestina a produrre le originali kefieh, il tipico capo di abbigliamento arabo, divenuto negli anni un simbolo della resistenza dei palestinesi all’occupazione britannica prima e israeliana poi. Non esiste un altro luogo del genere in tutta la Palestina. Sanno di essere, in qualche modo, non solo un’azienda che produce ricchezza e dà lavoro, già fatto questo di per sé speciale, ma anche un fattore di resistenza alla sparizione dei presidi della cultura araba e soprattutto palestinese.
In tutto il mercato interno della Palestina, da Ramallah, a Gerusalemme, fino a Tel Aviv, la quasi totalità dei commercianti tratta articoli di provenienza cinese. Tutto l’artigianato in vendita è un falso, una replica, uno scialbo tentativo di riprodurre per attrarre il turista alla ricerca di facili ricordi da portare con sé. Il motivo di tutto questo è semplice: le riproduzioni cinesi costano meno della metà degli originali, i guadagni aumentano e i turisti non fanno domande. Sono abituati ad acquistare souvenir senza chiederne la provenienza e, d’altro canto, non c’è possibilità di scelta: tutti vendono più o meno le stesse cose.
In pochi anni queste repliche di bassa qualità hanno invaso il mercato interno della Terra Santa soffocando l’artigianato locale palestinese, già pesantemente compromesso dalle conseguenze dell’occupazione israeliana e dall’apertura del mercato alla competizione mondiale. Queste sono le logiche della globalizzazione. La fabbrica degli Hirbawi, con i suoi quindici dipendenti, rappresenta, pertanto, un caso più unico che raro, con la sua scelta di produrre prodotti di qualità nella terra cui appartengono, anche se a costi un pò più elevati.
L’azienda esiste dal 1961, quando Yasser Hirbawi, un commerciante palestinese che importava tessuti e kefieh dalla Giordania, decise di investire nell’acquisto di telai per far partire una produzione interna di kefieh. Da qui l’acquisto dei primi due telai, due vecchi Suzuki fatti venire dal Giappone, antiche glorie meccaniche ancora oggi in funzione insieme agli altri tredici telai che nel tempo gli sono stati affiancati.
Yasser Hirbawi intuì, verso la fine degli anni ’90, il bisogno di differenziare il prodotto e cominciò, quindi, a produrre kefieh di fantasie e colori diversi, per andare incontro alle esigenze di mercato, sempre più interessato alle sciarpe palestinesi originali. La Hirbawi Textile Factory è diventata nel tempo sinonimo di originali kefieh palestinesi e, ancora più importante, fatte da lavoratori palestinesi. Yasser Hirbawi non c’è più e oggi la fabbrica è gestita dai suoi tre figli che la amministrano nel ricordo di ciò che il loro padre voleva che fosse: una azienda florida che contribuisse a tenere vivo, nel luogo cui appartiene, uno dei simboli più forti della resistenza, ma anche dell’esistenza stessa, del popolo palestinese.
Nakba e Intifada
Racconta Yudeh, uno dei figli di Yasser, responsabile alle vendite, che per i palestinesi la kefiah è un simbolo, un oggetto che rappresenta un forte legame con la terra, con la vita nei villaggi, dei contadini, con la resistenza del popolo e la sua lotta per la causa palestinese. Ha una connessione con la Nakba, la «catastrofe» del 1948. Ha una connessione con Arafat, il quale l’ha resa celebre nel mondo indossandola per tutta la vita. I palestinesi l’hanno indossata negli anni durissimi della prima e della seconda intifada e, col tempo, la kefiah ha assunto il ruolo di simbolo di resistenza per i popoli di tutto il mondo, non solo della Palestina.
Per Yudeh, l’importazione dei modelli cinesi rappresenta il problema più grande che la sua azienda deve affrontare. I prezzi stracciati delle repliche cinesi rappresentano un ostacolo al successo del prodotto originale e, i commercianti locali, anche a causa dei bassi margini di profitto, preferiscono comprare e vendere i modelli cinesi, piuttosto che investire in macchinari e dare vita ad un processo di produzione interno, molto difficile e costoso.
Il fratello maggiore dei tre Hirbawi, Abel Azim, preferisce parlare del contributo che la fabbrica sta dando nel mantenere viva una parte della cultura palestinese. Qui, dice, si mantiene un collegamento con la cultura e con la terra, non è solo una questione di business. Il nostro prodotto è pieno di significato, continua Abel Azim, facendo notare come il disegno della trama della kefiah ricordi una recinzione, un filo spinato. Metafora del dramma palestinese, del muro della separazione.
All’interno della fabbrica lavorano attualmente quindici persone, inclusi i membri della famiglia, suddivise nella produzione e nel lavoro di rifinitura delle kefieh, cui provvedono cinque donne chine sulle macchine da cucire in un secondo stabilimento sul lato opposto della strada.
«Hatta»
Nessuno dei fratelli parla volentieri dell’occupazione, dei problemi che la loro città in particolare ha affrontato: Hebron, luogo di conflitti fin dai primi anni del secolo scorso, paradigma del concetto di separazione e segregazione che la politica colonialista israeliana compie nei Territori, con la sua strada «fantasma» Shuhada Street, che taglia la città in due fin dagli accordi di Oslo del 1994 e da allora interdetta agli arabi.
Gli Hirbawi tengono a sottolineare di non aver particolari problemi nei rapporti con Israele, a patto di ignorare i ritardi nelle spedizioni nei porti israeliani, la necessità di affidarsi a corrieri privati per esportare i propri prodotti, o al fatto che, qualche volta, dalla valigia di un turista, durante i controlli all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, una Hirbawi possa accidentalmente sparire. Dettagli.
Ma la storia della kefiah, che in queste terre preferiscono chiamare «hatta», come simbolo di lotta, risale a molto prima di Arafat. Tutto inizia con la Dichiarazione Balfour del 1917, un documento del ministro degli esteri britannico Arthur Balfour, indirizzato a Lord Walter Rothschild, esponente di primo piano della comunità ebraica, in cui il governo britannico esprimeva il suo pieno appoggio nel processo sionista di creazione dello stato ebraico in Palestina.
Questo generò diversi anni dopo la «Rivoluzione della Palestina» che avvenne negli anni dal 1936 al 1939, in pieno mandato britannico. Una rivoluzione nata con lo scopo di contrastare l’appoggio britannico al progetto sionista e l’immigrazione ebraica di massa in Palestina, triste preludio di ciò che poi nel 1948 diverrà la «Nakba», la catastrofe della cacciata della popolazione palestinese dai territori del neo formato stato d’Israele. La cosiddetta de-arabizzazione di Israele che Ben Gurion teorizzava nelle sue riunioni di gabinetto private. La kefiah tradizionale, quella a tinta bianca e nera, veniva indossata dai contadini, mentre gli uomini d’affari usavano un modello completamente bianco.
Durante la rivoluzione, la popolazione contadina che prendeva parte agli scontri e alle contestazioni, soprattutto nelle città, usava indossare la kefiah per rendersi irriconoscibile. I soldati inglesi cominciarono presto ad imprigionare chiunque indossasse la kefiah, ordinando al tempo stesso che nessun palestinese la indossasse più. Questo causò una reazione inaspettata: i palestinesi cominciarono ad indossarla in segno di protesta e di solidarietà per i combattenti, rendendosi indistinguibili tra di loro. Grazie a questo fatto, i combattenti rivoluzionari potevano quindi dileguarsi nella folla dopo aver compiuto un’incursione nelle città.
Da qui, l’inizio della lunghissima storia di simbolo di resistenza della kefiah. Secondo Nassar Hibrahim, scrittore e giornalista palestinese, esperto del processo di de-arabizzazione, l’invasione dei prodotti cinesi a svantaggio dell’artigianato locale non è che una conseguenza dell’occupazione israeliana. Se la Palestina potesse disporre della propria economia, controllare le risorse naturali, l’economia interna e l’industria, le cose sarebbero ben diverse oggi, dice Hibrahim. L’industria e la produzione di artigianato locale sono stati annientati due volte nella storia recente: durante il mandato britannico e in seguito dall’occupazione israeliana.
Per il mercato locale non c’è possibilità di competere per via dei costi delle risorse idriche ed elettriche, spesso sottratte alle popolazioni palestinesi dei Territori e poi rivendutegli a prezzi maggiorati. Secondo Hibrahim, il Protocollo di Oslo del 1994 fissa quello che i palestinesi possono esportare ed importare e non è stato stilato per nuocere all’economia israeliana. Il problema è quindi economico, prima che culturale, stando alle sue parole, ma le conseguenze non finiscono qui.
Assimilazione e appropriazione
La cultura arabo palestinese è oggi forse più a rischio di quanto non sia mai stata nella sua storia recente. E’ in atto un processo di assimilazione e appropriazione dei capisaldi culturali del popolo palestinese da parte di Israele che altro non è che l’ennesimo capitolo del progetto colonialista dello Stato ebraico. Oggi, nei ristoranti alla moda di Tel Aviv, molti dei piatti della tipica cucina araba, come l’hummus e i falafel, vengono proposti come specialità israeliane, e diversi negozianti vendono abiti femminili di fattura araba come caratteristici di Israele.
Addirittura, aggirandosi per le strade della città vecchia di Gerusalemme, è possibile trovare kefieh coi colori bianco e blu della bandiera israeliana. Questo è quello che Hibrahim individua come processo di distruzione di una cultura e dell’appropriazione dei suoi capisaldi culturali.
Questo è il vero e più grave problema, quando provano a distruggere la memoria di un popolo, cambiando la narrazione per annientarne il ricordo. Se cambi la semantica, puoi anche cambiare la storia tanto in profondità da poter cancellare le tracce di un popolo, con la complicità del tempo e di una comunità internazionale sorda alle richieste di giustizia del popolo palestinese. Tra dieci anni, chiosa tristemente Hibrahim, forse anche la kufyiah verrà venduta come un tipico prodotto israeliano.