Il passato culturale della Palestina: tra espropri e ricostruzione

Gli sforzi dei palestinesi e dei loro alleati continuano a sfidare l’impatto della Nakba, assicurando il futuro dell’identità culturale palestinese in patria e all’estero.

Fonte: English version

Odette Yidi David – 15 maggio 2020

La violenta interruzione della vita dei palestinesi e la  distruzione del tessuto sociale della Palestina nel 1948 sono fenomeni ancora in corso che incidono su ogni aspetto del lavoro intellettuale e artistico dei palestinesi sia in patria che nella diaspora. Storie come “Ritorno ad Haifa“ di Ghassan Kanafani’s e opere d’arte come “Broken Weddings ” di Amer Shomali evidenziano una dimensione chiave della Nakba, vale a dire come Israele ha  perseguito la legittimazione del suo progetto coloniale -colonizzatore attraverso la distruzione, la cancellazione, l’espropriazione e l’appropriazione dell’eredità  culturale palestinese.

L’artista palestinese Amer Shomali ha  presentato la sua monumentale opera “Broken Weddings” alla dodicesima edizione dell’Art Dubai festival nel 2018. Composto da sei pannelli con 9.639 pezzi di  tessuto ricamati montati su alluminio e basi in legno, uno dei pannelli fa parte dell’Institute for Palestine Institute for Palestine Studies’ Keyword: Mostra d’arte in Palestina , allestita a Washington, DC e online. Ogni pannello rappresenta un tradizionale motivo di ricamo palestinese (tatreez) proveniente da uno specifico  villaggio svuotato durante la Nakba. L’opera d’arte è stata ispirata dalla vendita nel 2017,durante un’asta israeliana, di un abito da sposa palestinese ricamato mai indossato. Quel pezzo  fu messo all’asta dal figlio di un membro dell’Haganah che affermò di averlo trovato  in una casa araba “abbandonata” nel 1948 .

Un ulteriore esempio di arte come mezzo di espressione della coscienza politica è la novella del 1969 di Ghassan Kanafani “Ritorno ad Haifa”. La storia, una versione romanzata di un racconto storico, narra di una coppia di palestinesi che fuggono durante la Nakba lasciando indietro, nel caos, il figlio di cinque mesi. La coppia ritorna nella sua ex casa sulla scia della guerra del giugno 1967, solo per trovarla abitata da un giovane vestito con un’uniforme militare israeliana, che si rivela essere il loro figlio ormai cresciuto, Khaldun. Nella sua novella Kanafani evidenzia un episodio in cui le forze sioniste sequestrano i libri di Said. Le rapine di libri erano una pratica comune durante la Nakba,  durante la quale i bibliotecari della biblioteca nazionale israeliana  solevano accompagnare i soldati entrando nelle case dei palestinesi  per raccogliere il maggior numero di libri possibile. Questo  è  un altro tema che contribuisce agli atti di genocidio culturale.

Oltre che dalla distruzione di vite, proprietà, villaggi e centri urbani avvenuti durante la Nakba, la cultura e le tradizioni sono state anche minacciate dalla dispersione dei palestinesi e dalle espropriazioni avvenute ai loro danni. Manufatti ed espressioni culturali sono stati spesso eliminati o  incamerati dallo stato israeliano durante lo sforzo di “ricontestualizzazione” e “istituzionalizzazione” dei musei israeliani, qualcosa che equivale a un genocidio culturale. Una rapida rassegna del panorama museale israeliano  aiuta a far luce sulle implicazioni e sulle conseguenze del genocidio culturale palestinese durante la Nakba.

La battaglia per la rappresentazione

Nel 1938, il Palestine Archaeological Museum, istituito dagli inglesi , aprì le sue porte. Ospitava reperti provenienti da scavi  che dimostravano la presenza secolare della popolazione indigena nel territorio. Nel 1967, quando le forze israeliane si impadronirono di Gerusalemme est, l’Israeli Antiquity Authorities trasferì i suoi uffici nel museo e l’Israel Museum iniziò ad amministrarlo e a gestirlo. Il Museo archeologico della Palestina fu ribattezzato Rockefeller Museum, in onore di  John D. Rockefeller Jr., il filantropo americano che ne aveva  finanziato la costruzione.

Non solo la “Palestina” fu cancellata dal nome del museo, ma anche i palestinesi dalla sua storia. Un opuscolo pubblicato dal museo nel 2006 evita in modo lampante di utilizzare il termine “palestinese” in tutte le parti del testo, spiegando che i manufatti in mostra sono rappresentazioni delle diverse popolazioni e stili di vita presenti nel territorio prima della colonizzazione di Israele. Inoltre, l’opuscolo allude alla prominente famiglia palestinese degli al-Khalili, da cui il Mandato acquistò il terreno su cui costruire il museo, come “aristocratici di Hebron che si stabilirono a Gerusalemme nel 17 ° secolo”. Non riconosce deliberatamente la famiglia come araba e / o palestinese.

L’esame di altri piccoli musei in Israele, come l’Etzel Museum o l’Haganah Museum,  dimostra anche la rimozione politica dei palestinesi dalla narrativa nazionale israeliana. I palestinesi rappresentano oltre il 20% della popolazione israeliana, ma non sono in grado di  trovare la propria storia all’interno del panorama museale israeliano.

Ripensare il futuro

Nonostante le sfide poste dall’occupazione e dalle condizioni diasporiche di gran parte della popolazione, i palestinesi sono stati in grado di respingere la “ricontestualizzazione” della loro cultura praticando diverse forme di resistenza culturale.

Una per tutte riguarda la poesia, sopravvissuta al genocidio culturale sfidando le numerose e ripetute restrizioni imposte dalle autorità di occupazione all’espressione culturale e politica. La poesia ricopre una posizione significativa nella resistenza culturale palestinese a causa dell’importanza di lunga data di questa forma letteraria per i popoli di lingua araba in generale. Le poesie palestinesi di Mahmoud Darwish, per esempio, sono recitate in tutto il mondo arabo e oltre, elevando la narrazione palestinese al di là del regno del dibattito politico.

Lo sforzo di ricostruire, preservare e comunicare la memoria palestinese ha trasceso i confini geografici della Palestina storica. Questa spinta collettiva volta a salvaguardare la memoria culturale palestinese è evidente in importanti opere artistiche e letterarie, nonché attraverso il recente consolidamento del settore museale pubblico in Palestina. Negli ultimi anni sono stati anche inaugurati numerosi locali culturali e artistici nell’emisfero occidentale, come il Palestine Museum nel Connecticut, negli Stati Uniti e il Palestine People’s Museum a Washington DC.

Numerose associazioni di base della diaspora hanno iniziato a mobilitarsi a livello internazionale, contribuendo a innescare  dibattiti sull’identità palestinese. Nel 2019, il Club Unión Árabe Palestino , fondato nel 1954 in Perù, ha  ospitato a Lima la sua seconda edizione di “Taqalid” (tradizioni in arabo), un evento culturale di quattro giorni che ha riunito oltre tremila palestinesi della diaspora provenienti da una dozzina di altri paesi dell’America Latina. Per un lungo weekend, un sobborgo di Lima è diventato l’epicentro della diaspora palestinese nell’emisfero occidentale. Diverse attività culturali, tra cui una sfilata di moda tatreez, esibizioni quotidiane di dabke, competizioni sportive, lezioni accademiche, esperienze gastronomiche e un mercato artigianale   hanno permesso alle famiglie palestinesi di celebrare la loro identità e riconnettersi con le loro radici.

Gli sforzi dei palestinesi e dei loro alleati continuano a sfidare l’impatto della Nakba, assicurando il futuro dell’identità culturale palestinese in patria e all’estero.

Nei ricordi, è possibile trovare la speranza.

 

Odette Yidi David è una ricercatrice palestinese-colombiana e professoressa a contratto presso l’Università del Norte. Ha conseguito un Master in Studi sul Vicino e Medio Oriente presso la SOAS e ricopre il ruolo di direttrice dell’Istituto di cultura araba della Colombia.

 

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org

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